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La pace come ideale regolativo

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Sono passati più di duecento anni da quando il filosofo Emmanuel Kant, nella Critica della Ragion pura, nell’Appendice alla Dialettica trascendentale, dopo aver delimitato “criticamente” il campo del sapere che poi va a sostanziare la scienza, cercò di fare i conti con le “idee” della ragione. Le idee, prodotto intellettivo dalla natura sfuggente e che possono richiamare, ineludibilmente, altre dimensioni dell’esistente, non hanno il crisma di ciò che può condurre alla costituzione di un sapere, come i concetti; tuttavia, sono lì, influenzano, condizionano

Tra esse ce n’è una che è forse più ineludibile di tutte, l’idea di Dio!

Ecco allora che Kant scopre, per queste idee, un altro ruolo, un’altra funzione, quello della regolazione. Non portano a niente, però aiutano a mettere ordine e sistematicità in ciò che conosciamo, che veniamo a conoscere, ci spingono verso un focus, un obiettivo. Regolano il nostro sapere non dogmaticamente ma come impulso, come direzione.

Può tutto questo armamentario concettuale, qui delineato in maniera certamente superficiale, essere trasportato dal campo del sapere, dove Kant lo concepì, ad altri campi, a quello della morale (dove Kant immaginava ben altro), a quello della politica, a quello del vivere associato degli uomini, al tema della pace e della guerra?

Forse non sono il primo a fare questa comparazione ma penso che l’ideale regolativo di kantiana ascendenza possa ben esprimere il posto concettuale che potrebbe occupare il tema della pace in questo momento (scrivo all’indomani della grande manifestazione del 5 novembre a Roma organizzata da Europe for peace).
Il tentativo nasce dal tormento reale e non superficiale che chiunque, e in particolare anche un cristiano che vuole essere sensibile alla globalità del pensiero biblico (noi lo chiamiamo “il consiglio di Dio, At 20:27) avverte e prova nei confronti della guerra in Ucraina. Le condizioni storiche e geopolitiche acuiscono il tormento intellettuale. Sono pochi i paragoni possibili per l’aggressione della Federazione russa. Forse, con molti distinguo, e andando indietro negli anni, se teniamo conto di ciò che è accaduto dal 1991, anno della disgregazione della vecchia Unione sovietica, una crisi che avrebbe potuto avere uno sviluppo simile (ma che non lo ha avuto) si registrò trent’anni prima, nel caso dei missili sovietici a Cuba (anni ’60).

Oggi siamo di fronte a una situazione anomala; i profili relativi alla giustizia sono abbastanza netti: c’è il diritto internazionale, c’è l’autodeterminazione dei popoli, anche a difendersi, c’è lo scontro tra “democrazie” e “autocrazie” tra regimi di libertà (come quello nel quale il sottoscritto può scrivere quello che sta scrivendo, professare la propria fede – si ricordi: la libertà di culto è la madre di tutte le libertà occidentali!) e regimi che reprimono le libertà, guarda caso, anche la libertà di religione, soprattutto quando la religione viene assunta a stampella ideologica della guerra.

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Ma i profili relativi alla pace non sono così netti. La pace è al più un desideratum aleatorio affidato, da chi sul campo dirige le operazioni – di guerra, a un fatalistico domani che verrà, se verrà, considerato lo spettro dell’olocausto nucleare. Può essere utile al riguardo leggere l’ultimo libro di Massimo Rubboli (qui di fianco la cover)

Ed è qui che l’ideale regolativo kantiano potrebbe aiutare. La pace è e deve essere un ideale. Negativamente questo significa che la pace appare senza alcunché di definibile e percettibile: dove potremmo noi rilevare percezioni di pace che andrebbero a sostanziare un concetto, un sapere e delle azioni concrete di pace? Mosca dovrebbe essere il primo posto in cui rilevare queste percezioni, ma assolutamente nulla. E altrove? Si fa a fatica a precipitare la pace dal campo dell’ideale a quello del sapere, dalle idee al concetto.

