Tre domande a Pablo Martinez su Bibbia e violenza

  La Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?

La Bibbia contiene descrizioni di violenza, non sue prescrizioni. Tutti i racconti che hanno a che fare con la violenza hanno a che fare in ultima analisi con la malvagità della natura umana che è la sorgente di tutte le «guerre e le contese» (Gc 4:1).

È vero che ci sono alcuni casi in cui i giudizi di Dio implicano un certo grado di violenza che in apparenza potrebbe essere attribuita a Dio. Questi testi dovrebbero essere interpretati attentamente nel contesto dell’esecuzione di tali, divini giudizi, allor quando il peccato del popolo era «giunto fino al colmo» (Gen 15:16). Dio non punisce in maniera capricciosa (Il SIGNORE! il SIGNORE! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà, Es 34), ma un Dio giusto ha il diritto e il dovere di giudicare e di scegliere come farlo. Dio ha usato sia il suo popolo sia le nazioni pagane come mezzi di giudizio. Per esempio, Dio ha usato la ferocia dell’esercito dei Caldei (Abacuc 1––2) come uno strumento per manifestare il giudizio sul suo popolo. Le pagine violente della Bibbia, allora, quelle che sembrano riferibili a Dio si trovano sempre in questo contesto di amministrazione della giustizia.

 

  1. Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?

Nella Bibbia la violenza è uno specchio del carattere dell’uomo e non del carattere di Dio. Si noti che noi tutti abbiamo una tendenza a proiettare sugli altri i nostri fallimenti e i nostri errori. Ritenere che il problema della violenza si collochi in Dio non è altro che una proiezione e un auto inganno (Ger 17:9). Gesù stesso ha avvertito: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?” (Lc 6:41–42). Ha chiaramente insegnato che la radice del male a tutti i livelli si trova dentro di noi. Ha spiegato con termini molto chiari la ragione per la quale nel mondo c’è tanta difficoltà «È quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo; perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri, … » (Mc 7:20–23).

Dio ha in abominio la violenza a tal punto da essersi pentito di aver creato l’uomo poiché «Il SIGNORE vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo» (Gen 6:5). Egli non poteva sopportare così tanto male.

La vera essenza del carattere di Dio è amore, ed è per questo motivo che ogni forma di violenza ferisce il cuore di Dio «Il SIGNORE si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo» (Gen 6:6).

Il Dio della Bibbia non solo afferma di essere amore ma lo ha anche dimostrato. Il suo venire a noi sulla terra in Gesù Cristo e nella sua sofferenza per noi sulla croce è la suprema e insuperabile prova che l’essenza di Dio è amore.

 

  1. Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?

Penso che sia esattamente il contrario: il cristianesimo è storicamente riconosciuto come la religione dell’amore. Si presuppone che l’amore sia l’aspetto distintivo di chiunque si rapporti a Gesù. L’amore è l’aspetto preminente e il carattere peculiare della vita e dell’insegnamento di Gesù. Tutto in lui ruota intorno all’amore poiché egli ha dato la precedenza all’amore. L’amore è la motivazione e l’apice di tutto ciò che era, che insegnava e che fece.

Una religione che riassume l’intero dovere dell’uomo in due frasi – amare Dio e amare il prossimo – non può essere altro che un contributo salutare e positivo alla società.

Oggi anche i pensatori non cristiani riconoscono che la nostra civiltà europea sia appoggiata su un tripode con tre pilastri: il sistema giuridico di origine romana, la filosofia greca e l’etica ebraico–cristiana.

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Tre domande a Valerio Bernardi su Nazione, Sovranità e Patriottismo

In ragione di alcuni eventi politici in giro per il monso, tra cui i più eclatanti sono la presidenza Trump negli USA e la Brexit in Gran Bretagna, sembra sia tornato di moda il concetto difesa della Nazione. Come possiamo definire la Nazione oggi e quando nasce questo concetto?

 

Il concetto di Nazione è complesso ed ha una lunga storia. Nell’antichità, almeno in quella dell’Occidente, la Nazione era assicurata da un territorio, da un sovrano che aveva origini di tipo divino e da una divinità o una serie di divinità che presiedevano al bene dello Stato. Questo schema si è ripetuto quasi per tutta l’antichità, anche se i Greci hanno apportato una grossa variazione: quella di un Governo del popolo, o, quanto meno dei cittadini liberi di un determinato territorio che gestivano il potere. Anche Israele è stata un’eccezione: il concetto di Nazione veniva sempre dato soprattutto dal Divino e dalla Terra. C’è poi stato un processo di omologazione alle altre civiltà che ha portato gli Ebrei ad avere un re, un territorio ed un Tempio. Questo tipo di forma di stato è, di fatto, durata sino alla fine del Medio Evo, pur con delle grosse varianti. Con l’avvento dell’Illuminismo, l’uguaglianza formale tra gli uomini, l’influenza di alcune delle idee del Protestantesimo che vedevano nella comunità la fonte del potere, ha permesso di sviluppare quello che definiamo Stato moderno, legato ad un territorio, ad un popolo e, eventualmente, ad una manifestazione di sovranità che non necessariamente era espressa da un monarca. Nell’Ottocento entra in gioco anche l’idea di Nazione, ovvero di un popolo (più o meno omogeneo) che si identifica con delle radici culturali precise (il parlare la stessa lingua, il riconoscersi in una storia comune, l’abitare su un territorio omogeneo, l’avere una stessa radice religiosa). E’ sulla spinta di queste istanze nascono gli Stati-Nazione. La fine del primo conflitto mondiale nel 1918 sancisce in Europa la fine degli Imperi multinazionali e il consolidamento dell’Idea che ogni Stato corrispondesse ad una particolare Nazione, ad un particolare ethnos. Questa idea è stata ulteriormente rafforzata (anche se non con gli stessi esiti) dal processo di decolonizzazione, in cui si è concessa l’indipendenza a differenti Stati, ispirati al modello europeo, anche se, molto spesso mancavano gli stessi presupposti e spesso hanno dato luogo a guerre civili fra gruppi che erano disomogenei. Le guerre civili, presente anche di recente in Europa, dimostrano come un tale impianto sia piuttosto fragile e non necessariamente porti alla stabilità politica.

 

 

Il voler difendere la propria Nazione ha portato, nel corso della storia, al sorgere di nazionalismi, dittature e guerre. Appoggiare il nazionalismo è rischioso?

 

  Bisognerebbe distinguere tra  un sano patriottismo ed il nazionalismo. Voglio fare un esempio proprio con il Risorgimento italiano. La moderna storiografia (quella che si è sviluppata attorno al centocinquantenario nel 2011) ritiene i padri risorgimentali portatori di valori positivi che cercavano di portare avanti una idea di Nazione che fosse guidata da Dio e che corrispondesse anche ad un’indole di tipo popolare, capace di coinvolgere la maggior parte della popolazione. Sappiamo come tutto ciò sia stato solo in parte raggiunto. Più recentemente Martha Nussbaum parlava di una congiunzione tra patriottismo e cosmopolitismo, affermando, sulla scia della tradizione stoica e di quella illuminista, che, pur essendo in primo luogo cittadini del mondo (in quanto appartenenti al genere umano), dobbiamo amare la nostra patria e difenderla seguendo soprattutto gli esempi positivi che l’hanno difesa in quanto custode di preziosi diritti civili democratici. Se la patria è questo ritengo che nessuno debba contrastar l’amor patrio. Altra cosa è il nazionalismo. Sviluppatosi soprattutto tra fine XIX secolo e XX secolo, la tendenza è quella non di vedere la patria come la culla dei valori di giustizia e di democrazia, ma come difensore della propria razza, della propria etnia e si vedono soprattutto gli altri come minacce (si pensi allo “spazio vitale” di gui aveva bisogno la Germania, o della “vittoria mutilata” italiana dopo il primo conflitto mondiale). Vi è anche l’idea di una supremazia culturale dettata da ragioni pseudostoriche. Il Nazionalismo nasce così ed è intrinsecamente razzista e xenofobo: razzista perché deve per forza credere che esiste un popolo superiore agli altri, xenofobo perché ha sicuramente paura di coloro che provengono da radici culturali diverse. Se il caso più eclatante del XX secolo è stato il nazismo con la presunta superiorità della razza ariana, non bisogna che il nazionalismo ha affetto anche popolazioni “avanzate” come quella britannica e francese (si pensi al trattamento che ebbero i Boeri nelle guerre anglo-boere in Sudafrica a fine XIX secolo, o alle spietate politiche coloniali dei Francesi). Oggi il nazionalismo ritorna soprattutto in quelle nazioni che sono in maggiore crisi di identità. Ecco che così ci possiamo spiegare il ritorno del nazionalismo russo (che in realtà non era sopito neanche sotto il comunismo), i nazionalismi balcanici, quello ungherese e quello anche italiano. Si tratta di cercare sicurezze in un mondo che sicuramente è molto più mobile e indefinito di una volta. E’ una cosa che ha ben capito Toni Negri che, da buon internazionalista di stampo marxista, afferma che viviamo in un nuovo Impero diverso da quelli antichi, ma fortemente internazionale e globalizzato. Il rischio del ritorno di un conflitto tra diversi nazionalismi è sempre incombente in una situazione di rivendicazione di priorità che in realtà oggi non esistono più. Ecco perché “predicare” il ritorno ad una Nazione forte, può diventare il presupposto della guerra.

