Entropia genetica (Lunedì Letterario)

Lunedì 23 Aprile 2018

 

J.C. Sanford, Entropia Genetica, AISO, 2017, tit. or. Genetic Entropy, FMS, USA, 2014, 4th edition

Provando a digitare su un motore di ricerca J C Sanford, uno dei risultati è la pagina di un forum: Why is someone so smart like John C Sanford who invented the Gene Gun a creationist? A quanto pare essere svegli, furbi e anche creazionisti non si può.

Sanford è uno scienziato creazionista scomodo. Intanto è uno scienziato con credenziali decisamente alte e un lungo e ricco profilo scientifico: professore alla Cornell University per oltre 25 anni, tra i maggiori esperti mondiali di ingegneria genetica, inventore della tecnica e del dispositivo della biolistica, noto come Gene Gun, grazie al quale è diventato possibile inserire Dna estraneo dentro una cellula, e co-inventore della tecnica della resistenza derivata da patogeni e del processo di immunizzazione genetica. In pratica tutta l’ingegneria genetica deve a lui buona parte delle proprie enormi conquiste tecnologiche degli ultimi 30 anni.

John Sanford è uno scienziato scomodo anche perché nella prima parte della sua carriera è stato ateo ed evoluzionista.

Ma poi, egli afferma, approfondendo gli studi sui processi genetici, si è trovato di fronte alla sfida di mettere in discussione gli assiomi fondamentali del darwinismo per cui, lungo un percorso di svariati anni, si è trovato a passare da ateo a teista evoluzionista e poi a cristiano convinto dalle proprie ricerche che le basi delle teorie derivate da Darwin siano fondate sul nulla dal punto di vista sperimentale.

Perché, egli dice, abbiamo davanti due cose, quando parliamo di scienza, la scienza sperimentale e la scienza storica. Facciamo scienza sperimentale quando eseguiamo un esperimento che poi sia ripetibile in altri laboratori e il risultato sia confutabile, verificabile, falsificabile.

Quando invece, a partire da un fatto, da una realtà presente e sotto i nostri occhi, procediamo per inferenze e ipotesi, ricostruendo il passato, descrivendo eventi e processi che non possiamo riprodurre né più osservare, allora facciamo scienza storica. E facendo quella, se siamo troppo concentrati sulle nostre ipotesi e credenze, a forza di procedere per deduzioni, il rischio che dalla historical science finiamo nella science fiction è alto.

Ad esempio, per tornare a quella pagina del forum che ha deciso che non si possa essere creazionisti e anche intelligenti, tra le diverse critiche dei vari utenti esperti, si trova quella di chi inveisce contro la cecità dei creazionisti, perché l’evoluzione è sotto i nostri occhi: li vedi un chihuahua e un alano? quella è evoluzione.

Come se mai ci sia stato da qualche parte un creazionista che abbia negato il fatto evidente che tutte le diverse razze di canidi siano il risultato di processi di adattamento a condizioni e ambienti diversi di quello che è stato un antenato canide comune. Ma poi, procedere ancora indietro, dal canide al roditore, al rettile, all’animale acquatico, al vegetale, al protozoo, all’organismo unicellulare è tutt’altro percorso e ben diversamente evidente.

Genetic Entropy, pubblicato per la prima volta nel 2005, è il risultato di lunghi anni di ricerche nel campo della genetica e della bioinformatica. La tesi fondamentale, che Sanford espone per tutta l’opera attraverso grafici, statistiche, argomentazioni teoriche, esempi pratici è che il corredo genetico di un organismo, con il passare del tempo e delle generazioni, è soggetto ad un processo di graduale e inesorabile degenerazione dovuta all’accumularsi continuo di mutazioni le quali sono tutte negative, al massimo neutrali o quasi-neutrali. La percentuale di mutazioni che abbiano effetti positivi è talmente bassa da essere trascurabile.

La legge dell’entropia, dell’inesorabile tendenza al caos e al disfacimento, agisce sul genoma, questo dimostra ogni tipo di ricerche ed esperimenti. E dunque, a livello sperimentale, su base genetica, non si trova traccia alcuna dell’assioma primario dell’evoluzionismo, che, cioè, mutazioni casuali e selezione naturale producano aumento di informazioni genetiche e dunque aumento della complessità della vita.

Ogni tipo di esperimenti, al contrario, mostra ampiamente una costante e inarrestabile perdita di informazioni genetiche. Non c’è alcuna evidenza di qualcosa che possa lontanamente dirsi creativo nel processo di selezione naturale. Quello che al più si osserva è il meccanismo di conservazione di cui la vita appare dotato, che permette la neutralizzazione delle mutazioni più dannose e dunque tutto quello che si può dire è che la vita, a livello genetico, risulta strutturata per conservarsi e rallentare il più possibile il processo degenerativo.

Attraverso i diversi capitoli l’A. affronta e demolisce gli assunti fondamentali del dogma evoluzionista e neodarwiniano. Nelle 6 appendici poste dopo i capitoli si confronta direttamente con molte delle possibili obiezioni alle sue ricerche e in fondo esprime chiaramente il fondamento cristiano del suo lavoro.

Nell’ultima appendice affronta la questione della risposta del mondo accademico a questo suo lavoro. Nonostante la richiesta di revisione critica da parte di altri scienziati, l’A. lamenta un sostanziale silenzio.

Ed è certo una cosa notevole, considerando il calibro dell’autore, con più di 70 pubblicazioni scientifiche e diversi brevetti, di certo avrebbe meritato perlomeno una puntuale ed argomentata confutazione, magari anche una stroncatura.

Genetic Entropy è edito da FMS, una organizzazione fondata dallo stesso Sanford e soltanto adesso, nel 2017, ad opera di AISO, Associazione Italiana Studi sulle Origini, abbiamo un’edizione italiana con immutata veste grafica rispetto all’edizione originale.

Praticamente impossibile trovare commenti critici equilibrati: da un lato gli evoluzionisti attaccano duramente il suo lavoro mettendo in dubbio la sua stessa etica e la buona fede, delegittimando e deridendone le tesi (anzi, per la verità, praticamente tutto ciò che si trova di critico è di questo tenore, sono pochissime le puntuali e argomentate confutazioni); dall’altro versante coloro che hanno convinzioni creazioniste, salutano Genetic Entropy come una tra le più potenti e lampanti demolizioni del dogma neodarwinista, l’opera più illuminante.

Così ci troviamo in questo nostro tempo, le argomentazioni di coloro che si dichiarano sostenitori di un punto di vista scientifico, razionale, sono della stessa natura di quelle di seguaci, estremisti, fedeli, cariche, cioè, di personalismi, di emotività, di espressioni ricorrenti e stereotipate, degne di una qualsiasi corrente religiosa.