Positivamente, però, è possibile che questo ideale giunga a regolare il pensiero e l’azione già qui e ora. Quali percorsi questo ideale sta illuminando? La piazza di ieri mi pare un piccolo sussulto che mette in circolo delle vibrazioni. Esse concernono le opinioni pubbliche; sono piazze, non sono ambasciate e diplomazie e tuttavia tante volte nella storia (vedi guerra in Vietnam) le opinioni pubbliche hanno scoperto dei possibili percorsi diplomatici.

La pace come ideale regolativo potrebbe anche mettere d’accordo i sostenitori dell’appoggio (anche militare) a Kiev e i sostenitori del “fermiamo le armi” ora (posizione questa che vive tutta nell’ideale); sì perché il primo, l’appoggio militare, ben si colloca in un tempo e in uno spazio determinato, sempre all’insegna dell’ideale regolativo della pace. C’è un tempo in cui è stato necessario dire no, questo non deve accadere. Che cosa sarebbe accaduto a febbraio, infatti, se l’Ucraina non avesse vissuto quella straordinaria primavera di “resistenza”?

Ma se la pace è un ideale che regola i nostri passi oggi, concretamente, allora lo spazio per la guerra (è triste parlare così) è e deve essere uno spazio e un tempo determinato. Ma il tempo e lo spazio non lo decide la guerra stessa ma lo decide l’ideale regolativo della pace. Abbiamo provato la guerra di resistenza, abbiamo vinto tutti con il popolo ucraino; adesso, facendoci condizionare dall’ideale, bisogna regolare i passi in modo diverso.

Che i governi occidentali, soprattutto europei, trovino lo scatto per creare al loro interno delle task force per la pace, piccoli gruppi di lavoro che mettano insieme magari governanti e opposizioni (altro ideale!), i quali a loro volta si interfaccino a livello continentale e planetario, che bussino alle case dei due belligeranti chiedendo loro di fornire uomini per discutere e ragionare di confini, di territori, di popolazioni, di sicurezza, di deterrenza…. Forse già la volontà di interrompere la fornitura di armi all’Ucraina potrebbe essere un qualcosa da mettere sul piatto delle trattative da intraprendere sul percorso dell’ideale della pace che regola.

È utopistico pensare tutto ciò? Certo, “utopia” e “ideale” non sono la stessa cosa, ma entrambi provengono da quel campo della “realtà” in cui non ci sono certezze, dogmi e ideologie. È il campo dell’umano, della voglia di vivere, in pace, cercando di creare lo spazio per quello che conta veramente.

E che cosa conta veramente, in questo scorcio segnato da una pandemia che ancora non ci lascia, da una crisi climatica che ha mostrato tutta la sua ferocia nella scomparsa delle stagioni, di una crisi economica e migratoria che si infiamma giorno dopo giorno?

Che cosa dobbiamo sperare (altro interrogativo kantiano)?

Nella mente di un cristiano evangelico quello che conta veramente è la possibilità di poter dire agli altri esseri umani che viviamo nell’ultimo tratto della storia quello segnato dalla morte e dalla risurrezione di Gesù Cristo; c’è una buona notizia da far circolare, da far comprendere, da incarnare per mostrare modelli di vita segnati dalla pace, quella che Gesù dà e non quella che il mondo dà (sono le parole dello stesso maestro di Nazaret, Gv 14:27).

Possiamo dire, che la pace non è un fine in sé per l’essere umano? È ancora Kant che ci mette in guardia da un ottimismo superficiale facendo appello a tutta la forza della parte pratica della ragione, allorquando si confronterà con il tema del “male radicale” presente nel mondo degli uomini, e di cui la guerra non è altro che l’espressione più parossistica. No, la pace non è un fine in sé; semmai la pace è un mezzo per altro fine. Con essa, per esempio, gli uomini possono fiorire (M. Volf), e con essa i cristiani possono mettere mano al supporto necessario della buona notizia che hanno tra le mani, la sua proclamazione.

Ecco abbiamo bisogno della pace come un ideale che regoli i nostri passi ora, perché abbiamo questo compito, urgente, per le popolazioni dell’Ucraina e della Russia, ma anche per quelle che vivono a Washington, a Berlino, come a Roma!

Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. 9 Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento (2 Pt 3:18)

Il “duplice ascolto” in tempo di guerra

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Si deve l’espressione “duplice ascolto” a John Stott, il reverendo evangelico anglicano che ha influenzato enormemente il movimento evangelico del ‘900. Con questa espressione egli voleva indicare la necessità che i cristiani si ponessero nella condizione di un ascolto duplice nei confronti della Bibbia e nei confronti del mondo in cui vivono; questo al fine di far si che la loro testimonianza fosse a un tempo biblicamente fondata e autenticamente rilevante per le donne e gli uomini di oggi. Stott non era il primo ad aver indicato questa duplicità della sensibilità cristiana. Qualcun altro prima di lui (forse Oscar Culmann) aveva usato l’immagine del cristiano con la Bibbia in una mano e con il giornale sotto il braccio.

Queste immagini sono suggestive e rimandano a un tempo in cui i cristiani, in pieno benessere economico e sociale, si chiedono in che modo la loro testimonianza può essere radicale, può fare la differenza. A me paiono immagini che si collocano perfettamente in un tempo di pace in cui meditare, quietamente, e leggere il giornale, sono attività che possono essere svolte senza molti patemi d’animo. La parola d’ordine è influenzare, essere presenti, contare!

Ma, mi chiedo, proprio nei giorni in cui fanno il giro del web le immagini di Bucha, in Ucraina, esiste una versione del “duplice ascolto” per i tempi di guerra?

Che cosa potremmo ascoltare dalla Bibbia, affinché la nostra testimonianza possa essere rilevante anche mentre il rombo assordante della guerra è ciò che ascoltiamo, al giorno d’oggi?
Proviamoci.

Ascoltare la Bibbia/parola di Dio

Da dove cominciare? Un po’ come per altre questioni (penso alle migrazioni), viene il dubbio: si comincia dall’AT, con le sue definizioni di nazione (Gen 10), di popolo eletto (Gen 12), con le legislazioni precipue sui confini (Torah), con i racconti di guerre di conquista (Giosuè), di atti eroici (quante volte avete ascoltato il riferimento a Davide e Golia, per narrare il conflitto russo-ucraino)? Con i racconti del coinvolgimento divino (Il Signore degli eserciti) e del mondo soprannaturale?

O si comincia con il NT, e in quale punto? Con il testo/pretesto manifesto del pacifismo (la parola di Gesù a Pietro sulla spada che ferisce e fa perire e dunque da riporre nel fodero); con l’insegnamento sulla radice ultima della forza legittima di Romani 13 (da cui la tradizione della guerra “giusta”); dalla visione del potere umano come di un potere bestiale (Apocalisse) e, di contro, dalla visione dell’autorità che indicò Gesù ai discepoli (le nazioni hanno chi li governa … ma così non sia fra di voi)?

Come sempre, abbiamo bisogno di chiavi di lettura globali che, pur partendo da precisi punti (possono anche essere dei singoli versi …) siano in grado di permetterci la ricostruzione di una cornice di senso per l’intero insegnamento biblico, in presenza della guerra. Questa operazione è legittima e sembra sia il compito di precise discipline teologiche come la teologia sistematica e, ancor più, la teologia biblica. Premesso che queste discipline si mantengano libere dall’ossequio a tradizioni teologiche preconfezionate (teologia riformata, dispensazionalismo, etc.); tradizioni che rivelano una particolare fragilità proprio quando si confrontano con il tema della guerra (basta leggere la storia delle teologie evangeliche per rendersi conto della loro fragilità nei confronti del tema della guerra).

Se dunque abbiamo bisogno di chiavi di lettura globali, qui mi permetto di indicarne due.