 

 

Cosa possiamo dire da cristiani a proposito dell’idea di Stato-nazione e del risorgere di atteggiamenti di tipo nazionalistico?

 

Il Cristianesimo delle origini non ha conosciuto il concetto di Stato-Nazione moderno ma soprattutto l’Impero Romano ed una certa nostalgia, da parte di alcune frange, dello stato di Israele, non tanto come Stato etnico, ma come possessore della Terra e  indipendenti rispetto ad un’autorità straniera e pagana. Nell’insegnamento di Gesù appare chiara la separazione tra Cesare e Dio: si tratta per certi versi di un’anticipazione dello stato laico, ma vuole anche affermare una sua estraneità dalle questioni di tipo politico, dato che il Regno non è di questa terra. La predicazione  della salvezza è fatta in tutto il mondo (il kòsmos che è anche l’ordine), afferma il Grande Mandato in Matteo 28 e proprio per questo l’esistenza di un impero multietnico e i confini labili tra le nazioni non possonoche essere un’agevolazione per l’annuncio della Parola. Direi che il cristianesimo delle origini non avrebbe avuto nulla a che spartire con il nazionalismo e lo avrebbe visto come una sorta di idolatria dello Stato, un a sorta di ripetizione del culto imperiale, fatto in forma diversa. E’ questo quello che, nel XX secolo, è affermato nel 1934 dai teologi luterani e riformati che si riunirono a Barmen e che firmarono una Confessione che aveva come obiettivo proprio l’attacco al Nazionalismo tedesco. Non essere nazionalisti non significa non essere patriottici. Paolo in Filippesi afferma: “Io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio d’Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile. Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo.” Egli ritiene anche la sua appartenenza etnica (di cui rimane orgoglioso) un danno a causa di Cristo. Penso che il nostro atteggiamento dovrebbe essere analogo a quello di Paolo: possiamo anche essere orgogliosi di appartenere ad un Paese, purché questo non divenga danno per l’annuncio della Parola e porti, come dicevano i teologi di Barmen nel 1934 ad una nuova idolatria da cui dobbiamo rifuggire e come hanno più volte ribadito nella storia le confessioni di origine anabattista (o con un sfondo teologico simile) che hanno accentuato più la funzione profetica della Chiesa che quella politica.

 

Tre domande a Pileria Pellegrino sull’insegnamento in carcere

Liberi dentro

L’uomo è nato libero
senza le esperienze è in catene.
Vorrei viaggiare per un istante
e sentire il calore del sole sulla mia pelle.
Conoscerò piccoli volti giovani
ma già consumati e pieni di rughe
e appesantiti da lunghe tracce
nonostante la tenera età!
Scoprirò vicoli nascosti
e a me sconosciuti
dietro le ombre della notte.
Viaggerò e scoprirò il mondo
i giorni e le notti passeranno lenti
nelle mie fragili mani che vogliono abbracciare il mondo.
Partirò, e questo giovane uomo,
ma già consumato, pieno di rughe e appesantito,
nonostante l’età,
scoprirà il mondo, con l’ansia di un bambino
e… parlerà di libertà! (Leonardo Guastella)

 

 

 

Come è iniziata l’esperienza?

Dopo anni di lavoro con preadolescenti e adolescenti, ho sentito il desiderio di iniziare una nuova “sfida” con un segmento di “utenti” a me ancora sconosciuto. Così tra le opzioni avevo espresso le sedi di istruzione per adulti, serali e carceri.

Mi animava il desiderio di provare un’esperienza nuova, di forte impatto emotivo, che mi desse nuovi stimoli e che mettesse in qualche modo alla prova la mia capacità di adattare il mio approccio didattico a situazioni non standardizzate.

Alla notizia del mio trasferimento presso la sede carceraria non ero quindi sorpresa, l’avevo chiesta! A pochi giorni dall’inizio delle attività didattiche due anni fa, un turbinio di pensieri cominciava a tempestare la mia mente: che persone avrei avuto di fronte? Con chi mi sarei confrontata? Ero capace di affrontare questa nuova situazione? Non avevo delle risposte, solo consigli e rasserenamenti da parte dei colleghi che nel frattempo avevo avuto il piacere e l’onore di conoscere. Ed è così che cominciai, senza certezze, quello che è diventato un lavoro sul campo tout court,

in cui le variabili in gioco sono molteplici ed in cui non esistono modelli prestabiliti da “calare”.

 

Qual è la tipologia di utenti?

I corsisti sono adulti, italiani e stranieri, consapevoli della loro condizione e piuttosto interessati a quello che facciamo. Non è possibile individuare una tipologia specifica perché provengono da ambienti sociali, economici e culturali molto differenti tra loro. Ognuno con il proprio vissuto, le proprie esperienze.

Dopo un periodo di “valutazione partecipata”, in cui ci si è resi vicendevolmente conto con chi si interagisse, non ho dovuto fare il minimo sforzo per ottenere la loro fiducia. Si è instaurato un clima sereno, in cui si comunica senza veli, si basa tutto sul rispetto e la franchezza.

 

Come si svolgono le lezioni e a chi sono rivolte?

Le lezioni si svolgono normalmente al mattino dalle 8.30 alle 12.30. Gli studenti vengono chiamati e, dalle loro celle, raggiungono le aule per la lezione. Non ci si assenta se non per colloqui familiari o con gli avvocati, per processi, per malattia o per quella che viene definita “carcerite”, malinconia ed inquietudine che talvolta condiziona i detenuti. Inoltre può capitare di non trovare più qualcuno di loro un giorno, perché trasferito, scarcerato o passato a misure detentive alternative. Nella casa circondariale “Sergio Cosmai” sono presenti due distinti indirizzi di studi per la scuola secondaria di secondo grado: IPSEOA, l’Istituto Professionale per i Servizi per l’Enogastronomia e l’Ospitalità Alberghiera, e l’ Istituto Tecnico Settore Economico Indirizzo Amministrazione, Finanza e Marketing, ex Ragioneria. Gli utenti hanno la possibilità di riprendere gli studi interrotti in passato oppure di iscriversi  ex novo. Tutti si iscrivono volontariamente, senza nessun obbligo.

L’approccio didattico è difficile?

Chi insegna ai ‘ragazzi difficili’ deve riuscire a costruire il tempo interiore dell’alunno che ha davanti, il quale vive invece un tempo fatto a pezzi, senza alcuna logica. Vive un tempo che è tempo perso.  Insegnare diventa quindi educare a dare valore al proprio tempo,  e in questo tempo cercare di educare ad apprendere.

Dove per educare si intende “ex ducere”, condurre fuori la persona che è in sé. Mi piace parlare di “persona” con loro in quanto nelle aule scolastiche non voglio identificare gli studenti con reati o pene, esistono solo le persone, e giocando con le lettere del termine “persona” usiamo il “sono per” a cui diamo significato giorno per giorno.

Così durante le lezioni non c’è differenza di approccio tra alunni che hanno da scontare pene di diversa durata.

Il carcere è un luogo di sosta, di passaggio per chi ha sbagliato, luogo  ideato per permettere di ripensare all’errore commesso: si deve allora superare la colpa per arrivare alla responsabilità. La pena deve diventare diritto e non solo punizione. Diritto di poter avere un tempo nuovo, ed una nuova opportunità.

 

Come ci si rapporta con uno studente che ha un fine pena lungo o addirittura un “fine pena mai”?

