Il concetto di plausibilità in apologetica

Plausibile / plausibilità
Il termine “plausibilità” rimanda a due universi di significati ben precisi, secondo la concisa presentazione che ne fa l’enciclopedia Treccani: il primo è un universo logico e argomentativo in cui plausibile è quasi sinonimo di razionale. Il secondo universo di significati, più fedele all’etimologia, rimanda al piano del processi sociali: plausibile è ciò che è degno di plauso, di essere apprezzato, approvato e ciò richiama alla mente uno scenario in cui il plauso viene fatto da qualcuno in carne e ossa nei confronti di qualcun altro o di altri. Nella plausibilità si esprime dunque una dinamica sociale e non una semplicemente logico–intellettiva.

Ecco le due definizioni della Treccani:
«plauṡìbile agg. [dal lat. plausibĭlis, der. di plaudĕre, part. pass. plausus]. – 1. letter. Degno di plauso, di approvazione, meritevole d’essere apprezzato. 2. Che è accettabile dal punto di vista logico, che appare ragionevole e convincente: ha dato una spiegazione p. delle sue azioni; spesso fa le cose senza una ragione p.; una teoria p., anche se non dimostrabile».

Il concetto di struttura di plausibilità è stato elaborato da Peter Berger e Thomas Luckmann in un famoso testo degli anni ’60, La realtà come costruzione sociale (Il Mulino, 1969, abbr. RCS) e da allora in poi ha continuato a emergere in continuazione in molti discorsi concernenti soprattutto, per quello che ci concerne qui, la riflessione teologica e apologetica[1].

Ed Shaw, per esempio, introduce il concetto di plausibilità nella riflessione relativa alla sessualità umana (L’etica sessuale nella Bibbia. Una questione di plausibilità, Edizioni GBU, 2019); egli presenta un’accezione di sessualità molto ampia che include non solo il suo disegno generale secondo una visione d’insieme della Bibbia – il sesso è per il matrimonio, e il matrimonio è l’unione permanente tra un uomo e una donna ­– ma anche le aree critiche (p.es. l’attrazione verso lo stesso sesso). Ecco le sue parole
«Abbiamo un problema di plausibilità: ciò che la Bibbia inse­gna chiaramente sembra irragionevole per molti di noi oggi. E quindi viene respinto (non irragionevolmente!) dappertut­to. … cosa possiamo fare? … dobbia­mo solo rendere nuovamente plausibile ciò che la Bibbia comanda chiaramente» (p. 21).

In questa accezione, e astraendo per il momento dallo scenario in cui Shaw la introduce, è evidente che il concetto di plausibilità viene richiamato e introdotto in un contesto apologetico: la plausibilità viene convocata per la difesa della fede cristiana e delle sue conseguenze etiche.

Apologetica
Se pensiamo all’apologetica non può sfuggirci un elemento problematico nell’incastro con il tema delle strutture di plausibilità. L’apologetica è un’impresa preminentemente logico–argomentativa.

«La parola greca apologia, dalla quale deriva il termine italiano apologetica, viene spesso tradotta “dare una riposta”, ma il suo significato è molto più intenso. Nel greco classico, era un termine legale e voleva dire difendersi da un’accusa, significato avvalorato da diversi esempi biblici» (Dictionary of Christian Apologetics, IVP, 2006)

Essa si inserisce nella più ampia impresa di condivisione del vangelo, l’evangelizzazione.

«L’apologetica cristiana non è altro che il compito di difendere e raccomandare la veridicità del vangelo di Gesù Cristo in una maniera che sia cristiana (christlike), sensibile al contesto e adatta al tipo di interlocutore (audience)».
«Nella maggior parte dei casi, i nostri sforzi apologetici non sono altro che un piccolo tratto nel viaggio lungo e tormentato di qualcuno, viaggio che si spera possa culminare in una relazione di questo qualcuno con Gesù Cristo». (J. Beilby)

Considerando la seconda definizione, che ci pare più pertinente anche al recupero del senso autentico dell’apologetica cristiana dei primi momenti della diffusione del cristianesimo (si veda A. Dulles e la sua Storia dell’apologetica), potremmo giungere a una conclusione del genere:

L’evangelizzazione senza l’apologetica presenta dei vuoti!
L’apologetica senza l’evangelizzazione è cieca e non raggiunge il suo obiettivo!

Non sfugge però il fatto che l’apologetica resta pur sempre un’impresa dal carattere logico, intellettivo, argomentativo, proposizionale. E l’impressione si rafforza se passiamo in rassegna tutte le forme assunte dall’pologetica cristiana negli ultimi cinquant’anni: evidenzialista, coerentista, probabilistica, presupposizionalista.