  1. Nell’etica del NT appare preponderante la dimensione soggettiva e individuale delle relazioni (basti pensare al frutto dello Spirito e ai frutti della carne di Galati 5; al Sermone sul Monte). A differenza dell’AT, dove emerge una dimensione più collettiva (c’è un soggetto “popolo”). Questo naturalmente non significa che nell’AT non sia presente un messaggio per l’individuo e che nel NT sia assente la dimensione collettiva.
  2. Emerge una prospettiva diacronica: le cose di Dio si muovono nella storia, c’è un percorso, una direzione (Oscar Cullmann in Cristo e il tempo e in altri lavori ce lo ha mirabilmente insegnato), c’è una storia della redenzione. C’è un’epoca di altri tempi, con la promessa e l’annuncio, della salvezza e del giudizio, c’è un presente carico di realizzazione ma anche gravido di futuro; c’è un già e non ancora; c’è un eschaton, un tempo ultimo, il nostro, nel quale si intravede però, e ancora, una fase ultimissima.

Bisogna provare a combinare i due piani: per esempio, la dimensione del soggetto, preponderante nel NT, è annunciata nelle pieghe del percorso storico veterotestamentario (amore per Dio e amore per il prossimo), e soprattutto perché a un certo punto si guarda a un Soggetto per eccellenza, il Messia, all’uomo nato per diventare Re, come articolava Dorothy Sayers nella sua lettura del Vangelo di Matteo, enfatizzando, nella vicenda terrena di Gesù, lo scontro con il potere violento e guerrafondaio: all’inizio (cap. 2, Erode, i magi, la famiglia sacra e la strage degli innocenti), e alla fine (cap. 27, sei tu il re dei giudei? Il mio regno non è di questo mondo ..).

Ecco, è la natura del Soggetto per eccellenza, il Messia, confessato come il Signore dalla comunità delle origini a essere forse la chiave di volta per un ascolto attento della Parola, in tempo di guerra, che coniughi dimensione diacronica e concentrazione sull’individuo.

Seguiamo questa pista.

Nella proposizione del suo nome (Salvatore del popolo) e dei suoi titoli, Figlio dell’uomo, tra gli altri, Gesù riassume in sé la partecipazione alle vicende umane tipica dell’AT, dove si parlava del Signore degli Eserciti, e ne rivela la direzione ultima nonché la sua modalità d’azione (Principe della pace). Lì, nell’AT, lo vedevamo presentarsi come un guerriero (a Mosè, a Giosuè), come ombra dietro ai monarchi espansionisti Davide e Salomone. Ma non va dimenticato, tra l’altro, che il Signore degli Eserciti non era tale solo all’esterno ma lo era anche all’interno, per il suo popolo, che non risparmiava quando legava la sua identità a fattori etnici e nazionalistici e se non allontanava l’idolatria, la vera madre di tutte le guerre.
Questi temi rappresenteranno una costante nella predicazione di Gesù e nel conflitto con le autorità politiche e religiose del suo tempo.

Un tempo, dunque, Dio era Dio degli eserciti non perché e semplicemente era al comando di uno specifico esercito contro altri eserciti; ribadiamolo: poteva anche sbaragliarlo, il suo esercito, in presenza di una contaminazione (la disfatta di Ai nel libro di Giosuè), poteva anche mandarlo in esilio se non rispettava l’orfano e la vedova (tra l’altro). Il Dio degli eserciti e padre di una nazione insegnava, già in un’epoca di brutalità efferate, e che non conosceva le convenzioni internazionali – che tra l’altro non vengono rispettate neanche oggi – che bisognava prepararsi ad amare anche i nemici, che bisognava andare a Ninive a predicare appunto ai nemici (Giona).

Il Dio degli eserciti non era nazionalista ma universalista, aveva di mira il dominio del mondo: si pensi alla figura del Figlio d’uomo di Daniele 13!

Ma questa è proprio l’istanza del Messia, di Gesù, il dominio del mondo, la sottomissione dei poteri mondani e di quelli ultra-mondani e sub-mondani (Ap. 4) non però mediante un esercito ma mediante la “spada” della Parola. Gesù, dunque, e non altri soggetti collettivi come per esempio la chiesa, è il Soggetto che, ereditando le istanze antiche diviene, suo malgrado e in ragione della portata universale del suo dominio, nemico degli imperi e della guerra: dell’Impero romano, subito, ma poi di tutti gli altri che si sono succeduti nella storia, a Oriente come a Occidente, fino agli estremi di queste latitudini. Fossero essi sacri e romani, Wasp, pagani o impregnati di ideologia religiose, del Sol levante o del Jiiad o della Grande Russia…