Per di più gli ambiti di indagine di tanta scienza sperimentale sono diventati talmente distanti dalla possibile percezione del sentire comune (ad esempio la genetica e il suo mondo di dimensioni infinitesimali) da essere di fatto accessibili ad una cerchia ristrettissima di persone, come sacerdoti o profeti in contatto con il trascendente, le quali affermazioni, contrariamente a quello che dovrebbe essere la scienza, possono soltanto essere accolte o rigettate con un gesto, che non può essere chiamato altrimenti che fede.

Daniele Mangiola | 23.04.2018

Dirs Gbu

Pedagogia, razionalismo e religiosità

Lunedì 9 Aprile 2018

 

MANUELA GALLERANI, L’impegno lieve. Il razionalismo critico e l’ideale estetico, Loffredo Editore, Napoli 2012
pagine 170.

Le ragioni di questa breve e spero scorrevole recensione sono prima di tutto personali, nella misura in  cui ogni credente tiene alla correttezza critica. In un volume che vuole essere – ed in parte riesce nel suo intento – un riassunto programmatico del razionalismo critico erede dell’insegnamento di G. M. BERTIN nel campo della pedagogia, colpisce – pur nel continuo e corposo richiamo all’etica – la totale e completa mancanza di qualsivoglia citazione di autori anche solo lontanamente legati allo sviluppo del pensiero cristiano. In effetti l’autrice non si pone scrupoli ad accostare da pagina 93 a pagina 106 in un paragrafo dal titolo “L’abitare etico e il lettore (etico)” autori come ARISTOTELE, HEIDEGGER, NIETZSCHE attraverso la rilettura di G.M. BERTIN (Nietzche. L’inattuale, idea pedagogica, La Nuova Italia, Firenze 1977) . Sono queste tutte citazioni utili, ma parziali perché saltano a piedi pari circa 2300 anni di sviluppo del pensiero occidentale, per portare l’autrice alla definizione di “abitare etico” fatta in nota a pagina 100,
che ritengo utile citare: “Con la locuzione abitare etico … … si intende un abitare orientato secondo posture di vita autentica che poggiano sulla progettazione esistenziale in direzione etica- utopica. Seguendo un’impostazione aderente al problematicismo razionalista, in grado di proiettare il soggetto- persona al di là del già dato, in un costante dialogo con gli altri, l’utopia rappresenta l’obbiettivo trascendentale verso cui tendere e consente di prefigurare (e comprendere) ciò che ancora non è.”

In questo spinta verso un “obbiettivo trascendentale” non ben precisato, se non nella misura dell’impegno, si devono leggere gli esempi portati dall’autrice. Si vuole rimarcare come gli esempi debbano essere verifiche della teoria dell’abitare etico in una progettazione esistenziale, definizioni che impongono come imperativo considerare l’intera vita degli esempi in ogni loro aspetto, tanto più che nel primo esempio si parla di una suicida. Nel capitolo “Gli enigmi della vita e il sonno della ragione” da pagina 77 è portata all’attenzione del lettore l’esperienza di ANTONIA POZZI a cavallo tra le due guerre mondiali, ma anche qua si nota, pur dopo il promettente a pagina 76 “… la consapevolezza della tragicità dell’esistenza tiene la poeta milanese sospesa su un doppio crinale, quello laico e quello cattolico.”, l’assoluta mancanza di una considerazione per l’aspetto “religioso” del vissuto di ogni essere umano; riducendo tutto ad una sola dimensione, quella esistenziale e razionalistica. In questo modo è compiuta una forzatura, perché si cerca il fine ultimo e l’etica tralasciando una mole di dati sugli stessi esempi che vengono portati a sostegno della tesi. Per altro la vita e la tragedia della Pozzi sono in questa visione parziale non pienamente contestualizzate come meriterebbero. Questa aporia esiziale che viene reiterata, in modo a tratti comico, con l’analisi della vita del poeta JEAN-BAPTISTE SIMÉON CHARDIN (1699- 1779) nel capitolo “L’abitare etico e il
silenzio estetico”, da pagina 106.

Ancora una volta l’aspetto cristiano viene ignorato, cassando di fatto l’intera problematica di un pittore di corte, qualunque esso fosse, del ‘700. Non è possibile non considerare anche solo per una seria contestualizzazione, l’aspetto religioso in Europa nel corso del ‘700, negli sviluppi dell’impegno di un pittore di corte. Queste mancanze portano alla definizione di pagina 116, che è poi la ragione di questa recensione: “Ancora, sulla scorta dell’insegnamento bertiniano, rileviamo come tale
riflessione si accosti ad uno stile esistenziale autentico e progettuale, che tenti di coniugare le istanze della ragione con i bisogni arcaici ed inconsci della vita psichica. Senza escludere i desideri e le passioni più profonde che permettono di interpretare l’esistenza attraverso il filtro di uno stile profondamente laico, ancorché intimamente religioso (pur non in senso dottrinale) e impegnato. Sulla religiosità laica dei noncredenti ecc. ecc..” che conduce a pagina 141 “… e giungere, alfine, ad affermare che l’uomo/la donna con le loro libere scelte etiche possono diventare persone (cittadini/e) capaci di prossemicità. Solo scegliendo e impegnandosi responsabilmente, sfidando la sorte, possono pensare di raggiungere persino quell’utopica meta, indefinibile eppure possibile, chiamata felicità.”

Con questo manifesto si chiude il pensiero e la linea del volume. A fronte di queste affermazione è del tutto lecito chiedersi quale sia la differenza tra la religiosità laica e la religiosità. Ripensando alla mancanza di un reale confronto critico del pensiero e dell’opera complessiva degli autori portati come esempi l’unica seria definizione di questo volume è quella di “manifesto”. Come tale è utile e di valida lettura, sapendo che non è un opera rivolta a tutti, ma solamente ad una parte che vuole portare avanti un ideale di vita. Spiace perché spesso queste parzialità non vengono messe bene in evidenza.

Francesco Raspanti, Bologna 09/04/2018.
(DiRS – GBU)

Il significato del matrimonio (Lunedì Letterario)

Lunedì 26 marzo 2018

In occidente l’istituto matrimoniale è ormai da tempo preso d’assedio, ridefinito e condannato a una condizione di marginalità e subalternità dal pensiero dominante. Sovrastrutture sociali e religiose depositarie di convenzioni sedimentate, d’altro canto, proiettano una visione del matrimonio asfittica e schiava di atavici super-io. Con una prosa accattivante e ricca di opportune citazioni letterarie, Tim Keller, pastore evangelico della Redeemer Presbyterian Church di New York e noto autore evangelico, ne Il matrimonio, edito per i tipi di Casa della Bibbia (2016), si propone di decostruire quelle visioni del matrimonio, e religiose e secolari, che hanno nella soddisfazione dell’io il denominatore comune, per riscoprire il significato essenziale dell’unione coniugale ― The meaning of marriage è il titolo originale dell’opera edita da Penguin.