Strutture di plausibilità
Se al contrario andiamo a ripercorrere la genesi del concetto di plausibilità troviamo che l’orizzonte di riferimento (la solciologia della conoscemza) è completamente diverso: «La sociologia della conoscenza si deve occupare di tutto ciò che passa per “conoscenza” nella società» (RCS, p. 29, enfasi aggiunta). Deve occuparsi della costruzione sociale della realtà, in quanto concerne quello che la gente “conosce” come “realtà” nella vita quotidiana a livello pre–teoretico o non–teoretico. Questa “conoscenza” della gente comune costituisce il «tessuto di significati senza il quale nessuna società potrebbe esistere» (RCS, p. 30). Da questo sapere, da questa “conoscenza”, sono escluse le dimensioni teoretiche, filosofiche o anche mitologiche della realtà.
La tesi centrale di Berger è che mediante i tre momenti della esteriorizzazione, oggettivazione e interiorizzazione giungiamo al cospetto di una realtà oggettiva che si è alienata da chi l’ha generata ma che nel contempo mantiene nel soggetto una sua dimensione coscienziale: la realtà costruita è oggettiva e soggettiva.
Dopo questo primo momento Berger introduce il tema della legittimazione della realtà costruita socialmente e snocciola tutte le fasi di un tale processo mediante i canali della socializzazione – primaria, avanzata, etc. – (vocabolario; proverbi e massime; educazione; universo simbolico).
Gli universi simbolici sono ciò che viene oggettivato; si sedimentano e si accumulano. E naturalmente svolgono una funzione sociale, sono una sorta di cupola al di sotto della quale si svolge la vita degli individui. Gli universi simbolici sono poi teorizzati, in ragione di alcuni fenomeni storici, epocali, culturali quali: l’eresia; il confronto culturale; la presenza di universi simbolici alternativi.
A questo punto sorge la necessità di preservare tali universi simbolici (che, ricordiamo, sono apparati legittimanti della realtà socialmente costruita); la conservazione è anch’essa di ordine sociale e agisce a livello della realtà soggettiva, come è percepita e pensata la realtà dal soggetto.
È a questo punto che incontriamo il concetto di struttura di plausibilità (SP):

«La realtà soggettiva dipende da precise strutture di plausibilità, cioè dalla particolare base sociale e dai processi sociali richiesti per la sua preservazione» (RCS, p. 229).

Berger tenta di rilevare la consistenza delle SP andando ad analizzare i fenomeni di ristrutturazione, vale a dire allorquando un individuo muta la realtà soggettivamente intesa; l’esempio per eccellenza è la conversione religiosa (si sofferma su Saulo/Paolo) e in questo contesto individua la SP nella comunità cristiana:

«Fare l’esperienza di una conversione non è poi una gran cosa: il difficile è essere capaci di continuare a prenderla sul serio, di osservare il senso della sua plausibilità. È qui che interviene la comunità religiosa: essa fornisce l’indispensabile struttura di plausibilità per la nuova realtà» (RCS, p. 234).

La religione è pensata da Berger (si veda il testo successivo, La sacra volta, tr. it. Sugarco, 1984, abbr. SV) come uno di quegli universi simbolici che servono a conservare il mondo socialmente costruito (SV,  p. 54); il suo potere legittimante consiste nella capacità di trasformare un cosmos in un nomos trascendente (la realtà viene giustificata a partire da una realtà trascendente) e il nomos della religione è potente perché capace di integrare le situazioni marginali che mettono in discussione la realtà della vita quotidiana (malattie, disturbi emotivi, morte).
È dunque ancora nel contesto della conservazione e stabilità dei mondi (che non significa fissità in quanto sono prevedibili anche sommovimenti, riforme o rivoluzioni) questa vota legittimati dalla religione e dunque dei mondi religiosi, che Berger afferma:

«i mondi sono socialmente costruiti e socialmente conservati [e] la loro persistente realtà, sia oggettiva (come fattualità comunque accettata per data) che soggettiva (come fattualità che s’impone alla coscienza individuale) dipende da specifici processi sociali, cioè da quei processi che incessantemente ricostruiscono e mantengono i particolari mondi in questione … Pertanto ciascun mondo richiede una “base” sociale per continuare a esistere come mondo che sia reale per i reali esseri umani. Questa “base” può venire definita come la sua struttura di plausibilità» (SV, p. 58).

Come si vede da quste citazioni il contesto di origine del nostro concetto di stutture di plausibilità e dunque dello stesso concetto di plausibilità è chiaramente sociologico, una sociologia o una teoria sociale che cerca di spiegare la realtà come “costruzione”.
Siamo agli antipodi di una visione cristiana in quanto in essa la società e il vivere sociale contemplano almeno tre elementi di fondo:

  1. Dio ha creato (il giardino come prima comunità sociale, Gen 1)
  2. L’uomo ha rovinato (il peccato che ha come conseguenza la vergogna e il conflitto, Gen 3)
  3. Dio fa patti e ricostruisce una dimensione sociale in cui egli è presente (il popolo di Dio, Gen 12).

Emerge dunque il divario tra rivelazione e costruzione sociale della realtà. La rivelazione è tra i presupposti più profondi dell’apologetica cristiana. Se volessimo sintetizzare questo divario e il conseguente contrasto tra il concetto di plausibilità e l’apologetica, potremmo ricorrere a due figure, quella della roccia di chiara derivazione biblica (Dio e la sua parola, la sua rivelazione, sono una roccia) e la sacra volta, immagine usata da Berger per descrivere l’universo simbolico della religione che legittima la costrzione sociale della realtà.

Non mancano i tentativi di coniugare il concetto di struttura di plausibilità e apologetica trasmutando il primo e sottraendolo al suo universo culturale e sociologico; per esempio Joe Carter, in una comunicazione sul network TGC (18 luglio 2014), ritiene che le strutture di plausibilità siano una sorta di filtro per le convinzioni di fede: ogni cosa che crediamo è filtrata dalle nostre stutture di plausibilità (apparati di formazioni delle credenze che fungono da custodi che lasciano passare convinzioni che si combinano con ciò che già crediamo essere vero). In questo modo però le strutture di plausibilità non determinano la verità (non la difendono né l’argomentano) ma semmai mirano alla loro coerenza; assomigliano a visioni del mondo. Si tratta dunque di una intellettualizzazione delle strutture di plausibilità, rispetto a Berger.