E infatti è il vangelo di Gesù Cristo e non la cristianità, la realtà che si è sparsa nel mondo e che rappresenta l’unica “forza” che trasformando gli individui può condizionarne le vicende geopolitiche. Con la seconda, la cristianità, sono arrivati le crociate, i conquistadores, e la Compagnia delle indie …. Non avevano a che fare con Gesù e con il vangelo, nonostante gli stendardi con la croce. Con il primo, con il vangelo, al contrario, è arrivato in tutto il mondo il frutto dello Spirito Santo, la testimonianza silenziosa ma feconda dei cristiani del giorno dopo giorno, di coloro che sono stati luce e sale nelle pieghe della storia, nella prosperità economica (à la John Stott) ma anche nei conflitti, come nelle guerre.

E attraverso di loro che si palesa quella strana parola della Lettera agli Ebrei (cap 2) in cui si indica Gesù come il vero Signore della storia, anche se sotto segni contrari:

Avendogli sottoposto tutte le cose, Dio non ha lasciato nulla che non gli sia soggetto. Al presente però non vediamo ancora che tutte le cose gli siano sottoposte; però vediamo colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto, affinché, per la grazia di Dio, gustasse la morte per tutti.

Cerchiamo nella Bibbia (la vogliamo ascoltare) un punto di sintesi di una riflessione sulla guerra e scopriamo che sia la figura di Gesù a essere questo punto di sintesi. Gesù è colui che sta di fronte al tema della guerra russo–ucraina (ricordiamoci che dobbiamo ancora ascoltare il mondo, e lo faremo prossimamente). In che modo allora è coinvolto Gesù nel conflitto? Sicuramente non nei grotteschi balbettii delle chiese con i loro impasti di criptopaganesimo (con tutto il rispetto per la venerazione di madonne, icone e segreti mariani), oppure con le formule stereotipate e sterili di organismi vari (con tutto il rispetto per Consigli ecumenici e Alleanze di vario genere).

Gesù è coinvolto nel conflitto, a mio giudizio, in due forse tre modi:
– nei furgoni e nelle carovane che portano aiuti (in quelle religiose come in quelle laiche e secolari);

– Gesù è coinvolto nella testimonianza da fede a fede tra la gente, tra le persone, come unico conforto nella vita e nella morte grazie alla comunicazione del vangelo che, è certo, i credenti in Gesù Cristo stanno facendo anche ora, nell’ora più buia; negli scantinati, come facevano nell’ormai distrutta Facoltà Battista di Irpin;

– Gesù è presente in un grido che guarda all’eschaton, un grido, forse, millenarista, sì, perché no? Abbiamo visto la tua azione nell’umiltà, nella croce, Signore, l’abbiamo confessata e vogliamo incarnarla; ma, ti preghiamo, facci vedere, almeno per un tempo, che cosa avrebbe potuto essere la terra se avesse regnato il Figlio di Dio; è vero che il lupo potrebbe sedersi accanto all’agnello? Che dalle spade si potrebbero costruire vomeri? Questo desideriamo vederlo, nel mentre assistiamo alla macelleria della guerra.

Ma se di fronte alla guerra la Bibbia si suggerisce di guardare “cristologicamente” e se il Cristo che conosciamo, confessiamo e imitiamo è quello della croce, che ci chiede, oggi, di esprimerlo in questi termini (la croce e la non violenza), pur avendo la consapevolezza della sua potenza e nutrendo la speranza di vederlo in azione, allora si pone necessariamente una riflessione per il giorno d’oggi. Come combinare la croce con il giornale e con i report che vengono dal campo di battaglia?

Ascoltare il mondo … segue

 

 

Di nuovo la guerra

di Elena Ammirabile

“La Russia cambia il mondo” questo è il titolo del secondo fascicolo di Limes del 2022 arrivato alla sua terza ristampa. Il 24 Febbraio del 2022 il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin annuncia un’operazione militare nel Donbass in difesa delle autoproclamate repubbliche indipendentiste, inizia così una guerra di cui oggi  a un mese di distanza, non riusciamo a vedere la fine.