Keller ci presenta un paradigma del matrimonio che sfida lo spirito del tempo, in quanto non già riflesso di dinamiche umane, ma di rapporti interni al Dio trino e della relazione che Dio desidera instaurare con l’uomo. L’amore, il servizio e la sottomissione che informano la relazione fra Padre, Figlio e Spirito diventano modello per l’uomo, creato maschio e femmina per rifrangere nell’unità della coppia l’immagine e la somiglianza di Dio. Non solo, ma Dio si incarna per raggiungere l’uomo nella sua condizione e stabilire con lui una relazione che si fonda sulla sua grazia. Nell’incarnazione Cristo declina l’autorità di Dio sull’uomo in termini di servizio e con la sua ubbidienza al Padre fissa il modello di sottomissione. Ecco che servizio e sottomissione vengono ridefiniti e nobilitati, riscattati dalla visione patriarcale come anche da una visione individualista che fa dell’emancipazione il valore ultimo.

Tutto in Cristo si traduce in amore. Il principio sotteso costituisce, sulla scorta del pensiero di C. S. Lewis (vd. Scusi, qual è il suo Dio, Edizioni GBU, 1981; Il Cristianesimo così com’è, Adelphi, 1997) e Gary Thomas (Vincolo santo, Edizioni GBU, 2009), una sorta di fil rouge lungo gli otto capitoli in cui il libro è suddiviso e si contrappone al principio dell’egocentrismo umano, quello che C. S. Lewis chiama “il grande peccato”. Il matrimonio cristiano non è spazio al cui interno l’egocentrismo dell’uomo può vantare prerogative e attuare le proprie rivendicazioni. Nel matrimonio cristiano non vedo più l’altro in funzione di me stesso, come fonte cioè di appagamento dei miei bisogni e desideri, ma il bene altrui, bene che coincide con la santificazione della persona, diventa fine in ragione del quale trovo vero significato e soddisfazione. In altre parole, l’invito che la persona e l’evento di Cristo nella storia significano recita in relazione al matrimonio: non cercare te stesso, ma perdi te stesso per l’altro e troverai l’altro e, insieme a lui, te stesso. Come realizzare tutto ciò? Se lo sviluppo di ciascun capitolo impone una scelta, ogni capitolo si chiude con un rimando a Cristo. Cristo è sì il modello del matrimonio cristiano, ma è ad un tempo fonte cui attingere per realizzarlo. Soltanto la persona che ha trovato in Cristo il fine ultimo dell’esistenza e la fonte che appaga ogni bisogno e desiderio è libera di amare. Soltanto la persona salvata da se stessa può vedere l’altro, donarsi a lui e votarsi al suo vero bene.

Un limite del libro è forse da ricercare nella marginalizzazione dell’elemento fisico, estetico ed emotivo. È Dio stesso a legittimare ed elevare l’elemento terreno attraverso creazione e incarnazione. Se l’amore romantico non può essere elevato a fine del rapporto fra uomo e donna, pena la continua disintegrazione dei rapporti e una ricerca mai compiuta, nella misura in cui Dio è centro e fine dell’individuo e del rapporto, tutto ciò che è terreno assume il suo vero significato e viene, per così dire, restituito all’uomo in tutta la sua bellezza.

In ultima analisi, Keller fornisce una visione estremamente realistica del matrimonio, invitando nel contempo il lettore a riscoprirne il significato e la bellezza attraverso le lenti dell’evangelo.

Non si può infine non fare un pur breve cenno all’eccellente lavoro editoriale frutto di uno sforzo da parte di Casa della Bibbia che rende giustizia alla pubblicazione originale.

 

(Filippo Falcone – DiRS GBU)

Riforma senza futuro? (Lunedì Letterario)

Lunedì 12 Marzo 2018

Riflettendo sulla Riforma IV

 

Un dibattito aperto e che si è ravvivato durante le celebrazioni del Cinquecentenario della Riforma è quello riguardante l’attualità del protestantesimo. Già qualche anno fa Mark Noll, sociologo e teologo evangelico, si chiedeva se i tempi non avessero portato ad un superamento delle istanze del pensiero riformato. Questo dibattito ha avuto qualche eco in Italia e, nel corso del 2017, Fulvio Ferrario, docente di teologia sistematica della Facoltà Teologica Valdese, ha raccolto la sfida, pubblicando, per i tipi della Claudiana, un testo dal titolo, Il Futuro della Riforma.

Il testo inizia con un’analisi della situazione religiosa dell’Europa (direi) oggi preceduta da un’invocazione (“Nella Tua bontà, dacci un avvenire”) che non nasconde la crisi del mondo protestante europeo, in particolare quello delle chiese “storiche” e di Stato, dove è chiuso tra la tenaglia della “areligiosità” e della postsecolarità, in cui si cercano spiritualità che sono alternative a quelle proposte dal cristianesimo. Ferrario passa in esame i dati del problema ed anche le conclusioni filosofiche che, nella modellizzazione proposta, sono rappresentate dal pensiero di Habermas (che ha suggerito, in alcune delle sue opere più tarde, alle religioni a continuare a diffondere la propria significatività in un mondo plurale) e di Bauman, la cui idea di società liquida si rispecchia anche in un bisogno di religiosità liquida, una religiosità “fai da te” che permea soprattutto le società più secolarizzate. Non manca la discussione sul concetto di secolarizzazione e su come essa sia stata determinata dal protestantesimo. Sulla scia della lezione bonhoefferiana, l’A. Vede nel “mondo adulto” un’occasione per un rinnovamento della predicazione del Vangelo.

Proprio partendo da quest’idea il secondo capitolo delinea un modello di pastorale protestante che sarebbe il mezzo con cui dovrebbe sussistere il protestantesimo nel nostro mondo. Ferrario vede nella Parola e nella Chiesa i due poli di questo progetto. La Parola ha una rivalutazione di tipo liturgico ed è usata nel protestantesimo con varie funzioni da quella della predicazione, a quella dell’istruzione, a quella della cura pastorale e della pietà personale. Queste quattro dimensioni della Parola sono fondamentali per il protestantesimo. La Chiesa, nel modello protestante, potrebbe sembrare il lato debole, ma una rivalutazione dei ministeri e il fondamento che viene dato al valore della comunità ecclesiale, fa sì che l’appartenenza ecclesiastica divenga una peculiarità delle chiese evangeliche.

Come da buona tradizione teologica continentale, la cristocentricità è vista come una delle costanti del pensiero protestante. Infatti il terzo capitolo è dedicato al Cristo della Riforma. L’A, dopo aver identificato in Cristo la stessa Rivelazione di Dio (riprendendo Barth) e spiegato cosa si intende con questo termine, riprende la theologia crucis di Lutero, mostrando come la testimonianza del Cristo che patisce e che soffre per la sua umanizzazione sia al centro del pensiero riformato anche nel XX secolo e Barth e Moltmann (ma anche Jungel) ne sono stati i più grandi interpreti.