Come dunque adoperare una concezione chiaramente di matrice sociologica in uno scenario proposizionale come l’apologetica?
L’unica strada è quella di lasciarsi sfidare dal concetto di plausibilità come è stato ideato da Berger, vale a dire accettando l’idea che una verità sia sostenuta in buona sostanza da una base sociale, da una comunità, per dirla tutta. Una verità è tale perché quella comunità la ritiene tale; al suo interno essa è giustificata e giustificabile (corrisponde alla visone del mondo di quella comunità). Naturalmente questo scenario presta il fianco alle obiezioni che provengono dal versante del pluralismo e del relativismo: un’altra comunità non ritiene plausibile e dunque accettabile la stessa verità!

Eppure la sfida, da un punto di vista biblico, non è assolutamente improponibile.

Se pensiamo alla forma ultima che la dimensione sociale della comunità di fede che fa riferimento al Dio d’Israele come si è manifestato in Gesù, vale a dire la comunità cristiana, scopriamo che essa è il contesto in cui le verità di rivelazione dovrebbero riverberarsi (la luce del mondo e il sale della terra, secondo il Sermone sul monte):

Si pensi all’insegnamento di Gesù sull’amore di Giovanni 13:35 Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri.

Si tratta, a tutti gli effetti, di una strategia apologetica vera e propria. La gente non deve chiedersi se sia possibile un mondo in cui gli uomini possano vivere senza conflitti e nel segno dell’amore ma devono semplicemente constatare la realtà, e di conseguenza la plausibilità, di un simile mondo nella comunità di fede. Il soggetto dell’apologetica diviene dunque plurale e sociale; il suo linguaggio non è più l’argomentazione ma l’azione pratica e la testimonianza di vita!

È possibile andare oltre alla constatatzione della plausibilità, andare oltre la sua base sociale, per aggirare l’alibi relativista? Nella teoria di Berger  c’è un racconto relativo alle origini della realtà socialmente costruita (sono le dimensioni marginali dell’esistenza) ma anche un discorso sulle origini degli universi simbolici.

Si direbbe che un passaggio eziologico sia inevitabile: posto che una verità sia socialmente accettabile, sia plausibile in virtù di una comunità sociale che l’incarna, il passo è quello di chiedersi quale sia l’origine della particolare verità che incarnata si dimostra plausibile. Per non dire nulla sull’origine della comunità stessa che incarna plausibilmente quella verità.

La risposta della visione biblica, anche di una che ha introiettato la lezione relativa alla plausibilità, è quella di riferirsi a un altro racconto delle origini; a questo punto, forse, ricominicia (giustificato) il ciclo dell’impegno apologetico tradizionale.

(Giacomo Carlo Di Gaetano)


[1] Riferimenti in A.E. McGrath: «I socio­logi della scienza ipotizzano che in ogni società umana vi sia quella che Peter Berger definisce «una struttura di plausibili­tà», vale a dire, una struttura di assunti e di pratiche, avvalo­rata dalle istituzioni e dalle loro azioni, che definisce quali cre­denze sono persuasive. Non la si deve confondere con il puro idealismo di una «visione del mondo». Quello a cui Berger si sta riferendo è un perimetro socialmente costruito che è me­diato e supportato dalle strutture sociali» (La Riforma protestante e le sue idee sovversive, p. 33). «È ormai am­piamente riconosciuto che la plausibilità, legittimità e coesio­ne interna dei sistemi di credenze sono create mediante stru­menti sociali e culturali» (Idem, p. 317).
E in D.A Carson, «Per quanto ne so, l’espressione «struttura di plausibilità» è stata coniata dal sociologo Peter L. Berger. Questi l’adotta per indicare modelli di pensiero ampiamente recepiti e accolti, quasi senza fare domande, all’interno di una particolare cultura. Uno dei corollari della sua argomentazione è che in culture più rigide e monolitiche (come quella giapponese), le strutture di plausibilità fondanti possono essere incredibilmente complesse – quello che intendo dire è che vi può essere una rete di posizioni vincolanti che costituiscono un sostrato di convinzioni, il quale raramente viene messo in discussione. Per contro, in una cultura fortemente eterogenea come quella che caratterizza molti paesi del mondo occidentale, le strutture di plausibilità sono necessariamente più limitate per la semplice ragione, un’ottima ragione a dire il vero, che esiste un numero minore di posizioni comuni. Le strutture di plausibilità che invece permangono tendono a essere ritenute con particolare forza, quasi che vi sia il riconoscimento che senza tali strutture la cultura correrebbe il rischio di sfaldarsi» (L’intolleranza della nuova tolleranza, p. 28)

Convegno Nazionale GBU 2019 (Foto)

Foto di Luca Montemarano e Luigi Tucci
Montesilvano 31 ott. – 3 nov.

I cristiani, la politica e la preghiera_E.H. Peterson

2. PREGARE QUANDO SIAMO INTIMIDITI
Salmo 2

 

Ci svegliamo ogni giorno in un mondo in cui il vanto degli uomini è assordante, un mondo violento e pieno di armi, arrogante con il denaro. Come possiamo evitare di essere intimiditi? Quale funzione può avere la preghiera di fronte ai governi, agli eserciti e ai ricchi sfondati? Nessuna, se Dio non è all’opera; al contrario può avere un’importanza decisiva se Dio invece lo è.