Come con gli altri, cercando di dare valore al tempo, coltivando il loro interesse manifestato in domande e desiderio di approfondire; mi piace aiutare chi fa fatica provando a spiegare le cose in modi diversi. Non è importante fare belle lezioni organizzate e rigide, credo sia più interessante svolgere buone ed efficaci lezioni in cui ci sia spazio anche per l’improvvisazione ed i riferimenti alla cultura popolare, cercando sempre la chiave di interesse in ognuno di loro e lasciando che essi viaggino all’interno del loro immaginario e dei loro racconti. Nasce così uno scambio assolutamente reciproco ed anche io imparo tanto quanto loro.  Ascoltare è fondamentale e sapere che corde toccare mi permette di tracciare itinerari diversi per ogni argomento, a seconda dell’obiettivo e dei punti da affrontare. Avendo pochi allievi diventa più facile creare un gruppo affiatato.

Cosa significa essere privati della libertà?

Non è facile rispondere a questa domanda. Sono abbastanza convinta che la reclusione passiva poco abbia di riabilitante. Ed è per questo che quando la scuola entra dentro un carcere ha un compito forte e delicato allo stesso tempo.

Entrare in classe e percepire che gli studenti proprio allora vivono un momento di libertà è indubbiamente molto gratificante. Durante le lezioni ci si dimentica di essere all’interno di un carcere. Noi lavoriamo con le persone e non con i detenuti. Alcune volte capita che gli alunni parlino di libertà ed allora il campo della nostra discussione si allarga. Cosa è in effetti la libertà? Quante persone presumibilmente libere vivono in prigione, e quante persone effettivamente imprigionate vivono libere? Più di quante pensiamo e immaginiamo. Perché c’è una libertà esteriore ed una interiore. La libertà esteriore è quella di muoversi, di parlare e di pensare secondo la propria testa. Un punto comune che collega tutte queste azioni è che ognuna di esse è limitata da uno o più fattori. Il muoversi può essere limitato da una malattia, dalla disponibilità di denaro o dal contesto in cui ci troviamo, il parlare può essere limitato da problemi fisiologici o psicologici e il pensare a sua volta dalle abitudini mentali che abbiamo. La libertà interiore è quella che ci costruiamo giorno dopo giorno, quella che ci permette di essere distaccati, ma allo stesso tempo partecipi alla vita. La libertà interiore si basa su valori che sono legati non alle leggi umane, ma ad un sentire e comprendere che va oltre i limiti da noi conosciuti, o meglio, di cui siamo totalmente consapevoli.

 

Capita durante le lezioni, che si affrontino argomenti sui temi della religione e della fede?

Spesso. Sempre più spesso si affrontano discussioni inerenti la fede. Diversi studenti iniziano a sviluppare un interesse per Dio. Si soffermano a riflettere su cose verso le quali in passato non hanno mai riflettuto abbastanza. Ciò che fa breccia maggiormente nei loro cuori non è una è la religione, un insieme di credenze e di manifestazioni con cui l’uomo cerca di tendere al soprannaturale, ma è la fede, la fiducia piena e incondizionata in un Dio che  ha lasciato il cielo per farsi uomo ed incontrarci personalmente: Gesù Cristo.  Quel Gesù che è stato arrestato, che è stato incatenato, messo in prigione, interrogato, sottoposto a processo, vittima di ingiustizia umana, che si è sacrificato per rimettere l’uomo in libertà. Libertà dal peccato, dalle accuse, dai pregiudizi.  Libertà di amare di ripristinare una relazione con Lui. Gesù pertanto appare meno lontano ed irraggiungibile, ma più vicino alla quotidianità di ciascuno, come Colui che familiarizza con le nostre difficoltà e le prende su di Sé per alleviare il carico insopportabile che ci opprime. Come Colui che ci rende davvero liberi e per sempre.

Pileria Pellegrino, ex studente GBU della Calabria parla della sua attuale esperienza lavorativa in qualità di docente di Italiano e Storia, presso l’IIS “Cosentino-Todaro” di Rende (CS) con sezione  all’interno della casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza.

 

Usiamo bene la nostra vita?

di Fabio Russo

Pur lavorando da tempo nel Gruppo FIAT, ora Fiat Chrysler Automobiles (FCA), non conoscevo bene Sergio Marchionne. Certo, l’ho incontrato alcune volte in alcune occasioni, come le presentazioni dei piani industriali o le conferenze ai dipendenti.

Ritengo comunque giusto ricordare un manager come lui che, attraverso i risultati professionali che ha saputo ottenere, ha segnato un prima e un dopo non solo nella nostra azienda ma anche nel mondo dell’automobile.

Nato in Italia, cresciuto in Canada, affermatosi in Svizzera e divenuto personaggio in Italia, catapultato nel 2004 alla guida di un gruppo “tecnicamente fallito”, come lui stesso lo definì, guidato da un unico obiettivo – quello di creare valore per l’azienda -, ha saputo riportare FCA nelle mappe dell’automotive che conta, individuando – con straordinaria e “illuminata” bravura- opportunità d’alleanze invisibili agli altri, prima fra tutte la fusione con la Chrysler.

Ciò ha inevitabilmente comportato scelte impopolari o in grado, talora, di suscitare scandalo, se funzionali a un obiettivo di sviluppo, ribaltando senza timori reverenziali meccanismi sedimentati dalla consuetudine.

Un uomo duro e accentratore, implacabile con le sue prime linee e allo stesso tempo amato dai dipendenti (soprattutto negli USA) perché la sua visione e la sua instancabile determinazione di salvare e rafforzare l’azienda ha garantito loro un futuro.

A proposito della scomparsa di Marchionne, Beppe Severgnini ha scritto in un articolo sul Corriere della Sera qualche giorno fa: “Se la scomparsa di Sergio Marchionne ha colpito a fondo la sensibilità dell’Italia — nazione che di questi tempi ama mostrarsi insensibile, mentendo a se stessa — il motivo è un altro. Forse più semplice, più profondo e più difficile da confessare. Un uomo di successo, ricco e invidiato, se n’è andato di colpo, lasciandosi tutto alle spalle. Ori e stracci: la ricchezza, il successo, l’invidia e l’adulazione. Istintivamente, ci siamo posti una domanda: se tutto è così veloce e drastico, stiamo usando bene la nostra vita?

La morte è didattica, nella sua semplicità. C’è un prima e c’è un dopo. E nel prima, nel tempo che ci viene dato, ci affanniamo inutilmente. Mi è accaduto di sentire spesso, nei giorni scorsi, commenti come questo: «Ci affanniamo per fare, per accumulare, per primeggiare. E poi guarda là, scompare tutto in un attimo». Non è la versione social dell’Ecclesiaste, una ripetizione stanca della «vanità delle vanità». È la constatazione che il nostro tempo è limitato, e bisogna usarlo bene. «Siate come i giardinieri: investite le vostre energie in modo che qualsiasi cosa facciate duri una vita intera e anche di più», ha detto Sergio Marchionne due anni fa, parlando agli studenti dell’Università, a Roma.”

Avete mai pensato che le nostre vite raccontano una storia? In ogni situazione – buona, cattiva, o indifferente – le persone intorno a noi guardano e ascoltano la storia che stiamo raccontando.

La nostra storia viene comunicata non solo attraverso le nostre parole, ma anche attraverso i nostri atteggiamenti e le azioni, mentre abbiamo a che fare con i colpi duri e le benedizioni della vita.

Paolo ci ricorda che, come seguaci di Gesù, le nostre vite sono come una lettera “conosciuta e letta da tutti gli uomini; … una lettera di Cristo … scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente”  (2. Cor 3,2-3).

Che storia si può leggere nella lettera della nostra vita?

Se abbiamo sperimentato la gioia di una vita piena della grazia che viene dallo Spirito di Dio in noi, allora che la nostra vita racconti sempre la storia dell’amore e della misericordia di Cristo al mondo intorno a noi e che possiamo essere una testimonianza coraggiosa del Signore.

Fabio Russo ha fatto parte dei GBU di Torino ed è stato membro del Comitato editoriale delle Edizioni GBU; oggi e Corporate Affairs Senior Specialist presso FCA Group a Torino; è anche responsabile di una chiesa evangelica del capoluogo piemontese.

 

Tre domande a Giacomo Carlo Di Gaetano sulle migrazioni

  1. Le migrazioni di massa sono un fenomeno che è entrato con forza, a tutti i livelli, nella visione e nella percezione del mondo degli occidentali e anche degli italiani. Quali considerazioni si possono fare in questo momento?