Per essere ancora “attuale” il protestantesimo non si può presentare solo come teologia e pastorale, ma deve anche essere proposta etica per il mondo in cui viviamo. Ecco perché il quarto capitolo del volume è dedicato al tema della responsabilità del cristiano. Si riprende il concetto della responsabilità cristiana riprendendo il rapporto tra fede e ubbidienza come emerge nel testo di Lutero dedicato alla Libertà del cristiano e si pensa ad un modello di responsabilità personale ed anche di discepolato che vada al di là del proprio gruppo confessionale pur partendo da esso e che può dare una chiara testimonianza ecclesiale nel dibattito etico, dove Ferrario pensa che l’apertura al mondo sia una delle chiavi interpretative della voce del credente (o della voce della Chiesa, questo non è chiaro, in un testo in cui non si fa una chiara distinzione fra individuo e comunità).

Il libro si chiude con l’idea della “inattualità” della Riforma che andrebbe un po’ contro il pensiero di altri AA. (si veda quanto abbiamo scritto a proposito del testo di McGrath) che, invece, vedrebbe nella Riforma un pensiero attuale e non totalmente al di fuori dei tempi. Ferrario fa un elenco di “sfide” che il protestantesimo deve affrontare e che vanno da quella ecumenica, a quella del concetto di sacerdozio, ad una chiesa che deve riscoprire il ruolo del discepolato. Solo il paragrafo finale esce dalla prospettiva europea per accennare al “nuovo protestantesimo” (che in realtà è una variante dell’ala radicale) che è trionfante in alcune parti del mondo diverse da quelle europea, dove sicuramente una secolarizzazione avanzante e, perché no, un certo insuccesso di un messaggio poco radicale e sin troppo conformistico ha reso il protestantesimo “inattuale”:

Il volume merita di essere letto, ove si voglia conoscere la percezione di un protestantesimo in crisi come quello continentale e delle chiese storiche che, però, nel caso del modello proposto da Ferrario continua, pur dotato di un’adeguata capacità di analisi contestuale, a rimanere autoreferenziale, rischiando così di continuare ad essere marginale.

Il modello “vincente” di protestantesimo, a nostro parere, non è quello proposto da questo volume che, giustamente, finisce con il chiedersi se il protestantesimo sia inattuale. Risulta oggi dominante un mondo evangelico con una struttura ecclesiastica piuttosto agile (a noi sembra invece che la proposta del teologo valdese, forse da leggere in ambito ecumenico, sia quella di una sorta di irrigidimento della confessionalità e del ruolo dei ministeri e della Chiesa) e con un rapporto personale con il Vangelo (una parola che non appare molto spesso nel testo) che continua a dover essere predicato. Solo forse capovolgendo la prospettiva si può avere un protestantesimo vincente ed anche una prospettiva ecumenica meno agganciata a quanto avviene nella Curia Romana o nelle stanze ginevrine del Consiglio delle Chiese. Forse sarebbe valsa la pensa volgersi verso quest’altro aspetto per cercare una risposta che, va ammesso, si cerca nello studio proposto.

(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

Il cappellano reale (Lunedì Letterario)

Lunedì 26 Febbraio 2018

 

Il nostro sito ha pubblicato qualche giorno fa un estratto dal libro di McGrath recensito la scorsa settimana e meglio non si poteva celebrare il più grande evangelista americano del XX secolo: Billy Graham. La nostra rubrica letteraria, invece, si soffermerà questa settimana su una serie tra le più acclamate della televisione in streaming: The Crown trasmesso in esclusiva da Netflix anche in Italia e vincitore di diversi premi televisivi. Al contrario della variegata offerta centrata molto su fantasy, fiction e fantascienza, la serie inglese narra le vicende della famiglia Windsor, partendo dall’incoronazione di Elisabetta II sino giungere (almeno sino al momento) agli inizi degli anni 1960.

La ricostruzione storica della serie appare quanto meno sontuosa e molti (compresi il sottoscritto), dopo aver visto una puntata, vanno a controllare quanto siano storici gli avvenimenti. Alcuni hanno detto che si tratta di telefilm piuttosto lenti nel loro svolgimento (20 puntate di circa un’ora hanno coperto poco più di un decennio del regno più lungo della storia del Regno Unito), ma la sua accuratezza nei particolari, nella descrizione del cerimoniale, nello svolgimento lento della storia, ci pare essere la sua forza, tipica della buona tradizione delle serie di stampo britannico che, in questi aspetti, molto più che sul “taglio” fotografico e sulla sceneggiatura, superano per qualità quelle americane.

The Crown inizia con la giovanissima Elisabetta II proiettata, dall’inaspettata morte del padre, alla corona di Inghilterra. Tutti sapevano che sarebbe diventata la sovrana d’Inghilterra masi pensava che tutto ciò sarebbe accaduto molto più tardi. I protagonisti della prima serie sono la Regina e Winston Churchill che, dopo la pausa laburista di Atlee, riprese il potere nella seconda metà degli anni Cinquanta. Il Primo Ministro inglese, l’eroe che aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale, si trova a dover “rendere conto” e a guidare nelle maglie del protocollo la giovane sovrana. La serie dipinge un Churchill che, nonostante le età e gli acciacchi, dopo i dubbi, riesce ad apprezzare l’atteggiamento di un sovrana che, nella magistrale interpretazione di Claire Foy, entra sempre più nel suo ruolo ed agisce  molto più di quanto ci si aspetti.

Accanto all’ambientazione storica (che, a nostro parere, è il punto forte della sceneggiatura di Peter Morgan) non mancano le questioni familiari: il matrimonio con Filippo in tutta la sua problematicità, il rapporto con la Regina Madre determinante nei primi anni del Regno, il rapporto conflittuale con la sorella Margareth che può permettersi, proprio perché non riveste un ruolo istituzionale, di poter vivere una vita meno regolata e convenzionale. Elisabetta, però, dimostra la sua forza proprio nel rispettare le regole, nel capire quale sia il suo ruolo, nel valorizzare i suoi silenzi oltre che le sue parole. In un mondo come quello degli anni 1950 è chiaro che un personaggio come Filippo che, nella sceneggiatura del film, è sposato da Elisabetta per reale amore, si trovi in una situazione di subordinazione e di frustrazione per una persona che aveva aspirazioni (peraltro un po’ immaginarie) di poter diventare a sua volta sovrano della Grecia. La crisi di Filippo si approfondisce ancor di più nella seconda serie e, benché si possono apprezzare anche diverse delle caratteristiche dei principali personaggi, questi conflitti familiari talvolta rischiano di trasformare l’ottimo sceneggiato in una soap opera, anche se sono importanti per comprendere come anche gli esseri votati a importanti compiti vivono i problemi della quotidianità.