 

 

 

Discussione di gruppo
Date uno sguardo a una manciata di ritagli di giornali o a un settimanale. Quali sono gli eventi intorno a voi che vi angosciano maggiormente, e perché?

 

Riflessione personale
Quali cattive notizie avete ascoltato o letto nei giornali ultimamente? Pregate per alcuni di questi eventi che vi preoccupano molto.
Il Salmo 2, come il Salmo 1, è una pre–preghiera, un atto di orientamento che ci prepara a pregare. Questo Salmo ci prepara a pregare sia per l’ambito della politica sia in quello personale. Dio è all’opera nella sfera pubblica quanto in quella personale e le nostre preghiere sono necessarie nella prima quanto nelle vite dei singoli. Leggete il Salmo 2.

1. Quali sono i termini e i verbi chiave del Salmo che ci suggeriscono la sua portata politica?

2. Avvertite la responsabilità di pregare per la nazione, per la società e per la cultura che vi circonda come fate per voi stessi, per i vostri amici e per la chiesa? Spiegate questa risposta.

3. Paragonate il primo verso del Salmo 1 con l’ultimo del Salmo 2. Che cosa imparate da questi due beato?

4. In Salmo 1:2 troviamo meditare mentre in 2:1 troviamo tramare (ND) ma in ebraico si tratta della stessa parola. Qual è la differenza che il verbo ha nei due passaggi?

5. Come considera il Signore il potere orgoglioso delle nazioni (vv. 4–6)? Che analogia o che contrasto potete rilevare tra l’ottica di Dio e il vostro atteggiamento quando guardate le notizie del telegiornale? Spiegate la risposta.

6. «Il suo Unto» del verso 2 si dice in ebraico Messia, in greco Cristo. Che cosa, in questo Salmo, ci rimanda a Gesù?

7. Tradizionalmente i cristiani pregano questo Salmo a Pasqua. Quali sono gli elementi del Salmo che lo legano particolarmente a questa festività?

8. Il Salmo inizia e finisce con un riferimento ai re e ai prìncipi (vv. 2–3, 10–12). Qual è la loro relazione con il Re che viene posto sul trono dal Signore (v. 6)? Quale impatto ha tutto ciò sul nostro modo di pregare?

9. Indubbiamente è più facile pregare per i bisogni personali che per le situazioni politiche. Ma il Salmo 2 ha un sapore interamente politico. Avendo compreso ciò quali sono le responsabilità che abbiamo come cittadini di una particolare nazione che nello stesso tempo sono cittadini del regno di Cristo?

Pregate per almeno tre cariche pubbliche (un Presidente, un Primo ministro o addirittura per un dittatore) che ritenete hanno un particolare bisogno della guida di Dio.

Adesso o più tardi
Spendete del tempo per acquisire maggiori notizie per i governanti per i quali avete pregato, in modo tale che possiate essere maggiormente consapevoli di come continuare a pregare per loro.

 

E.H. Peterson

Leggi le ultime notice che concernono questo prolifico autore (Christianity Today)

Salmi, preghiere del cuore, Edizioni GBU, 2018 (leggi qui)

 

Usiamo bene la nostra vita?

di Fabio Russo

Pur lavorando da tempo nel Gruppo FIAT, ora Fiat Chrysler Automobiles (FCA), non conoscevo bene Sergio Marchionne. Certo, l’ho incontrato alcune volte in alcune occasioni, come le presentazioni dei piani industriali o le conferenze ai dipendenti.

Ritengo comunque giusto ricordare un manager come lui che, attraverso i risultati professionali che ha saputo ottenere, ha segnato un prima e un dopo non solo nella nostra azienda ma anche nel mondo dell’automobile.

Nato in Italia, cresciuto in Canada, affermatosi in Svizzera e divenuto personaggio in Italia, catapultato nel 2004 alla guida di un gruppo “tecnicamente fallito”, come lui stesso lo definì, guidato da un unico obiettivo – quello di creare valore per l’azienda -, ha saputo riportare FCA nelle mappe dell’automotive che conta, individuando – con straordinaria e “illuminata” bravura- opportunità d’alleanze invisibili agli altri, prima fra tutte la fusione con la Chrysler.

Ciò ha inevitabilmente comportato scelte impopolari o in grado, talora, di suscitare scandalo, se funzionali a un obiettivo di sviluppo, ribaltando senza timori reverenziali meccanismi sedimentati dalla consuetudine.

Un uomo duro e accentratore, implacabile con le sue prime linee e allo stesso tempo amato dai dipendenti (soprattutto negli USA) perché la sua visione e la sua instancabile determinazione di salvare e rafforzare l’azienda ha garantito loro un futuro.

A proposito della scomparsa di Marchionne, Beppe Severgnini ha scritto in un articolo sul Corriere della Sera qualche giorno fa: “Se la scomparsa di Sergio Marchionne ha colpito a fondo la sensibilità dell’Italia — nazione che di questi tempi ama mostrarsi insensibile, mentendo a se stessa — il motivo è un altro. Forse più semplice, più profondo e più difficile da confessare. Un uomo di successo, ricco e invidiato, se n’è andato di colpo, lasciandosi tutto alle spalle. Ori e stracci: la ricchezza, il successo, l’invidia e l’adulazione. Istintivamente, ci siamo posti una domanda: se tutto è così veloce e drastico, stiamo usando bene la nostra vita?