 

Il carattere di eccezionalità dei fenomeni migratori e le reazioni che suscita rivela a mio giudizio due fatti: il primo è di ordine oggettivo ed ha a che fare con i numeri. Sebbene ci siano stati sempre fenomeni di migrazioni, quella a cui stiamo assistendo negli ultimi decenni è una escalation destinata a trasformare il volto di molte aree del pianeta. Fenomeni climatici, fattori economici, condizioni sociali, guerre, crisi demografiche, l’interconnessione mediatica globale e altro ancora hanno spinto e stanno spingendo una consistente fetta della popolazione mondiale a mettersi in movimento. È un fatto oggettivo.

Il secondo punto da rilevare è che un fenomeno antropologico ricorrente susciti, nei luoghi e nelle aree di approdo o semplicemente di transito dei flussi migratori, forme di percezione e di reazione tanto scomposte quanto più è grande la capacità psicosociale ma anche strutturale di queste aree di gestione e di risposta virtuosa al fenomeno. Mi riferisco all’Occidente, vale a dire alla parte più sviluppata del pianeta e in particolare all’Europa. In simili contesti antropici i soggetti che, su tutta la scala sociale, sarebbero deputati e comunque sono destinati a gestire il fenomeno delle migrazioni si rivelano come soggetti che hanno subito una sorta di mutazione che ha rimosso il loro vissuto e la loro storia. Tutte le popolazioni europee infatti hanno nella loro breve memoria storica la traccia delle proprie migrazioni. Migrazioni che, a parte la parentesi della Seconda Guerra Mondiale, sono state quasi esclusivamente di ordine economico.

Gli europei sono stati i migranti economici della storia degli ultimi cento anni.

La condizione attuale in cui i flussi migratori sono percepiti in un certo modo è dunque frutto di una clamorosa ed egoistica rimozione: «L’europeo medio, civilizzato, avendo il pane, un impiego, un tetto, in un quartiere relativamente sicuro, sente crescere dentro di sé l’odio allorquando perde le sue sicurezze e vede degradarsi pericolosamente l’ambiente in cui vive» (E.N.). Questo modo di guardare alle migrazioni diviene preponderante e annulla l’altra grande prospettiva della cultura europea a partire dalla quale i fenomeni migratori possono essere considerati, vissuti e gestiti, mi riferisco alla prospettiva “cristiana”.

 

  1. Esiste una prospettiva cristiana sulle migrazioni?

Per fornire una risposta a questa domanda bisogna prima di tutto verificare se il fenomeno migratorio che appare a prima vista abbastanza omogeneo (quale che sia la ragione dei soggetti che si mettono in movimento) necessita di una risposta essa stessa omogenea. Personalmente non credo che la risposta sia omogenea. Ritengo al contrario che la reazione alle migrazioni debba ruotare intorno a due fuochi ben precisi che sicuramente hanno aree di sovrapposizione ma che nella loro essenza sono da distinguere. La loro distinzione permetterà di individuare e circoscrivere una prospettiva cristiana sulle migrazioni.

Questi due fuochi sono l’ACCOGLIENZA e la CONVIVENZA.

I cristiani hanno sicuramente da dire qualcosa in entrambi gli scenari; tuttavia ritengo che il fuoco di elezione e di espressione di una prospettiva cristiana sia in particolare il primo, quello dell’ACCOGLIENZA. Nel campo della convivenza il cristiano deve tener conto che la società in generale non ha il qualificativo di “cristiana”, in quanto è abitata da soggetti che possiedono una visione del mondo diversa dalla sua (atei, cristiani con diversità confessionali, altre religioni) e questo fa sì che il tema della convivenza divenga un tema principalmente politico, frutto di mediazioni e compromessi. Non così nel campo dell’accoglienza. È qui che la prospettiva cristiana si staglia in tutta la sua chiarezza e nettezza, rivelando la peccaminosa contraddizione di un’Europa che si dice di essere cristiana “nel nome” e vive con nervosismo quando non con ipocrisia il fenomeno delle migrazioni.

La distinzione Accoglienza/Convivenza serve anche a un altro scopo: quello di identificare quale sia il punto di partenza di una visione cristiana dei flussi migratori. Qui la prospettiva cristiana sulle migrazioni deve risolvere dei preliminari problemi ermeneutici. Bisogna costruire una prospettiva cristiana dei flussi migratori partendo dalle scritture ebraiche e da tutto il bagaglio di insegnamenti legati alla terminologia sullo straniero, al rapporto tra legislazione, culto ed esigenze morali dell’antico Israele? Oppure bisogna partire dal punto in cui l’azione di Dio testimoniata nella Bibbia giunge al suo culmine nella persona e nel ministero del Gesù Cristo? Il quadrilatero di possibilità ermeneutiche e sociali che si crea (Accoglienza / Convivenza vs AT / NT) assume diverse conformazioni. Se partissimo dal NT e ci focalizzassimo sull’ACCOGLIENZA, questo quadrilatero assumere una disposizione tale da rappresentare una risposta cristiana efficace in un momento come quello attuale in cui, all’indomani delle disposizioni del nostro Governo a firma di Orlando – Minniti e di fronte ai primi drammatici passi compiuti dal nuovo Governo e dal ministero a guida Matteo Salvini, il tema delle migrazioni pare essere entrato in un vicolo socio–politico molto particolare.

 

  1. In che modo dunque articolare una visione cristiana delle migrazioni che ponga al centro l’ACCOGLIENZA, e solo in secondo piano l‘altro aspetto, quello della CONVIVENZA?

È indubbio che ponendo come primo tempo della risposta cristiana il tema dell’accoglienza ci si accorge della limitatezza e incompiutezza delle prospettive veterotestamentarie. Per quanto si possano fare molteplici distinzioni, è evidente che lo scenario veterotestamentario, in tutte le fasi della storia dell’antico Israele testimoniata nelle Scritture ebraiche, mirava all’omogeneità sociale a partire dall’omogeneità religiosa. È evidente che con Gesù lo scenario cambia completamente, anche nel modo di attingere dal bagaglio veterotestamentario. Il tema dell’accoglienza riceve un impulso incredibile nella considerazione del fatto che lo stesso protagonista della nuova era, Gesù, è in buona sostanza un migrante alle prese con problemi appunto di accoglienza (Gv 1). L’identità cristiana di coloro che si rifanno a Gesù deve tener conto anche di questa nota.

Quali sono le principali motivazioni derivanti dall’opzione ermeneutica neotestamentaria e cristocentrica che motivano all’accoglienza?

Una ragione fenomenologica: i fenomeni delle migrazioni mettono in scena, drammaticamente, quella che deve essere l’identità ultima della chiesa cristiana, vale a dire quella di un popolo di stranieri e di pellegrini (1 Pt 1) che devono vivere il rapporto con il mondo in una maniera particolare. Se i cristiani non lo sanno, o lo hanno dimenticato, che guardino i migranti! Scopriranno così che cosa devono essere. È stato sostenuto che l’intervento delle chiese verso i migranti è sui generis, è diverso da quello delle agenzie umanitarie o delle politiche statali e comunitarie. Infatti nell’accogliere i cristiani e le chiese non trasformano l’identità dei migranti ma trasformano la propria identità, tornano essi stessi alla loro condizione originaria di “stranieri e pellegrini”.

 

Una ragione teologica. Sebbene i cristiani prendano il loro nome e le loro movenze da Cristo, nel campo dell’accoglienza essi sono invitati dallo stesso Maestro a volgere lo sguardo ancora più in alto, al Padre che è nei cieli (Mt 5:43–48). La ragione teologica è dunque nel senso stretto del termine una ragione che attiene al modo in cui Dio gestisce gli affari umani, di tutti gli uomini. E Gesù sottolinea, prendendo ad esempio il campo morale, che il Padre “fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”. Nella nuova comunità dei discepoli questo approccio TEO–logico diverrà ecclesiologico: nessuna distinzione tra stranieri e residenti. In mezzo, tra il governo sovrano di Dio e l’esperienza della comunità dei fedeli che hanno in comune la stessa fede, c’è la dimensione sociale delle nostre esistenze. I cristiani devono ACCOGLIERE imitando Dio e sperando di entrare in una fratellanza di fede in cui diveniamo indifferenziati quanto alla fede, come mostrano le visioni escatologiche della stanza del trono di Dio (Ap 4––5). Segnaliamo solo: è nella ragione TEO–logica che trova collocazione anche il tema dell’imago Dei: accogliamo, dobbiamo accogliere perché condividiamo l’immagine di Dio.