Un aspetto interessante che il creatore della serie non ha ignorato è il fatto che, tra i diversi ruoli che il sovrano britannico ricopre, vi è anche quello di Supreme Governor of the Church of England (Supremo Governatore della Chiesa d’Inghilterra): in tutta la serie non viene posto alcun dubbio sulla sincera fede di Elisabetta (più volte la si vede pregare) e sull’importanza che viene dato al ruolo che riveste nei compiti della regina. Elisabetta è una credente sincera che rimane affascinata (come è stato nella realtà) dal più grande predicatore della seconda metà del XX secolo. Una buona parte di una delle puntate della seconda serie è dedicato a questo incontro e sintetizza bene anche l’importanza di Graham nel mondo anglosassone. Elisabetta (nello sceneggiato, ma pare anche nella realtà), è diventata una grande ammiratrice del predicatore battista probabilmente perché vide in lui la trasmissione di un messaggio semplice ed immediato e, durante la prima campagna evangelistica in Gran Bretagna, lo inviterà anche a predicare nella cappella di Windsor, rimanendo in costante contatto con Graham durante tutta la sua vita e cogliendo qualsiasi occasione per incontrarlo ed ascoltarlo, esattamente come hanno fatto diversi presidenti americani.

Pur se con qualche riserva, quindi (talvolta si indugia troppo sui rapporti familiari in maniera un po’ esagerata) The Crown è una serie che merita di essere vista e da cui si può trarre ispirazione sia per una maggiore conoscenza della storia del secolo scorso, sia per comprendere il complesso protocollo reale e la sua importanza ancora oggi nel mondo britannico, sia  per apprezzare alcuni valori come quelli religiosi che sono ancora tenuti in conto dalla monarchia (o almeno da Elisabetta II). Forse sarebbe stato il caso talvolta di non esagerare il tono un po’ pessimista sulla visione del mondo (presente un po’ nella sceneggiatura, dove la Corona è vista metaforicamente come un grande peso), ma è una serie che può portare a profonde riflessioni, pur nella piacevolezza della visione televisiva.

(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

Vedi qui il trailer dell’episodio

La Riforma sovversiva (Lunedì Letterario)

Lunedì 19 febbraio 2018

Riflettendo sulla Riforma III

Nel panorama italiano mancavano da diverso tempo delle opere che abbracciassero sinteticamente il profilo storico e teologico della Riforma Protestante. In occasione del cinquecentenario la nostra casa editrice ha deciso di tradurre un testo di Alister McGrath che in italiano ha come titolo La Riforma protestante e le sue idee sovversive. Una storia dal XVI al XXI secolo. La scelta ha già ricevuto commenti molto positivi (si veda la recensione di Giancarlo Rinaldi su https://giancarlorinaldiblog.wordpress.com/2017/11/23/una-sovversione-conservatrice/), ma la nostra rassegna serve per evidenziare alcuni aspetti che non sono stati evidenziati nelle precedenti recensioni.

In primis l’A.: la scelta di McGrath e del suo testo ha una sua significatività. Il teologo britannico si era già distinto per opere importanti sulla storia del dogma nel protestantesimo (magistrale è il suo lavoro sulla giustificazione ed anche quella che ricostruisce i prodromi della Riforma Protestante) ed è un anglicano evangelico, appartenente a quella “terra di mezzo” tra protestantesimo e cattolicesimo che permette di avere uno sguardo critico e disincantato. L’altra caratteristica (quello di essere evangelico) fa sì che ci sia uan profonda conoscenza del mondo protestante di oggi e dei suoi sviluppi nei Paesi del Sud del mondo.

In secondo luogo, McGrath è un soprattutto un teologo più che uno storico ed il testo lo dimostra. Infatti, l’impianto sintetico, ma allo stesso tempo accattivante (il testo si legge d’un fiato grazia anche alla buona traduzione), si basa su una griglia interpretativa ben precisa: il protestantesimo è stata una “rivoluzione”, in quanto ha cambiato le vicende dell’Europa Occidentale prima e del mondo dopo in maniera ineluttabile, grazie alle sue idee. Esso ha sicuramente tenuto conto delle spinte della modernità, ma ha anche mantenuto alcuni aspetti della tradizione.

Il testo si presenta strutturato nelle sue seicento e più pagine in tre diverse sezioni.

La prima parte si delinea come un profilo storico che va dalle origini sino al XIX secolo. McGrath si sofferma prima sui prodromi della Riforma, dando spazio alla figura di Lutero e ribadendo che si tratta di un riformatore malgrado sè stesso, che non aveva idea originariamente della portata rivoluzionaria delle sue idee. Si continua con il capitolo in cui si parla dei molteplici aspetti del movimento sin dall’inizio, di quali alcuni erano alternativi a Lutero (in primo luogo l’anabattismo), di chi siano stati i suoi successori (soprattutto Calvino) e di come sia stata “originale” la riforma Inglese. Lo sguardo si fa più sintetico quando si parla di Protestantesimo del XVII e XVIII secolo in Europa e ritorna ad essere più ampio quando si dedica un intero capitolo al Protestantesimo negli Stati Uniti che diverrà quello veicolante nel XIX e XX secolo e che assumerà caratteristiche (quali quelle del congregazionalismo e dei continui risvegli) tipiche.

La sezione centrale del saggio è quella più strettamente culturale e teologica ed è dedicata a quelle che sono definite le idee sovversive ed alle influenze che il Protestantesimo ha avuto nel campo della cultura. Per McGrath oltre ai cinque Sola (che sono frutto di una ricostruzione e che differiscono sin troppo nelle chiavi di lettura) le due idee principali che accomunano (pur nelle differenze di interpretazione) tutto il mondo protestante: l’autorità della Bibbia (il sola scriptura) ed il principio del sacerdozio universale che ha avuto effetti dirompenti non solo a livello ecclesiastico, ma anche a livello sociale. Molti potrebbero osservare che si tratta di una griglia limitante, ma come afferma più volte l’A., cercare elementi comuni appare cosa ardua e, alla fine, questi sono quelli a cui tutti i gruppi evangelici si richiamano.

I capitoli più interessanti del testo, infatti, a nostro parere, sono quelli che si occupano dell’impatto culturale del protestantesimo. Per McGrath con l’avvento di questa nuova forma di cristianesimo, piuttosto variegata dal punto di vista denominazionale e di strutture della fede, la figura di Cristo interagisce in maniera interessante con i contesti sociali, con l’economia, con l’educazione (più aperta e meno elitaria) e persino con le differenze di genere. Arti e scienze poi sono fortemente influenzate dal pensiero protestante e il teologo irlandese mostra come anche i modelli di spiegazione biologica sono plasmati ancora oggi all’interno del pensiero protestante, compreso il darwinismo. Non mancano interessanti accenni anche alla letteratura ed al privilegiamento che il mondo evangelico ha dato alla creatività verbale, diventando la culla di un’invenzione quale il romanzo. Per questi motivi il protestantesimo è “sovversivo” non solo nel campo ecclesiale, dove l’individuo è al centro del rapporto di salvezza con il Cristo, ma anche con la cultura, dove il cristocentrismo (ben descritto nella prima parte di questa sottosezione) cambia anche il rapporto con la cultura.