La morte è didattica, nella sua semplicità. C’è un prima e c’è un dopo. E nel prima, nel tempo che ci viene dato, ci affanniamo inutilmente. Mi è accaduto di sentire spesso, nei giorni scorsi, commenti come questo: «Ci affanniamo per fare, per accumulare, per primeggiare. E poi guarda là, scompare tutto in un attimo». Non è la versione social dell’Ecclesiaste, una ripetizione stanca della «vanità delle vanità». È la constatazione che il nostro tempo è limitato, e bisogna usarlo bene. «Siate come i giardinieri: investite le vostre energie in modo che qualsiasi cosa facciate duri una vita intera e anche di più», ha detto Sergio Marchionne due anni fa, parlando agli studenti dell’Università, a Roma.”

Avete mai pensato che le nostre vite raccontano una storia? In ogni situazione – buona, cattiva, o indifferente – le persone intorno a noi guardano e ascoltano la storia che stiamo raccontando.

La nostra storia viene comunicata non solo attraverso le nostre parole, ma anche attraverso i nostri atteggiamenti e le azioni, mentre abbiamo a che fare con i colpi duri e le benedizioni della vita.

Paolo ci ricorda che, come seguaci di Gesù, le nostre vite sono come una lettera “conosciuta e letta da tutti gli uomini; … una lettera di Cristo … scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente”  (2. Cor 3,2-3).

Che storia si può leggere nella lettera della nostra vita?

Se abbiamo sperimentato la gioia di una vita piena della grazia che viene dallo Spirito di Dio in noi, allora che la nostra vita racconti sempre la storia dell’amore e della misericordia di Cristo al mondo intorno a noi e che possiamo essere una testimonianza coraggiosa del Signore.

Fabio Russo ha fatto parte dei GBU di Torino ed è stato membro del Comitato editoriale delle Edizioni GBU; oggi e Corporate Affairs Senior Specialist presso FCA Group a Torino; è anche responsabile di una chiesa evangelica del capoluogo piemontese.

 

Gesù era un femminista? Riflessioni a margine del film Mary Magdalene (Lunedì Letterario)

Lunedì 2 Aprile 2018

 

Nel 1971 Leonard Swidler, teologo americano di origine svedese, scriveva un articolo diventato una delle pietre miliari della questione femminile nelle chiese. L’articolo era intitolato Jesus was a feminist? (Gesù era femminista?) e, al contrario di altre letture fatte fino a quel momento, l’A. partiva dal testo dei Vangeli per arrivare alla conclusione che il Messia si era comportato in maniera totalmente diverso rispetto al patriarcalismo dell’epoca nei confronti del genere femminile.

Il film che in questi giorni è in visione presso le sale italiane si inscrive in questo alveo interpretativo ed è dedicato alla figura di Maria Maddalena.

Mary Madgalene, produzione principalmente britannica, con attori americani di richiamo (tra gli altri Joaquim Phoenix nella parte di Gesù), non ha nulla a che fare con il filone che vede una delle figure femminili più importanti del Nuovo Testamento come l’eventuale moglie segreta di Gesù (Dan Brown docet!), ma piuttosto vuole essere un ritratto romanzato di una donna che è stata vicina al Messia e che lo ha seguito sino al momento finale, diventando l’annunciatrice della Resurrezione anche agli altri discepoli.

Chi si avvicinasse al film sperando di trovare rispetto filologico dei racconti dei Vangeli a noi tramandati deve dimenticarlo, perché, come succede spesso nella sceneggiatura di un film, soprattutto nel caso di una figura dei Vangeli menzionata ma non protagonista, molto è ricostruzione di fantasia. Resta comunque un rispetto dell’ambiente della Palestina del Secondo Tempio che non è di tutti i film. La figura di Maria, infatti, è vista come quella di una donna non convenzionale, nata e cresciuta nel villaggio di Magdala e pronta ad accettare un rapporto con il divino che non era proprio delle donne ebree dell’epoca. Il suo essere indemoniata è spiegato nella trama con la sua non convenzionalità. L’incontro con Gesù avviene sulle rive del Mar di Galilea e da quel momento Maria è attratta dal messaggio di questo Profeta.

La figura di Cristo non è, a nostro parere, descritta nella maniera migliore e, benché sia autore di atti coraggiosi (come il battesimo della stessa Maria), non è protagonista di grandi dialoghi e, almeno all’inizio (il racconto si riscatta in seguito, soprattutto nel momento della Resurrezione) la sua figura sembra più quella di un guru che quella del Cristo preannunciato dai Profeti dell’Antico Testamento.

Il racconto scorre con un po’ di fatica in quanto i dialoghi e le azioni (miracoli, discorsi di Gesù etc. etc.) non sono molto frequenti e spesso dominano i silenzi, assecondati dal bel paesaggio materano e del Sud Italia che fa da sfondo a buona parte del racconto.

La “ri-narrazione” degli avvenimenti evangelici, però, non è totalmente distorcente e, benché debba lavorare molto sull’immaginario non stravolge del tutto il significato del messaggio. Il film prevede una Maria che è anche lei tra gli inviati ad evangelizzare, in compagnia di Pietro e che è accolta con una certa circospezione dagli Apostoli, fatta eccezione per Giuda che, invece, sembra essere, almeno sino all’ultima settimana del Ministero di Gesù, il discepolo più attratto dalla sua predicazione. La discepola di Magdala sembra essere, nel corso della trama, quella che meglio comprende il messaggio del Messia e si distanzia dagli uomini che, invece, continuano ad intenderlo come un Salvatore guerriero e che può riscattare Israele da un punto di vista politico e sociale. Il suo rapporto con Gesù è quella di ammirazione e sequela e, solo a metà film, Maria, la madre di Gesù, fa trasparire l’idea di una donna che è innamorata di suo Figlio, anche se il rapporto è chiaramente di tipo spirituale, proprio perché la Maddalena è presentata come una figura quasi mistica alla perenne ricerca di un rapporto con il divino e con una percezione dello stesso che è superiore a quella degli uomini del suo tempo.