 

La ragione del vangelo. Le estremità della terra sono la meta di passaggio della comunità degli stranieri e dei pellegrini che è la chiesa di Gesù Cristo; oltre c’è il cielo, è quella la meta (Eb 11). Ma non si va in cielo senza passare per le estremità della terra. E lì ci sono coloro che sono diversi da noi, in toto, nel senso delle culture. E noi stiamo vivendo il fenomeno straordinario e affascinante delle estremità della terra che si muovono. Non sono state raggiunte, ora sono loro che ci raggiungono. Un discepolo di Gesù Cristo non potrà non sentire in se stesso l’impeto del Grande Mandato (Mt 28) e l’indicazione operativa del risorto (At 1:8): comunicare il vangelo! Ma la comunicazione del Vangelo è uno sbocco della dinamica accogliente, come tutti i fenomeni comunicativi in cui qualcuno racconta qualcosa a qualcun altro.

 

Che cosa accadrebbe se i cristiani vivessero totalmente e integralmente L’ACCOGLIENZA? Che la stessa CONVIVENZA ne sarebbe condizionata. E allora come cristiani, nel momento in cui si insedia un governo che cavalca la paura dei migranti e vuole “rimandarli a casa”, dobbiamo chiedere ed esigere di essere noi stessi e dunque non solo desiderare ma voler ACCOGLIERE, essere messi nella condizione di farlo.

 

Ultimo pensiero: una mossa ermeneutica che affronta il tema delle migrazioni a partire dal Nuovo Testamento, che si focalizza sul fuoco dell’ACCOGLIENZA, può essere un modo di esprimere la nostra identità di cristiani EVANGELICI! L’accoglienza, attenendo alla parte più profonda dell’identità cristiana, è un’attività diffusa e capillare che investe le famiglie e i singoli nella preghiera casalinga come nell’amicizia e nell’apertura delle proprie comunità. Certo possono esserci progetti strutturali (penso per esempio ai Corridoi umanitari; alle agenzie delle chiese). Ma sta di fatto che una popolazione che si definisce “cristiana” (e, permettete di ricordarlo, è cristiano–cattolica) non accoglie, nonostante la loro massima autorità (Papa Francesco) predichi chiaramente l’accoglienza.

Come cristiani evangelici possiamo fare la differenza dimostrando che quello che ci muove veramente è il desiderio di CONDIVIDERE GESÙ DA MIGRANTE A MIGRANTE!

 

 

 

 

 

Tre domande su Karl Marx

  1. Il 2018 è, tra i tanti anniversari, il bicentenario della nascita di Karl Marx,  uno dei pensatori che più hanno influenzato il mondo contemporaneo. Cosa possiamo dire a proposito del suo pensiero?

 

Karl Marx è stato uno dei pochi filosofi che ha oltrepassato il semplice dibattito filosofico di tipo teorico. Può essere considerato insieme a Nietzsche e Freud uno dei plasmatori del pensiero occidentale del XX secolo. Ha iniziato come uno studioso di filosofia “classico” (la sua tesi era sulla filosofia antica), ma già nella sua giovinezza ha cercato di applicare il suo pensiero a problemi di tipo pratico, pur rimanendo essenzialmente un teorico. Dopo i primi anni in cui si è formato il suo materialismo ed il suo pensiero politico radicale, l’inizio della sua permanenza parigina lo fece incontrare con il pensiero dei primi socialisti. Da rigoroso studioso qual era ritenne che il socialismo che, all’epoca, giustamente cercava di affrontare il problema della ingiustizia sociale derivante dalla prima  industrializzazione, non aveva avuto un approccio scientifico. Per questo motivo si mise a studiare i primi economisti e svilupperà un pensiero che dava una chiara chiave di lettura della sua epoca e proponeva anche un ipotesi di miglioramento. Già nel confronto con la filosofia tedesca a lui contemporanea aveva affermato di voler “cambiare il mondo, piuttosto che semplicemente intepretarlo” e, in effetti, a partire dal 1848, l’anno della pubblicazione del Manifesto, si applicò a cercare delle soluzioni allo sfruttamento che derivava, in tutto il mondo, dal lavoro di fabbrica della prima età industriale. Per lui la storia è sempre stata una storia di lotta di classe. Ecco perché propose che la lotta, nel XIX secolo, avvenisse tra le due classi sociali emergenti: la borghesia che era riuscita in Europa a conquistare il potere economico e politico ed il proletariato che, invece, era sfruttato nelle fabbriche. La sua analisi dello sfruttamento capitalistico è sicuramente efficace ed è assolutamente ben documentata. La sua cripticità, soprattutto nella fase finale della sua opera (non porterà mai a termine il Capitale) e nei suoi manoscritti pubblicati postumi, ha fatto sì che siano state proposte diverse interpretazioni del suo pensiero, che derivano più dal background culturale degli interpreti che da una lettura autentica e spassionata dei suoi scritti. Ecco perché rimane uno dei filosofi ancora oggi più letti e criticati o ammirati ed alcuni dei maggiori pensatori odierni (Zizek e Antonio Negri in primis) affermano di rifarsi al suo pensiero.

 

  1. In che misura Marx ha influenzato la nostra cultura? Parafrasando Benedetto Croce, cosa è morto e cosa è vivo di Marx?

 

Benedetto Croce già agli inizi del XX secolo riteneva che la filosofia di Marx fosse inattuale, perché alcune delle condizioni che l’avevano fatta nascere erano profondamente mutate e perché era troppo collegata ad una concezione materialista della vita dell’uomo. In realtà proprio mentre Croce scriveva queste pagine, il marxismo conobbe il suo più grande esperimento di applicazione che fu la Rivoluzione Russa. Sicuramente Marx ha fortemente influenzato la cultura europea anche per il semplice fatto che per più sessant’anni una parte dell’Europa, a partire dalla Russia, pensava di attuare il suo programma per una nuova umanità. Sappiamo come il tentativo sia stato disastroso e come in realtà si sia fermato alla formulazione di uno stato totalitario e oppressivo piuttosto che ad uno società senza classi e senza Stato come ipotizzato nel Manifesto. Il pensiero di Marx ha influenzato grandemente anche l’Occidente europeo, sia da un punto di vista pratico che teorico. Il Ventesimo secolo ha visto nell’Europa Occidentale il fiorire di partiti di stampo socialista che in parte si rifacevano a Marx e che, almeno sino agli anni Ottanta del secolo scorso, hanno dato un apporto fondamentale al benessere della società ed ad una distribuzione più equa delle ricchezze. Dal punto di vista teorico, soprattutto in Italia, buona parte della cultura dopo la Resistenza e nella prima Repubblica si è rifatta a Marx ed ha cercato di influenzare la società ed anche la lettura dell’arte, della storia, delle manifestazioni culturali in genere in chiave marxista. Pertanto non possiamo dire che Marx sia “morto”. Ancora oggi la sua critica alla società capitalista può essere ampiamente usata come mezzo di analisi dello sfruttamento sociale, soprattutto quando andiamo al di là del concetto di Nazione e guardiamo al mondo globalizzato dove le ineguaglianze sociali sono ancora molto forti.

 

 

  1. Cosa si può dire da un punto di vista evangelico della filosofia marxiana? Il suo ateismo compromette la possibilità di aderire ad alcune delle sue idee? O ci sono possibili punti di incontro?