L’ultima parte del testo è dedicato al presente ed al futuro. Da una parte in due capitoli si parla di quelle che sono state le più importanti svolte del protestantesimo del XX secolo: la trasformazione delle chiese statunitensi con il loro conseguente allontanamento dalle denominazioni tradizionali e la nascita del pentecostalismo, il movimento protestante che è maggiormente in crescita. Per McGrath le prospettive sono di crescita del protestantesimo soprattutto nel Sud del Mondo. Pertanto oggi il Protestantesimo non è più un fenomeno di pertinenza occidentale ma ha nell’Africa subsahariana, nell’Asia (Corea del Sud e Filippine sono i due esempi) e nell’America Meridionale i nuovi poli di sviluppo che sono visti con attenzione e su cui si fanno giuste osservazioni.

Il libro è una ottima sintesi che mancava nel panorama italiano dove gli studi (fatta eccezione per la tradizione della Storia del Protestantesimo di Leonard) continuano ad avere una prospettiva eurocentrica e da riforma magisteriale. Tra i meriti del testo vi è quello di essere la prima vera storia globale del protestantesimo pubblicata in italiano. La prospettiva anglosassone (non presente negli altri lavori) enfatizza il ruolo degli Stati Uniti che sono diventati, a partire dal XVII secolo, la Nazione che ha maggiormente caratterizzato il protestantesimo mondiale e del pentecostalismo che, benché sia maggioritario anche in Italia tra gli evangelici, non viene quasi mai adeguatamente trattato negli studi sul protestantesimo in Italia. La griglia interpretativa usata poi da McGrath che sottolinea la portata rivoluzionaria dal punto di vista culturale, ma anche e soprattutto teologico del movimento, ci permette di avere un’immagine che non è totalmente agiografica ma che non nasconde le criticità, le cadute ed i punti deboli. Si tratta di un testo che va letto da parte di chiunque voglia conoscere meglio il Protestantesimo in tutte le sue dimensioni.

Valerio Bernardi – DIRS GBU

Un Calvino dal volto umano (Lunedì Letterario)

Lunedì 12 Febbraio 2018

E. Fiume, Giovanni Calvino, Salerno Editrice, 2017

Riflettendo sulla Rifoma II

 

La figura di Lutero (forse proprio perché l’iniziatore del movimento riformato) è stata vista, da certa storiografia italiana, con un certo sospetto; Calvino, paradossalmente, nella storia italiana, ha goduto di una maggiore attenzione e di un maggiore rispetto. Diverse sono state le ragioni di questa diversa attenzione: un qualche ruolo ha giocato l’interpretazione weberiana ma anche i giudizi di Benedetto Croce molto lusinghieri sulla città di Ginevra e sul suo conduttore spirituale. Nonostante questa “attenzione benevola”, gli studi sul Calvino non sono proceduti di pari passo. Sono stati, infatti, pochi gli studiosi italiani che hanno dedicato un’opera al riformatore di Ginevra.

Le ultime monografie sul teologo francese risalivano agli anni 1920-1930 ed erano rispettivamente di Giuseppe Gangale e Adolfo Omodeo, la prima di carattere squisitamente teologico e l’altra di ricostruzione storica, oltre alla più recente piccola monografia di Giorgio Tourn, scaturente dall’introduzione fatta all’edizione italiana dell’Istituzione e che, per quasi cinquant’anni, è stato il testo di riferimento più autorevole scritto da un italiano.

Proprio nell’anno delle celebrazioni della Riforma, Emanuele Fiume ha pubblicato una bella monografia su Calvino per i tipi della casa editrice Salerno intitolata Giovanni Calvino. Il riformatore profugo che rinnovò la fede e la cultura dell’Occidente. Le motivazioni del libro sono subito messe in chiaro dall’A.: la figura di Calvino, il terzo esponente della Riforma magisteriale, ha avuto molta più influenza sul suolo italiano di quanto ne abbia avuto Lutero. Infatti, benché le opere di Lutero furono subito tradotte e/o parafrasate in italiano, sarà l’influenza di Calvino ad essere determinante per l’adesione dei Valdesi al Protestantesimo e alla formazione di alcuni teologi che abbracceranno la versione calvinista del protestantesimo come Zanchi, Vermigli ed altri.

Il testo di Fiume è un’accurata ricostruzione delle vicende di Calvino, dagli anni della sua formazione (di cui, in realtà, non sappiamo molto) sino alla sua morte a Ginevra. L’A. non tralascia nessuno degli aspetti della vita e del pensiero del riformatore e non nasconde quelli che possono essere stati i difetti del pensatore di Ginevra.

La lettura del testo, che è scorrevole e, a tratti, anche piacevole e sempre ben documentata, mette in chiaro alcune questioni e sfata alcuni miti a proposito della figura di Calvino. Al centro del saggio (come è giusto che sia) vi è il rapporto di Calvino con la città di Ginevra. Al contrario di quello che è normalmente pensato dalla vulgata storica, il teologo francese non fu mai il tiranno di Ginevra. Il suo arrivo fu accolto come quello di un ordinatore del caos teologico, ma, all’interno del Consiglio cittadino vi fu sempre una fazione contraria al pensiero ed al rigore proposto dal Riformatore.

Calvino, infatti, si allontanò una volta dalla città e visse un ulteriore crisi nel periodo 1546-1555, quando la fazione dei libertini ostacolò il suo cammino e cercò di metterlo in stato di accusa. A dimostrazione di ciò, Fiume ricorda che Calvino ebbe la cittadinanza ginevrina solamente un anno prima dalla morte e quindi il suo status giuridico fu quello di un profugo per quasi tutta la sua vita, un cittadino a metà, che, pur avendo un grande potere di tipo spirituale, non ebbe mai la possibilità di avere una tranquillità di tipo giuridico e istituzionale, rimanendo in un limbo di provvisorietà.

L’altro “mito” che l’A. cerca di sfatare è quello del Calvino intransigente. La questione di Serveto è ricostruita attraverso un’ottima documentazione e si dimostra che il riformatore sarebbe stato disposto ad un dialogo con il medico spagnolo che, a sua volta, dimostrò un carattere a tratti urtante. Calvino stesso ha poi sempre messo in cantiere le sue proposte (anche di riforma dei codici morali) sempre con l’avallo del Concistoro dei pastori che ha appoggiato buona parte delle sue decisioni. Il ritratto che ne esce fuori è quello di uno studioso rigoroso, ma aperto ad alcune delle esigenze della modernità e comunque in dialogo con tutte le componenti della Riforma. L’esempio che viene fatto è quella della dottrina della Cena del Signore, dove il pensatore francese cerca di mediare tra Lutero e Zwingli, trovando una formula mediana che però non sarà accettata dai luterani.