Cosa dire del film? Dal punto di vista cinematografico Mary Magdalene non è un capolavoro e si allinea a quei film piuttosto monotoni e lenti che fanno sembrare il messaggio biblico piuttosto noioso. A parte, infatti, la buona fotografia e scenografia, i dialoghi non appaiono molto interessanti e i silenzi sono sin troppo lunghi, quasi che si fosse in attesa di qualcosa che non giunge mai. Il film avrebbe avuto bisogno di una maggiore azione e di una maggiore vivacità nelle scene, cosa possibile in un racconto che descrive le vicende del Messia. La sceneggiatura è, a nostro parere, carente nella parte dialogata che sarebbe dovuta essere maggiormente rinforzata.

Dal punto di vista teologico il lavoro fatto è abbastanza buono e serve, anche per i credenti, a sottolineare il ruolo fondamentale che le donne hanno avuto nella predicazione di Cristo. Giustamente i titoli di coda ricordano come la figura di Maria Maddalena sia stata misconosciuta dalla stessa Chiesa Cattolica che, per secoli, l’ha descritta come una prostituta, non avendone alcuna prova ed a causa di una erronea lettura di Gregorio Magno.

Il film ha chiaramente un’agenda programmatica: quella di dimostrare come Maria Maddalena abbia avuto un ruolo fondamentale nella nascita del cristianesimo e come possa essere annoverata tra gli apostoli, avendo avuto una sensibilità superiore rispetto anche a quella dei Dodici.

E’ un tentativo di dare spazio al mondo femminile nel cristianesimo senza per questo essere invadente o pensare, come talvolta è accaduto, che la Chiesa ha occultato la presenza delle donne, sin dall’inizio. Il valore del film, quindi, è soprattutto legato a questo aspetto che non va sottovalutato e che può portare anche noi ad una riflessione su come Gesù abbia sopravanzato la sua stessa cultura per quanto concerne l’attenzione alle donne. Ancora oggi una parte della Chiesa non comprende questa importanza ed è importante aprirsi ad una lettura che non riguarda soltanto la contemporaneità ed il diverso ruolo assunto dalle donne nella società occidentale, ma anche la storia interpretativa del testo biblico, letto con sin troppo pregiudizio filo-maschile. Il film può servire a tutti per una riflessione su questo argomento.

 

(Valerio Bernardi – DiRS GBU)

 

Altre risorse su Maria Maddalena

Conferenza di Giancarlo Rinaldi: Maria e Maria Maddalena (file Audio)

Ben Witherington, Maria Maddalena e il neognosticismo (PDF)

Leggi tutto il libro,

Il codice del vangelo,

Edizioni GBU, 2006,

ordinalo presso Edizioni GBU

Il cappellano presidenziale

Il neo–evangelismo: nuove interazioni con la cultura dominante

(A. McGrath)
(tratto da La Riforma protestante e le sue idee sovversive, Edizioni GBU, 2017, pp. 538-541))

Le battaglie della Seconda Guerra mondiale distolsero il protestantesimo americano dalle sue faide interne e le collocò in un contesto non del tutto inutile. Finita la guerra incominciarono a emergere nuove voci all’interno del protestantesimo conservatore che premevano per un sostanziale cambio di rotta. L’emergere dell’evangelismo (evangelicalism) quale distintiva posizione protestante risale al 1942 e alla costituzione della National Association of Evangelicals, con il suo sforzo programmatico di distinguere l’evangelismo (evangelicalism) dal fondamentalismo (9). In contrasto con la dogmatica insistenza fondamentalista sulla separazione dalla cultura moderna, i “neo–evangelici”, guidati da E.J. Carnell, Harold Ockenga, Carl Henry e Billy Graham promuovevano una positiva interazione con la cultura, nel tentativo di trasformarla con il vangelo.

Billy Graham è probabilmente l’esponente meglio conosciuto di questo nuovo movimento a causa del suo ministero evangelistico mondiale, iniziato alla fine degli anni ‘40 del XX secolo. Graham giunse a considerare il tradizionale fondamentalismo “d’opposizione” una barriera alla predicazione del vangelo. Nel 1956 la popolare rivista fondamentalista Christian Life pubblicò un articolo dal titolo “Is Evangelical Theology Changing?”, in cui si sosteneva che la vecchia guardia fondamentalista si atteneva alla massima «combattere strenuamente per la fede» mentre la nuova generazione preferiva: «devi nascere di nuovo». Ne nacque un’accesa controversia.