Insieme a Nietzsche e Freud, come sosteneva Ricoeur, la filosofia di Marx ha portato alla cosiddetta “filosofia del sospetto”, l’idea che, al di là della semplice analisi di superficie, i rapporti umani vanno letti con maggiore profondità. In questo il pensiero marxiano va apprezzato e Marx va letto con attenzione, soprattutto in quelle pagine dove descrive come avviene lo sfruttamento sociale, come una minoranza della popolazione viva a scapito della grande maggioranza. La Bibbia ci insegna che la giustizia è un valore che va difeso e che i deboli e coloro che sono sfruttati vanno protetti. In questo la filosofia marxiana può essere un ausilio per vedere dove si possono riscontrare le ingiustizie. Il pensiero di Marx rimane però distante su altri versanti: l’ateismo pronunciato, il messianismo intramondano e l’idea di una lotta non pacifica. Per Marx Dio non esiste e la religione, pur essendo di sollievo al popolo, può diventare la sua droga quando assopisce l’idea di migliorare la società e impedisce alle classi subordinate di lottare anche in maniera violenta. Pertanto essere religiosi è apparentemente in contrasto con il suo pensiero. Marx spera in un mondo migliore avendo fiducia nelle risorse umane, sperando che questo diventi una specie di Paradiso per tutti. Per questo (e probabilmente qua il suo ebraismo di origine ha avuto qualche influenza) possiamo parlare di una sorta di messianismo in cui il proletariato diventa il Messia che attua il sogno di un mondo migliore. L’altro aspetto contraddittorio è sicuramente quello della lotta anche violenta. La volontà di pace e di armonia all’interno dell’umanità è in contrasto con una lotta di classe che sfoci in atti violenti come talvolta è successo. Allo stesso tempo, riteniamo che il pensiero di Marx rimanga una critica dell’economia dominante ed un’analisi della società e delle sue ingiustizie che va ascoltata con grande attenzione anche dai credenti che sperano nel ritorno di Cristo, ma che vogliono anche una società equa qui sulla terra.

(Valerio Bernardi)

 

 

 

 

 

 

 

Tre domande a Saverio Bisceglia su Alfie Evans

La vicenda del piccolo Alfie e la battaglia intrapresa dai suoi genitori contro il sistema sanitario inglese, ci riporta alle questioni di fine vita. Cosa pensi di questo caso?

Occorre dire anzitutto che Alfie soffriva di una malattia degenerativa del cervello che lo portava ad avere un’epilessia resistente ai farmaci. Ce ne sono diverse di queste malattie di solito di origine genetica, piuttosto rare, che portano in tempi più o meno precoci alla degenerazione dei neuroni e quindi alla morte prematura. Alfie ha iniziato da subito, nei primi mesi, a manifestare i sintomi della malattia e ha avuto necessità di sostegno delle funzioni vitali, con una progressiva e pressocchè totale dipendenza dalla tecnologia medica.

Il progresso scientifico in campo medico è sicuramente alla base delle questioni etiche che nascono nei momenti di fine vita. Se non avessimo apparecchiature e farmaci in grado di vicariare e stimolare completamente le funzioni vitali, non staremmo qui a parlare di Alfie come di tanti altri casi. Però quante vite sono state salvate grazie al progresso della medicina? Quindi occorre accettare il fatto che casi come quello di Alfie in determinate malattie ci saranno sempre, alcuni verranno alla ribalta della stampa altri passeranno silenziosi con la discrezione dovuta a genitori che sopportano il peso più grande.

 

Considerando le condizioni gravi di Alfie, perchè i genitori hanno voluto combattere questa battaglia?

Credo che la vita sia molto di più di quello che pensiamo o osserviamo. Quando parliamo della vita di una persona possiamo avere solo dei punti di vista, per esempio quello medico, quello psicologico o anche quello religioso o filosofico. Ma la vita è molto di più. Io sono un credente è nella Bibbia la vita è descritta come qualcosa che non ha solo a che fare con una somma perfetta di processi biologici e di condizioni vitali, ma ha la sua origine nel creatore di tutte le cose. Siamo in un certo senso fatti, anche se in modo non ben definibile, di materia di Dio. Nel nostro corpo avvengono processi e percezioni vitali che hanno a che fare con l’eternità, nessuno ha percezione della propria morte o se la rappresenta come un evento naturale. E’ un aspetto meraviglioso e tanto trascurato della vita che solo chi attraversa questi momenti percepisce. La vita diventa improvvisamente talmente preziosa nonostante tutto che non riesci a vedere altro che questo.  Tanto più questo accade ai genitori che quella vita l’hanno generata. Pretendere che loro abbiano un punto di vista medico sulla situazione del proprio bambino è semplicemente impossibile. Perciò con il loro atteggiamente hanno voluto dire aspettiamo ancora un po, non siamo ancora pronti alla perdita del nostro bambino e se proprio deve morire permetteteci di portarlo a casa.

 

Sappiamo come sono andate le cose, la sentenza del giudice e la ventilazione che è stata staccata dai medici contro il parere dei genitori. Quali riflessioni possiamo fare?

E’ troppo facile essere dalla parte dei genitori. Occorre riflettere sul fatto che tutti gli attori in campo compresi i genitori hanno dovuto affrontare decisioni di fronte alle quali nessuno può esprimere certezze. Personalmente credo che nelle decisioni di fine vita occorre essere alleati e non contendenti, come è accaduto, ciascuno deve conservare il proprio ruolo, senza pretendere di sapere cosa è meglio o cosa e giusto fare. Non è possibile standardizzare i comportamenti dei genitori, nello stesso modo con cui i medici standardizzano un protocollo di fine vita, perciò occorre un dialogo che non può passare da atti formali e giuridici. Non si è mai preparati a dire addio a una persona che amiamo e questo è un fatto oggettivo, non un’opinione. Credo tuttavia che non sia corretto vedere un’operazione di eutanasia nel comportamento dei medici inglesi, ma una presa d’atto che proseguire il sostegno vitale ad Alfie aveva perso ogni significato. Questa decisione andava secondo me concordata nei modi e nei tempi con i genitori attraverso un percorso di accettazione nel quale Alfie avrebbe mostrato senza ombra di dubbio che la sua vita aveva lasciato il posto ad una pseudo vita mantenuta meccanicamente. Un giorno un uomo di fede difronte alla morte tragica dei propri figli ha detto: “Il Signore ha dato il Signore ha tolto, benedetto il nome del Signore”. Come ho detto la vita è molto più della sua apparente tragicità e noi ne siamo affidatari  temporanei

 

Saverio Bisceglia, un tempo membro del gruppo GBU di Roma, è oggi Medico di Medicina Generale e Coordinatore del Servizio di Continuità assistenziale del 9° Municipio di Roma; è Presidente dell’A-NCL, Associazione Nazionale Ceroidolipofuscinosi-Neuronali; è Responsabile di una Chiesa Evangelica del quartiere prenestino di Roma.

Tre domande a Andy Hamilton

#mai una gioia?

Questa intervista è stata rilasciata da Andy a margine del Convegno Nazionale Studentesco GBU (FESTA) che si è tenuto a Firenze (Poggio Ubertini) nei giorni 27, 28, 29, 30 Aprile (vedi qui)

 

  1. Il titolo del tuo intervento alla Festa è: “Mai una gioia”; potresti dare qualche spiegazione di questo titolo?

#maiunagioia… è questo l’hashtag del momento. L’hashtag è frequentemente usato sui social media (ma non solo) per sancire con una buona dose di ironia e con un pizzico di amarezza tutti quegli aneddoti, incidenti di percorso e piccole delusioni della vita quotidiana. Perdere l’autobus per un secondo, dimenticare l’ombrello in una giornata piovosa, svegliarsi la mattina ed accorgersi che il caffè è finito o correre sfrenatamente per non fare tardi all’esame per poi rendersi conto che l’esame avrà luogo il giorno successivo, sono tutte occasioni degne di essere etichettate con questo hashtag. Se da un lato quest’etichetta rappresenta un modo leggero e ironico di affrontare la vita, dall’altro lato denota un profondo malessere dovuto alla mancanza di una gioia duratura che non sia legata agli eventi e alle circostanze della vita. Questo hashtag non manifesta necessariamente l’assenza totale di gioia quanto l’assenza di un certo tipo di gioia, cioè una gioia solida che vada oltre un’emozione effimera o una sensazione sfuggente che in un attimo può volar via.

 

  1. Viviamo in un’epoca che ha esasperato il concetto di divertimento, in cui le persone sembrano in preda a una febbre edonistica. Che cosa distingue la gioia cristiana da altre forme di godimento?

Ciò che contraddistingue la gioia cristiana è che non è basata sulle circostanze contingenti della vita ma è qualcosa di più profondo che può essere vissuto indipendentemente dalle circostanze. La febbre edonistica è caratterizzata dal tentativo di massimizzare il piacere e di minimizzare il dolore. La gioia, in quest’ottica, richiede che tutte le circostanze della propria vita siano allineate favorevolmente. La maggior parte di noi però sa che questo allineamento è pura utopia e che anche quando le circostanze sembrano allinearsi nel modo giusto questo rimane qualcosa di altamente vulnerabile che in un attimo può crollare. Questa realtà si traduce in due strade ben distinte ma entrambe queste strade si rivelano essere dei vicoli ciechi. C’è chi sceglie la strada del disperato tentativo di controllare tutte le circostanze della vita ma nel fare questo imbocca una strada caratterizzata da una frustrazione costante dato che questo è un obiettivo irraggiungibile. C’è invece chi preferisce evadere e sfuggire alla realtà abbassando le proprie aspettative e quindi imboccare la strada di accontentarsi di brevi momenti di felicità che possono anche essere intensi ed esuberanti ma che mascherano una vita frivola ed apatica.