Un’altra falsa credenza su Calvino è quello della sua vita grigia. Fiume qui ci informa come il suo sia stato un matrimonio felice, almeno sino a quando la moglie è vissuta e di come Calvino amasse i suoi studi che faceva con passione e determinazione e che la sua formazione non lo faceva essere una persona poco affabile, anche se un po’ scostante. La descrizione è quella di un essere umano che ad un certo punto della sua vita sa di avere un grande compito e che deve la sua frugalità più a motivi di salute che a motivi etici.

Una sezione interessante del libro è quella dedicata alla diffusione della Riforma. Al contrario di Lutero e Zwingli, Calvino è colui che in maniera determinata, con una fitta corrispondenza e sostenendo i suoi discepoli, ha contribuito già durante la sua vita a diffondere la Riforma in Europa, specialmente nei paesi latini, ma anche in altre zone dove non si parlavano lingue germaniche. Calvino è il primo riformatore a rendere il protestantesimo un vero e proprio fenomeno internazionale.

Il testo di Fiume va letto con attenzione e rappresenta una bella monografia sul riformatore ginevrino che, citando un’ampia documentazione, ci offre un ritratto puntuale che dà un apporto fondamentale al rinnovamento degli studi sulla  Riforma in Italia, portando l’A. Ad diventare uno dei massimi esperti della figura del pensatore ginevrino.

 

Valerio Bernardi (DiRS-GBU)

Doctor Martinus (Lunedì Letterario)

Lunedì 5 Febbraio 2018

S. Rostagno, Doctor Martinus. Studi sulla Riforma, Claudiana, 2015

Riflettendo sulla Riforma Protestante (I).

 

Il 2017 è stato un anno importante per gli evangelici perché in tutto il mondo si è celebrato (idealmente) il cinquecentenario della Riforma Protestante, ricordando, in particolar modo, l’affissione delle 95 tesi da parte di Martin Lutero, avvenuto il 31 ottobre 1517.

La riflessione sull’argomento ha portato alla pubblicazione, sin dall’anno precedente, di diversi libri e saggi dedicati all’argomento. Anche la nostra casa editrice è stata impegnata in questo e ne parleremo in questa rubrica nelle prossime occasioni. Data la mole di pubblicazioni, a mo’ di bilancio, abbiamo deciso di dare conto di alcune di questei (sia che esse siano stati tradotte in italiano o meno).

Risulta difficile scegliere tra quanto edito e risulterà ancor più difficile essere esaustivi. Abbiamo però deciso di partire da uno dei più interessanti studi teologici su Lutero, pubblicato già un paio di anni fa da Sergio Rostagno, docente emerito di teologia sistematica della Facoltà Teologica Valdese. Il suo testo si intitola Doctor Martinus. Studi sulla Riforma ed è stato pubblicato da Claudiana, primo in ordine cronologico tra i testi che la casa editrice valdese ha dedicato all’argomento, in occasione delle celebrazioni.

Più che una serie di studi sulla Riforma in generale, come dice il titolo principale, i saggi presenti nel volume sono dedicati alla speculazione teologica di Lutero, soprattutto negli anni che precedono la Dieta di Worms che, a detta anche di molti storici, sono essenziali per lo sviluppo del pensiero del riformatore di Wittenberg.

Il testo parte con un capitolo introduttivo in cui si sottolinea l’importanza di Lutero per l’Europa. Al contrario di quanto alcuni storici (ed anche teologi) affermano, Rostagno mette in evidenza che il pensiero di Lutero non può essere considerato divisivo dell’Europa, ma anzi fondante della stessa. Riprendendo alcune tesi sviluppatesi negli anni 1990 si afferma che il primato della coscienza, la richiesta della libertà individuale anticipano alcune delle caratteristiche che l’Europa avrà. Fa parte di queste peculiarità della teologia luterana anche la tensione che si crea tra frammento e sistema. Chi abbia avuto dimestichezza con gli scritti luterani e li abbia paragonati con l’ordine sistematico di Calvino avrà notato l’asistematicità del modo di scrivere che, però, proprio grazie a questa caratteristica riesce ad irrompere ed avere successo in tutta Europa, portando avanti delle tesi che hanno una loro sistematicità proprio nello sviluppo teologico e nel rapporto tra Dio e Uomo, visto in maniera diversa da quanto lo era stato sino ad allora.

Il secondo capitolo entra più nel cuore del testo e ricostruisce lo sviluppo del pensiero teologico di Lutero dal 1515 al 1520. Dopo aver ricostruito quello che era lo sfondo medievale in cui si mosse il pensiero di Lutero, viene ricordato come fondamentale sia stato il suo posto di docente di Sacra Scrittura a Wittenberg ed i suoi corsi sull’Epistola ai Romani di Paolo sui Salmi, che hanno avuto sempre un ruolo centrale nell’ermeneutica e nell’economia della salvezza sviluppata da Lutero.. Centrale è anche la sua polemica con la Scolastica e l’adesione, almeno in un primo tempo, alla Via Moderna, contro quella Antica, rappresentata in Europa dal Tomismo e dai Domenicani (che saranno anche l’Ordine che porterà avanti le Indulgenze). I paragrafi più interessanti sono gli ultimi tre dove Rostagno entra in dialogo con il pensiero teologico e filosofico del XX secolo per mostrare come la formazione di Lutero e lo sviluppo della sua teologia abbia influenzato il nostro essere nella nostra epoca ed abbia dato una nuova luce all’azione umana qui sulla terra: per l’A. i concetti di sintetico ed analitico sviluppati in Kant sono conseguenze della concezione della libertà sviluppata in Lutero.

E’ proprio a questa problematica ed all’accurata lettura della Libertà del Cristiano che sono dedicati i capitoli successivi. Dopo aver spiegato, all’inizio del terzo capitolo, la genesi dello scritto, la divisione del testo, in cui la prima parte, a parere dall’A., fonda il soggetto e la seconda parte è dedicata alla questione delle opere. Al centro delle speculazioni del terzo capitolo ci sono le prime righe dello scritto, le più importanti e discusse su cui si basa il rapporto tra fede e pratica. Il quarto capitolo è quello più teologico ed è dedicato a quelli che sono dichiarati i due lati della libertà: quello individuale che ha portato il soggetto a diventare il protagonista della modernità e quello che deriva dal Dono della grazia di Dio e che porta alla descrizione di una vera e propria fenomenologia della libertà, vista come una delle caratteristiche principali dell’esser protestante.

L’ultimo capitolo è quello che dà il titolo a tutto il testo e, scritto un anno e mezzo prima delle celebrazioni, si chiede quale sia la maniera giusta per celebrare il dottor Martino. Rostagno cerca di collegare il pensiero di Lutero alla modernità e di mostrare come abbia creato uno spazio alternativo rispetto all’egemonia della cultura cattolica e, anche, perché no, di quella laica e illuminista. La Riforma, come dice l’ultimo paragrafo del titolo, va avanti e deve essere portata avanti soprattutto per la sua nuova antropologia che ha rivoluzionato la visione dell’uomo moderno e contemporaneo.