Tre mesi dopo la stessa rivista pubblicò un’intervista a Billy Graham in cui questi dichiarava di essere «nauseato e stufo» di simili polemiche e di voler soltanto continuare a predicare il vangelo. Per Graham il fondamentalismo portava a interminabili e sterili conflitti teologici, in un’epoca in cui c’era un importante lavoro evangelistico che doveva essere fatto. Il crescente distacco di Graham dal fondamentalismo si manifestò pubblicamente quando nel 1955 accettò l’invito a tenere una “crociata” (crusade) a New York. L’invito giunse da una coalizione di chiese cristiane, molte delle quali non erano sotto nessun aspetto fondamentaliste. Nel momento in cui, nella primavera del 1957, la crociata avviava una massiccia campagna pubblicitaria, era evidente che il fondamentalismo era consegnato al passato (10). Quantunque Graham fosse indiscutibilmente un protestante conservatore, questo non faceva di lui un fondamentalista.

Carl Henry (1913–2003) esemplifica particolarmente bene il carattere del nuovo movimento, specie nella sua generale attitudine alla cultura. Nel suo Uneasy Conscience of Modern Fundamentalism (1947), il «manifesto del neo–evangelismo» (Dirk Jellema), Henry sosteneva che il fondamentalismo presentava e proclamava un vangelo impoverito e ridotto, che era radicalmente carente nella sua visione sociale. Il fondamentalismo, a suo avviso, era troppo extramondano e anti–intellettuale per essere ascoltato da un pubblico istruito. Non mostrava alcun interesse a un esame del rapporto fra cristianesimo, cultura e vita sociale.

Entrava però a questo punto in gioco il monito di Jean Monnet: senza istituzioni, nulla sopravvive. Al nuovo movimento servivano istituzioni, in questo caso, un seminario e una rivista, per consolidare la propria influenza. La fondazione, nel 1947, del Fuller Theological Seminary, che sposò rapidamente (e non senza polemiche) la linea del “nuovo” evangelismo piuttosto che quella del fondamentalismo, ne assicurò la sopravvivenza istituzionale (11). L’esperienza di Henry come giornalista sfociò nell’invito, da parte di Billy Graham e L. Nelson Bell, a curare un nuovo giornale che si veniva allora lanciando. Da editore capo di Christianity Today dal 1956 fino al 1968, Henry contribuì molto a definire il profilo, gli obiettivi e la credibilità del “neo–evangelismo”.

Il successo e i possibili svantaggi delle forme d’interazione culturale promosse dall’evangelismo si possono osservare nel ministero di Billy Graham (12). È vero che i rapporti di Graham con il presidente Harry Truman sono stati estemporanei e incerti; tuttavia riuscì a costruire una buona collaborazione con il presidente Dwight «Ike» Eisenhower. Mentre i suoi rapporti con John F. Kennedy furono ambivalenti, consolidò il suo emergente ruolo di pastore e consigliere spirituale non ufficiale della Casa Bianca con Lyndon B. Johnson e Richard Nixon, un ruolo che avrebbe mantenuto fino alla fine dell’amministrazione Clinton. Graham godette quindi di una relazione privilegiata con nove presidenti nell’arco di un periodo di quasi cinquant’anni, divenendo sostanzialmente una sorta di cappellano presidenziale.

Quest’elevato livello di gradimento politico, tuttavia, non fu privo di costi. Graham non si sentiva di poter criticare apertamente coloro che serviva in questo modo; il risultato fu
che non riuscì a espletare quel ministero profetico che, secondo molti, era l’unico a essere nella posizione di poter esercitare. Prestò sostegno allo sforzo bellico in Vietnam sotto Johnson e fu incredibilmente reticente sulle cadute morali di diverse presidenze, a cominciare dallo scandalo del Watergate che affossò Nixon e gli intrighi sessuali della presidenza Clinton. Per i suoi critici il crescente gradimento sociale dell’evangelismo era l’altra faccia della medaglia della crescente accettazione, da parte dell’evangelismo, degli standard culturali convenzionali: mediante una tale accettazione aveva perso il suo mordente morale (13).

Un chiaro ambito di divergenza tra fondamentalismo ed evangelismo aveva a che fare con l’azione sociale. L’impatto dei primi risvegli aveva portato a un nuovo interesse per
un impegno nel sociale. A metà del XIX secolo era ormai diventato scontato che quanti avevano fatto esperienza di qualche risveglio spirituale dovessero prendere attivamente parte ai vari tentativi di aiutare i meno fortunati nella società. Negli anni ‘20 e ‘30 del XX secolo, però, il fondamentalismo si chiuse a qualsiasi tentativo d’impegno sociale. Per ragioni che non sono del tutto convincenti e poggiano più su immaginari collegamenti che su convergenze dimostrabili, molti influenti fondamentalisti videro negli sforzi di aiutare i poveri l’indizio di un cedimento alla teologia liberale. Dopotutto non erano stati i teologi liberali a promuovere, durante la controversia modernista degli anni ‘20 del XX secolo, il «vangelo sociale»?14 Fino a tempi recenti i fondamentalisti hanno avuto la tendenza a pensare a un’azione sociale cristiana puramente limitata alle battaglie per la libertà religiosa e contro l’aborto. Per gli evangelici (evangelicals), invece, il vangelo invita chiaramente i cristiani a battersi anche contro il razzismo, il sessismo e la povertà.
Altri cambiamenti e riallineamenti in atto più o meno in questo periodo stavano ulteriormente alterando la natura del protestantesimo. Ancora una volta al centro di questi cambiamenti c’era il modo di relazionarsi del protestantesimo con la cultura.

 

NOTE

9. G.M. Marsden, Understanding Fundamentalism and Evangelicalism, Eerdmans, Grand Rapids, 1991.

10. Per considerazioni in proposito vedi J. Carpenter, Revive Us Again: The Reawakenings of American Fundamentalism, Oxford University Press, New York, 1997.