Esiste però una terza strada che porta alla vera gioia. Questa è la strada che il Salmista Davide ha sperimentato e di cui parla nel Salmo 16:11: “ci sono gioie a sazietà in tua presenza; alla tua destra vi son delizie in eterno”. Questa è una gioia nettamente diversa dal concetto riduttivo di gioia che viene perseguita da tanti. La gioia di cui testimonia il Salmista non è una gioia superficiale ma profonda. Non è una gioia instabile ma costante.  Non è una gioia soggetta alle circostanze della vita ma è radicata in Colui a cui tutte le circostanze della vita sono soggette. Questa gioia non si trova nell’assenza di circostanze dolorose ma nel vivere la propria vita nella presenza del Signore. La gioia cristiana quindi tutt’altro che essere restrittiva o limitativa, come spesso viene intesa (e forse anche vissuta), è invece una gioia che supera di gran lunga qualsiasi altra forma di godimento o divertimento che la società propone. CS Lewis, che ha scritto tanto riguardo alla gioia cristiana, ha riassunto le sue scoperte in questo modo. “Se consideriamo le sfrontate promesse di retribuzione e la portata sbalorditiva delle promesse che troviamo nel Vangelo, sembrerebbe che il Nostro Signore non trovi i nostri desideri eccessivi, semmai troppo deboli. Siamo creaturine timorose; tergiversiamo con alcol, sesso e ambizione quando quello che ci viene offerto è la gioia infinita; come un bambino ignorante che preferisce continuare a giocare con il fango nel suo vicolo perché incapace di immaginare il significato della vacanza al mare che gli viene offerta. Ci accontentiamo troppo facilmente” (CS Lewis, L’onere della Gloria).

 

  1. A volte la vita ci fa fare esperienza di sofferenze e difficoltà, eppure i cristiani sostengono che anche il quel momento sperimentano la gioia, che cosa significa tutto ciò?

Significa che è possibile sperimentare una gioia profonda anche quando il cuore soffre. Nelle ultime ore che i discepoli hanno passato con Gesù sicuramente il loro cuore stava soffrendo (Gv 13-17). Il loro cuore soffriva perché Gesù annuncia il tradimento di Giuda, annuncia che Pietro l’avrebbe rinnegato, annuncia che tutti i discepoli l’avrebbero abbandonato e annuncia che verranno odiati e perseguitati. I discepoli erano turbati. In questo contesto Gesù afferma: “Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa” (Gv 15:11). Come può Gesù fare un’affermazione del genere? Come si può sperimentare gioia nel mezzo di sofferenze e difficoltà? Gesù svela, facendo l’uso della metafora della vite e dei tralci (Gv 15:1-11), che questa gioia completa può essere solo sperimentata in virtù di un profondo legame con Lui (Gv 15:1-11). Anzi questa gioia è una conseguenza, o un frutto, di questo legame. Laddove questo legame è rafforzato la gioia accresce. Conseguentemente le circostanze avverse che teoricamente dovrebbero ridurre la gioia paradossalmente, in virtù del fatto che spesso la sofferenza intensifica il legame del cristiano con il Signore, rinsaldano e fortificano questa gioia profonda. L’apostolo Paolo ribadisce questa realtà: “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi” (Fl 4:4). Paolo ha scritto quest’epistola dalla prigione con la possibilità concreta di andare incontro al martirio (Fl 2:17). Nonostante queste innegabili difficoltà incita i cristiani a seguire il suo esempio e a rallegrarsi sempre. Come si può avere gioia sempre? Il segreto dell’apostolo Paolo, che corrisponde con quanto Gesù aveva detto ai suoi discepoli, risiede nell’identificare nel Signore la fonte della gioia. Quindi per i cristiani non si tratta semplicemente di avere gioia in ogni circostanza ma di sperimentare gioia nel Signore in ogni circostanza incluse le difficoltà e le sofferenze.

C’è anche un secondo aspetto che permette ai cristiani di sperimentare gioia nella sofferenza. L’apostolo Paolo dice, in un’altra epistola, di essere convinto che “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che deve essere manifestata a nostro riguardo” (Ro 8:17). Questa è una convinzione assoluta di Paolo basata sul Vangelo. Apprezziamo il peso di queste parole quando ricordiamo che in quanto a sofferenza Paolo aveva un Curriculum impressionante (2 Co 11:23-28). Paolo conosceva il dolore e l’agonia della sofferenza. Questo rende questa sua affermazione ancora più eclatante in quanto sostiene che la durata e l’intensità della sofferenza in questo mondo non è neanche paragonabile, cioè non offre neanche un metro di misura adeguato, alla gloria futura. Questa convinzione, che ogni sofferenza avrà la sua data di scadenza, permette al cristiano di vivere il presente con gioia e guardare al futuro con speranza.

Andy Hamilton è impegnato presso l’Istituto Biblico Evangelico Italiano di Roma (IBEI) dove coordina la Scuola a Distanza e insegna Soteriologia, Teologia Elementi Introduttivi, Escatologia e Panorama dell’Antico Testamento.

 

Tre domande a Giancarlo Rinaldi su Bibbia e archeologia

  1. Lo studio dell’archeologia può aiutarci a comprendere la Bibbia?

Risposta: Bisogna prioritariamente definire cosa intendiamo per “archeologia”. Il termine è di derivazione greca e sta a significare “studio delle antichità”. Dunque la disciplina che noi comunemente chiamiamo Archeologia Biblica consiste nello studio del contesto nel quale vanno collocate le narrazioni dei libri biblici e la loro composizione. Questo studio si avvale sia di fonti letterarie (opere storiche dell’antichità), sia di fonti documentarie (scavi archeologici, iscrizioni, papiri, monete, etc.). Bisogna fare un’altra premessa: se crediamo che la Bibbia sia parola di Dio dobbiamo però necessariamente ammettere che questa è calata perfettamente nella dimensione umana, e l’uomo vive nella sua storia. La fede d’Israele e, poi, quella cristiana sono incarnate nella storia e possono essere comprese, prima ancòra che professate, soltanto prestando attenzione all’aspetto umano, storico, direi ‘materiale’ nel quale hanno preso e prendono corpo. Poste queste premesse possiamo affermare che l’archeologia è indispensabile per comprendere appieno il mondo e il messaggio della Bibbia. La Bibbia non è un astratto libro di preghiere, è la rappresentazione di una vicenda che ha come protagonisti Dio e un popolo in ascolto, tale rappresentazione la cogliamo nel contesto della storia del vicino oriente antico o della prima età imperiale romana.

 

  1. Le conferme che l’archeologia può dare alla storicità del racconto biblico possono essere utilizzate come prova della sua ispirazione? Decide l’archeologia cosa credere o non credere della Bibbia?