Questa non è l’unica guerra o conflitto armato in corso, l’ACLED ne conta 27 nel mondo ma è  la prima invasione di uno stato nel continente  europeo da quella cecoslovacca del 1968 che sancì la fine del sogno del comunismo sovietico come governo del popolo per il popolo.

Da una parte abbiamo l’aggredito: l’Ucraina, stato sovrano, tornata indipendente nel 1991 con lo scioglimento dell’URSS, in un percorso sofferto sia nell’affermazione dello stato di diritto, base di una democrazia compiuta che prevede la tutela di tutte le minoranze politiche e linguistiche, sia nel suo posizionamento strategico, con una faglia aperta tra chi vuole accelerare il percorso di avvicinamento all’Unione Europea e chi preferirebbe l’allineamento con la Federazione Russa che dal 2014  alimenta il conflitto nella regione del Donbass tra regioni indipendentiste e stato centrale.

Dall’altra abbiamo l’aggressore: la Federazione Russa considerata una democratura, regime che della democrazia mantiene solo la forma ma in cui il potere politico è saldamente in mano ad un autocrate, Vladimir Putin, dal 2000. Putin ha risollevato la Federazione Russa dalla terribile crisi economica e finanziaria degli anni Novanta, dovuta al drastico passaggio da l’economia socialista a quella del libero mercato, a scapito delle libertà civili. La politica estera della Federazione Russe  nell’era Putin è stata aggressiva nei confronti dei suoi vicini, ne hanno fatto le spesa la Georgia, la stessa Ucraina nel 2014 e la Moldavia dove, con il pretesto della difesa delle comunità russofone ha sollecitato e finanziato secessione di regioni, dove non è entrata in armi,  ottenendone de facto il controllo.

Con l’invasione dell’Ucraina la Federazione Russa ha scelto di mettersi fuori dalla Comunità internazionale violando il diritto internazionale, violazione sancita dalla condanna  da parte dell’Assemblea dell’ONU passata con 141 voti favorevoli, solo 5 negativi e 58 astenuti.

Per quanto fosse inaspettata per i più l’invasione era programmata da tempo, lo dimostra il progressivo dispiegamento  di forze sul confine, voleva essere una guerra lampo nella speranza di una sollevazione da parte dei cittadini ucraini russofoni che avrebbe portato alla destituzione del governo in  carica, invece le città a maggioranza russofona stanno ancora resistendo all’occupazione russa.  Il governo e la popolazione si è stretta intorno al suo presidente che ha dimostrato grandi capacità comunicative  ed ha trovato  il sostegno immediato dell’Unione Europea e degli Stati Uniti attraverso l’invio di armi e sanzioni che stanno portando al tracollo l’economia russa, il rublo ha perso il 30% del suo valore rispetto all’euro, che si basa principalmente  sull’esportazione di materie prime.

È difficile prevedere quale sarà il compromesso che porterà al cessate il fuoco, se il conflitto si allargherà o se potremo ancora parlare di uno stato ucraino indipendente ma possiamo vedere delle traiettorie di lungo termine che sono state innescate o accelerate da questa guerra: il fallimento della globalizzazione; transizione ecologica come soluzione; rincorsa al riarmo; gli sfollati ucraini capovolgono il paradigma dell’accoglienza; l’Unione Europea e il suo status di potenza; la disinformazione online come arma di guerra.

Questa guerra ha mostrato il fallimento della globalizzazione, la fiducia che in un mondo in cui i confini nazionali sfumavano a vantaggio degli scambi economici, l’interdipendenza economica avrebbe reso sconveniente ed irrazionale una guerra soprattutto tra i paesi sviluppati, la globalizzazione non solo ha amplificato le diseguaglianze ma non ha fiaccato il nazionalismo, probabilmente neanche la stessa Federazione Russa si sarebbe aspettata una condanna così netta da paesi che paesi con una così accentuata dipendenza energetica, in particolare Italia e Germania. Bisognerà quindi iniziare, come è già successo con le scelte europee sui semiconduttori a pensare gli scambi commerciali in termini di politica estera, come d’altronde fa la Cina da sempre. Di conseguenza la dipendenza energetica è diventata un problema non solo economico ma di sovranità, in particolare per l’Italia, questo potrebbe imprimere un’importante accelerazione alla transizione ecologica con un duplice output positivo geopolitico ed ambientale.