Il testo si chiude con un’antologia di testi luterani alcuni dei quali tradotti per la prima volta in italiano, citati da Rostagno per potare avanti la sua tesi.

Il testo, molto interessante e profondo, non è di lettura facile ma ha il merito di proporre una lettura originale, almeno in Italia, della Libertà del Cristiano, che merita di essere esaminata con attenzione ed è, a nostro parere, uno dei migliori contributi teologici sulla questione da parte italiana. Rimane da discutere la parte concernente il futuro della Riforma, ancora molto collegato all’Europa ed alla terzietà del protestantesimo e la sottolineatura sulla questione delle coscienza e della libertà che, anche se portata avanti con una lettura attenta dei testi, ci pare che sia un topos sin troppo classico e forse abusato.

 

Valerio Bernardi (DiRS-GBU)

Le ore buie (Lunedì Letterario)

L’ora più buia (tit. or. Darkest Hour), regia di J. Wright, Working Title Films, distr. Universal Pictures, Regno Unito, 2017

Lunedì 29 gennaio 2018

(Valerio Bernardi)

Nella giornata della Memoria abbiamo pensato di riprendere nuovamente il Lunedì Letterario, la prima rubrica del DIRS-GBU, per cercare di proporre ai nostri lettori letture di libri, ma anche, perché no, di film e di serie, per adeguarsi un po’ anche al mondo che ci circonda, dove i messaggi “popolari” oggi non passano solamente attraverso la carta stampata (o letta su video), ma anche attraverso i cosiddetti mass media, che, pur nella loro criticità, quando si vuole, possono essere veicoli di cultura e di confronto con la fede cristiana.

Per questo motivo ho deciso di iniziare, parlando di un film che è nella sale in questi giorni e che è uno tra quelli che ha avuto alcune nominations per gli Oscar e dato già a Gary Oldman, l’attore protagonista assoluto, il Golden Globe. Si tratta dell’Ora più buia, film che descrive l’ascesa di Winston Churchill come Primo Ministro del Regno Unito, in una delle ore più critiche per quel Paese.

Il film propone una sorta di cronistoria romanzata (piuttosto attendibile da un punto di vista storico, e convincente per l’asciuttezza della trama) dell’insediamento di Churchill come Primo Ministro, e si conclude con il memorabile discorso tenuto durante l’Operazione Dinamo, che salvò gran parte dell’esercito britannico asserragliatosi a Dunquerque e circondato dalle forze Naziste. Diretto da Joe Wright, già diventato famoso con altri film (tra cui Espiazione ambientato nello stesso periodo), è centrato sulla magistrale interpretazione di Gary Oldman che interpreta Churchill. Il film non diventerà famoso per le sue mirabolanti scenografie e per la fotografia: come qualche critico ha fatto già notare, si tratta di un film per certi versi claustrofobico, in quanto molta parte delle scene si svolgono nel famoso rifugio anti-bombardamento in cui si riuniva il War Cabinet durante il secondo conflitto mondiale.

 

L’insediamento di quello che diventerà il più famoso politico britannico del XX secolo non fu facile: il suo stesso partito non lo desiderava e fu solo grazie alla volontà dell’opposizione (Labours e Whigs) che Churchill poté diventare Primo Ministro. I conservatori, che avevano la maggioranza in Parlamento, non gradivano Churchill perché conoscevano la sua intransigenza nei confronti della dittatura nazista con cui, a suo parere, non si poteva scendere a compromessi. Buona parte dei dialoghi iniziali dopo il suo insediamento riguardano infatti la possibilità (che in realtà la Gran Bretagna aveva sino ad allora tentato con Neville Chamberlain) di trattare una pace separata che mettesse il Commonwealth al riparo dall’aggressione fascista, lasciando l’Europa al suo destino. Nel film scopriamo un Churchill sicuramente aggressivo, piuttosto eccentrico, amante degli alcolici e del buon mangiare (tutti particolari che corrispondono a verità), ma che aveva ben chiara l’idea che bisognava vincere contro un nemico che rappresentava il Male e che non si doveva scendere ad alcun compromesso. La sceneggiatura e l’interpretazione cinematografica di Oldman non nascondono i momenti bui e le incertezze di un uomo dalle fondate convinzioni ma che, ad un certo punto, si rende conto di avere sulle spalle il destino del mondo. In questi tragici momenti Churchill deve prendere decisioni difficili, a volte tremende e tragiche, come quella di abbandonare la guarnigione di Le Havre per cercare di salvare l’esercito asserragliato a Dunquerque e tutto questo non viene fatto a cuor leggere, ma in preda a mille dubbi. I suoi memorabili discorsi alla Camera dei Comuni, le sue espressioni che sono diventate famose, sono ispirate dalla sua cultura letteraria che attinge dai classici latini a Shakespeare e che lo renderanno uno dei maggiori scrittori del XX secolo (portandolo, tra i pochi saggisti al Nobel per la Letteratura), nel film emergono dai suoi profondi dubbi e dalle notti passate insonni.

 

Il successo dell’operazione Dinamo che porterà al salvataggio di buona parte dell’esercito inglese, darà a Churchill nuovo vigore e permetterà alla Gran Bretagna di fronteggiare da sola per più di un anno la Germania ed i suoi alleati.

 

Il film porta a riconsiderare un grande avvenimento storico, un’ora sicuramente buia per il mondo e l’umanità e attribuisce ad un uomo in particolare il merito di aver superato questo momento difficile. Quest’uomo è, però, circondato da un popolo di valore che vuole essere con lui e vuole resistere, almeno nel film. Vi è un qualcosa di hegeliano nella figura di Churchill tracciata da Joe Wright: sembra di trovarsi davanti ad un individuo cosmico-storico, capace di leggere meglio di ogni altro quello che sta avvenendo, grazie anche alla sua ostinatezza e alla poca arrendevolezza. Allo stesso tempo, il ritratto di Churchill che ne viene fuori è quello di un uomo che, per nelle sue fragilità e nei suoi fallimenti (più volte nel film viene ricordato il disastro di Gallipoli nel primo conflitto mondiale che aveva in parte compromesso la sua vita politica), riesce a condurre una Nazione in difficoltà.

 

Da un punto di vista prettamente cristiano nel film si può notare la totale assenza del divino: tutto sembra essere nelle mani dell’uomo, anche se il protagonista potrebbe essere lì per un destino di tipo provvidenziale. Churchill stesso non ha nessuna crisi di tipo religioso; nel racconto domina soltanto la crisi del suo io. Ma, allo stesso tempo, la figura di Churchill si staglia come colui che ha ben chiaro che sta combattendo contro il Male assoluto, seguendo un principio superiore che potrà costare lacrime e sangue, ma che porterà alla fine alla vittoria. Una profonda speranza in cui credere anche nelle ore più buie, ecco il messaggio che si può evincere dalla visione del film. Per questo e per il fascino di una trama storica ben scritta il film vale la pena di essere visto.

(Valerio Bernardi)

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=owOKnpsc_WI