Risposta: Nel mondo evangelico è molto diffusa la convinzione che l’archeologia debba fornire prove alla storicità dei racconti biblici e che queste debbano essere fatte valere per convincerci che la Bibbia è ispirata da Dio e, ancòra di conseguenza, noi dobbiamo riconoscerla come parola di Dio. Questa serie di argomentazioni ci consegnano un ragionamento molto fragile. Iniziamo dall’ultimo punto: che la Bibbia ci trasmetta la voce di Dio non dovrà e non potrà essere provato dalla pala dell’archeologo, si tratta di una persuasione interiore di ordine spirituale ben più profonda delle schede d’archivio di rinvenimento dei reperti. La ricostruzione storico archeologica del contesto della Bibbia ci aiuta a comprenderla ma non è da sola efficace a persuaderci della sua natura ispirata. D’altro canto se dovessimo riconoscere il carattere ispirato di ogni narrazione antica che si sia dimostrata attendibile al vaglio della ricerca storico archeologica potremmo definire ispirate da io molte pagine di storici come Tucidide, Tacito, Svetonio, ma così non è. Dunque non è l’archeologia a modellare il nostro credo, pur se da essa apprendiamo una meravigliosa lezione di metodo da spendere anche ai fini spirituali. Mi spiego. Quando noi leggiamo la Bibbia siamo spontaneamente portati a interpretarla alla luce di nostre precomprensioni che sono il frutto di una secolare sedimentazione archeologica. In altre parole siamo portati a proiettare in quelle antiche Scritture le nostre tradizioni confessionali. Ma così non deve essere: per comprendere un testo, un qualsiasi testo, è il prima che spiega il poi e non viceversa. Molte difficoltà di comprensione della Bibbia stanno nella nostra lontananza dall’epoca e dalla cultura in cui essa venne scritta. Lo studio delle antichità ci aiuta a recuperare il punto di osservazione degli originari destinatari di quegli scritti. In fine non dobbiamo mai dimenticare che la Bibbia fu composta per uno scopo specifico: comunicare salvezza ai peccatori e santificazione ai credenti; è in questo straordinario messaggio che noi ascoltiamo la voce di Dio, anche se essa è avvolta (talvolta fusa e confusa) da una scorza di parole, orditi grammaticali e sintattici, usi e costumi degli uomini dell’antichtà. Questo concetto è espresso molto chiaramente in 2 Timoteo 3,16 laddove, parlando dell’ispirazione scritturistica la si mette in relazione all’insegnamento che conduce alla fede e alla giustificazione al cospetto di Dio. “La Bibbia non è scritta per descriverci come sono fatti i cieli, ma per condurci al cielo”, come il buon Galileo Galilei, a quanto si riferisce, soleva ripetere.

 

  1. Quali sono i periodi della storia biblica per i quali i reperti archeologici sono più abbondanti e significativi? Quali, invece, i periodi per i quali si ha difficoltà a rinvenire reperti che rimandino ai racconti biblici?

Risposta: Diciamo sùbito che per l’età del Nuovo Testamento disponiamo di una maggior dovizia di documenti e d’informazioni. I ventisette libri che compongono il suo racconto coprono il periodo della dinastia imperiale Giulio Claudia, da Augusto a Nerone. Libri come gli Atti degli Apostoli, ad esempio, sono una descrizione vivissima della vita nel Mediterraneo di allora, una vera miniera di notizie per l’archeologo! Ma anche in un testo tutto simboli, allegorie e velami come l’Apocalisse di Giovanni possiamo ravvisare riferimenti all’età degli imperatori Flavi e posso dire che il veggente di Patmos nel descrivere eventi del futuro ha adoperato colori e modelli dell’età sua che, come sembra, è quella di Domiziano. Certo ameremmo sapere qualcosa in più per quanto riguarda altri periodi, come il soggiorno in Egitto e l’età della dominazione persiana, ma non possiamo dire che luci dalla ricerca archeologica non ve ne siano. Persino la cosiddetta “preistoria biblica”, cioè la narrazione dei primi capitoli del Genesi, acquisisce più profondo significato se la si confronta con le tradizioni del Vicino Oriente Antico; da questo confronto, infatti, emergono elementi di affinità ma anche di originalità della narrazione biblica che ci aiutano a meglio intendere quei generi letterari attraverso i quali Dio trasmise il Suo messaggio.

 

Vedi il calendario dei seminari presso la Sala di Lettura GBU: Comprendere la Bibbia … grazie all’archeologia

Giancarlo Rinaldi ha insegnato Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si è interessato in particolare al rapporto tra cristianesimo e paganesimo con particolare attenzione alla percezione del secondo nei confronti della diffusione della fede cristiana.

Blog personale

 

Tre domande a Massimo Rubboli su Billy Graham

(Massimo Rubboli, già docente di Storia dell’America del Nord all’Università di Genova)

1. Che cosa ha rappresentato Billy Graham per il mondo evangelico?

 

Credo che si possa distinguere l’influenza che Billy Graham ha esercitato nell’ambito del mondo evangelico americano dal suo ruolo nell’evangelicalism a livello globale.

Se si considerano le sue radici, che affondano nel fondamentalismo battista del Sud degli Stati Uniti, molto conservatore sia sul piano biblico-teologico sia nel campo politico, va notato che Graham arrivò gradualmente a posizioni più moderate, che gli alienarono le simpatie dei fondamentalisti più radicali, come Bob Jones (fondatore della Bob Jones University) e John R. Rice (fondatore della rivista “The Sword of the Lord”). Pur essendo contrario alla discriminazione razziale, evitò di schierarsi con Martin Luther King e di partecipare a iniziative contro la segregazione. Per capire la sua posizione bisogna ricordare che si basava su un dispensazionalismo premillenarista che portava a privilegiare la salvezza delle anime e l’attesa del ritorno di <cristo rispetto all’impegno per la giustizia sociale.

A partire dagli anni Sessanta, Graham e la sua organizzazione hanno svolto un ruolo di primaria importanza nel portare i protestanti teologicamente conservatori di tutto il mondo a unirsi e lavorare insieme su progetti condivisi, in particolare sull’evangelizzazione. Penso al Congresso di Berlino del 1966 (World Congress on Evangelism) e ai Congressi di Losanna (1974 a Losanna, 1989 a Manila, 2010 a Città del Capo), che sono state tappe fondamentali nella storia del movimento evangelical.

 

2. Billy Graham ha avuto anche un ruolo politico?

 

È indubbio che, nonostante la sua volontà di non farsi coinvolgere in questioni e attività politiche, la sua vicinanza alla Casa Bianca, da Eisenhower a Barack Obama (con Trump non ci sono stati contatti perché era ormai troppo vecchio e malato), ha avuto degli effetti politici.

Ciò che ha più nociuto al suo tentativo di restare equidistante dalle posizioni politiche è stato il suo sostegno incondizionato a Richard Nixon, come candidato alla presidenza ancor prima che come presidente. Nelle biografie di Graham si trovano pochissimi riferimenti al suo coinvolgimento a favore della guerra in Vietnam, come emerse dalle registrazioni che portarono alle dimissioni di Nixon. Quei nastri rivelarono che l’evangelista, mosso dal suo ardente anticomunismo, era stato un attivo promotore della guerra fino dalla sconfitta della Francia, appoggiata dagli Stati Uniti, nella battaglia finale di Dien Bien Phu nel maggio 1954. Su richiesta dell’amministrazione Johnson, compì due viaggi in Vietnam a sostegno delle truppe e poi, nel 1969, inviò a Nixon un rapporto, intitolato “Piano missionario confidenziale per porre fine alla guerra del Vietnam”, che invitava il presidente a utilizzare massicci bombardamenti sul Vietnam del Nord se fossero falliti i colloqui di Parigi.

 

3. La sua morte è stata accolta con critiche ed elogi. È possibile una valutazione equilibrata?

 

Non credo che sia possibile valutare serenamente la vita e l’opera di questo straordinario evangelista, che ha contributo alla conversione di un numero incalcolabile di persone, a pochi giorni dalla sua morte. Molto dipende dalla posizione di chi esprime un giudizio e da quale aspetto si prende in esame.

Se lo si vede come uomo, va sottolineato che in sessant’anni di attività pubblica non è mai stato sfiorato da scandali o sospetti di comportamenti immorali o disonesti, cosa eccezionale se confrontata con gli scandali a sfondo sessuale o economico che hanno riguardato famosi telepredicatori che sono apparsi sulla scena dopo di lui.

Se lo consideriamo sotto il profilo della sua missione prioritaria, annunciare l’Evangelo, nessuno è mai riuscito a predicare a centinaia di milioni di persone come ha fatto lui.

Inoltre, non va dimenticato che esistono motivi per ritenere che le sue posizioni degli ultimi anni siano state manipolate dal figlio Franklin, noto per le sue posizioni ultraconservatrici e per i suoi attacchi agli omosessuali. Ad esempio, nella nuova edizione del 2010 di un libro scritto nel 1992 [Storm Warning], nel quale  Graham aveva affermato che il problema del riscaldamento globale andava affrontato riducendo l’inquinamento, non compare più la minaccia del riscaldamento globale. Molti ritengono anche che Franklin sia l’autore dell’ultimo libro pubblicato col nome del padre [A che punto sono, tra cielo, eternità e la nostra vita dopo la morte, 2015], perché Billy Graham, malato di Parkinson, da oltre vent’anni non riusciva a leggere e scrivere.

 

(Massimo Rubboli, già docente di Storia dell’America del Nord all’Università di Genova)

 

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