Inizia  ufficialmente la corsa al riarmo, gli Stati Uniti hanno spostato da tempo il baricentro strategico nel Pacifico il confine l’altra potenza mondiale, la Repubblica Popolare Cinese, senza il protagonismo americano e della Nato il progetto dell’esercito europeo diventa la vera unica alternativa con una guerra ai confini dell’Europa  e con esso la scelta di molti stati, prima la Germania poi l’Italia di portare al 2% del PIL la spesa per la difesa. Viene così  sancito il cambio di scenario, non siamo più in un mondo unipolare, in cui gli Stati Uniti sono stati il gendarme, l’uscita dall’Afghanistan e la scelta di Biden di non diventare l’interlocutore di Putin, né sono la prova, torniamo ad un assetto multipolare in cui l’Unione Europea deve definire la sue scelte di politica estera. Già l’emergenza Covid ha portato l’unione Europea ad agire in modo più coordinato e coeso, questa guerra è l’occasione per smussare le divergenze anche in ambiti come la difesa e la politica estera verso un’integrazione politica maggiore.

L’invasione ha innescato un esodo di civili, in tre settimane 3,3 milioni milioni persone hanno lasciato l’Ucraina, il 7% della popolazione totale (dati ISPI), principalmente accolti nei paesi limitrofi, gli stessi stati che non volevano partecipare alla redistribuzione per quote dei migranti arrivati via Mediterraneo si trovano ora a chiedere una presenza maggiore dell’Europa e di quote per l’accoglienza degli ucraini. Se da una parte viene denunciato un double standard, porte parte per gli europei e chiuse per chi viene da fuori, evidente anche in piena crisi lungo il confine polacco, prepariamoci a nuove ondate dal nord Africa dove la mancanza delle forniture di grano ucraino e russo inciderà in modo pesante. Dovremmo ora ripensare alle politiche migratorie per farle uscire dall’ambito dell’emergenza, sappiamo che ormai sono strutturali e come tali andrebbero regolate.

Infine abbiamo visto la pervasività della “dottrina Gerasimov” o altrimenti detta “guerra ibrida”, dal nome del generale capo dello stato maggiore russo che l’ha teorizzata e messa in atto. Essa prevede sia la guerra combattuta dagli eserciti, azioni terroristiche, quando cioè si prendono di mira i civili non l’esercito nemico, disinformazione, propaganda e finanza speculativa. Soprattutto la disinformazione si è rivelata un’arma potente nel condizionare parte dell’opinione pubblica degli stati occidentali, opinione pubblica che ha  il potere di influenzare le scelte dei governi democraticamente eletti manipolata da un governo che disprezza la libera informazione (caso Politkovskaja) e qualsiasi forma di manifestazione  pubblica di un pensiero dissidente rispetto alle scelte presidenziali.

Noi come credenti come possiamo essere “operatori di pace” in questa situazione? Prima di tutto dando il nome giusto alle cose, abbiamo una vittima ed un invasore; quindi informandoci per non essere, anche inconsapevolmente, strumenti di propaganda; terzo ricordandoci di odiare il peccato e non il peccatore quindi non entrando in una spirale maniche per cui ci sono buoni e cattivi, noi sappiamo che c’è  il peccato che alberga nel cuore degli uomini; quarto ma non ultimo ricordandoci della vedova e dell’orfano, categorie che pensavamo fossero non più contemporanee e che invece corrispondono al 90% degli sfollati, prendendo i cura di loro, ciascuno in base alle sue possibilità per dimostrare quell’amore che Cristo ci ha offerto gratuitamente.

 

Elena Ammirabile, Dottoressa in Relazioni Internazionali presso la Cesare Alfieri di Firenze, membro del Consiglio di amministrazione del Centro Evangelico di Poggio Ubertini.