11. Vedi Marsden, Reforming Fundamentalism, op. cit., pp. 69–244.

12. Su questo punto vedi W.C. Martin, A Prophet with Honor: The Bill Graham Story, Quill, New York, 1991.

13. L’ambivalenza politica del ministero di Graham spicca probabilmente e maggiormente nel suo modo di porsi nei confronti delle campagne per i diritti civili di Martin Luther King Jr.; vedi l’importante analisi contenuta in M.G. Long, Billy Graham and the Beloved Community: America’s Evangelist and the Dream of Martin Luther King Jr., Palgrave Macmillan, New York, 2006.

(A. McGrath, tratto da La Riforma protestante e le sue idee sovversive, Edizioni GBU, 2017, pp. 538-541)

Tre domande a Elena Ammirabile sull’impegno in politica

  1.   Elena potresti spiegarci brevemente qual è il tuo grado di coinvolgimento nella vita politica? Come sei giunta concepire la tua partecipazione a un’esperienza politica locale in qualità di cristiana evangelica?

A partire da maggio 2014, elezioni per cui mi ero candidata come consigliera comunale, grazie al buon numero di preferenze e credo anche all’impegno profuso per tutto il gruppo, mi è stato chiesto di ricoprire la carica di Assesore presso il Comune in cui abito.

L’avvicinamento alla politica attiva è arrivato nel 2013, appena laureata avevo tempo e voglia di capire cosa volesse dire partecipare alla vita politica locale, appena mi si presentò la possibilità di entrare nell’assemblea comunale del partito di cui avevo preso la tessera non mi sono tirata indietro e tutto è iniziato. Non sapendo cosa mi aspettasse non mi sono chiesta come sarebbe stato conciliare la mia fede con questo lavoro, è un percorso, come per tutti credo, quotidiano di confronto con i problemi e con i colleghi.

 

  1. Ritieni che anche l’impegno politico a livello locale debba in qualche modo farsi espressione di visioni politiche più ampie e non essere unicamente una risposta a esigenze di tipo amministrativo–burocratiche?

Della politica locale spesso si pensa che sia un mero “risolvere i problemi delle persone”, quelli di tutti i giorni, e che quindi non implichi scelte politiche. Non è così, affinché la scelta amministrativa sia efficacie e coerente è necessario avere un progetto e un metodo. Nel mio ruolo mi trovo a gestire le risorse della comunità e quindi devo valutare ogni giorno se ciò quello che sto facendo porta un progresso o meno per la comunità e se sto creando delle disparità di trattamento.

Essere cristiani cambia completamente la prospettiva dell’impegno politico perché il nostro obiettivo non sarà la fama o il potere e neanche solo il servizio ai cittadini, ma in tutto essere imitatori di Cristo, questa consapevolezza libera dal peso di dover emergere, dalla necessità di ricercare il consenso a tutti i costi, e questo rende anche più obiettivi rispetto alle singole questioni.

 

  1. Quale idea ti sei fatta relativamente al secolare tema del coinvolgimento dei cristiani nella vita politica, anche in considerazione dell’imminenza delle elezioni politiche italiane?

Se la Politica è vissuta come servizio, idea cara al mondo anglosassone, e a ricondurre l’interesse del singolo all’interesse generale allora non vedo chi meglio dei credenti potrebbe rispondere al bisogno di persone oneste, integre, senza doppi fini ed abituate alla vita di comunità,  in posizioni di responsabilità. Nella Bibbia troviamo molti esempi di uomini e donne in posizione chiave, non ultimo Daniele, come lui dobbiamo essere consapevoli che ci potremmo trovare un giorno ad andare contro tutti ma Dio ci darà la forza per essere di testimonianza anche in quel momento nel frattempo bisogna darsi da fare. Tornando alla mia esperienza, quando ho iniziato ad impegnarmi non immaginavo che l’esito sarebbe stato questo, ho lavorato senza risparmiarmi per il gruppo cercando di essere sempre positiva, non dando spazio alla maldicenza, un passo alla volta il Signore mi ha spianato la strada.

Lavorare per la comunità è anche una splendida occasione per conoscerne le necessità e poter aiutare la chiesa a individuare gli ambiti dove può intervenire, affinché si rompa quella diffidenza, spesso dovuta all’ignoranza, che circonda le nostre chiese, non adagiarci nell’attesa che le persone entrino in chiesa ma andare nei loro luoghi, come ci insegna Gesù.

 

  3b. Sempre da un punto di vista cristiano, cosa pensi del dibattito sul populismo?

Da un punto di vista cristiano io vorrei che ci fosse un dibattito sul populismo perché implicherebbe un nostro interesse per la sfera pubblica non solo quando vengono toccati temi etici. Molto è stato detto e scritto, quello che vedo quotidianamente è l’indisponibilità ad uscire da un punto di vista strettamente personale ed egoistico perché richiede impegno o fiducia, che la politica italiana ha dilapidato da tempo. Chi non ha la chiamata ad un impegno attivo dovrebbe almeno sforzarsi a non cedere al senso comune ed ad andare in profondità nelle questioni politiche perché, volenti o nolenti, ci riguardano.

E’ da poco passata la Giornata della Memoria, le testimonianze dirette di deportate che ho avuto modo di sentire mi hanno fatto pensare a Isaia 1:16-18, è Dio che parla ad Israele  “cercate la giustizia, rialzate l’oppresso, fate giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!”, quando la rabbia e l’odio hanno al loro servizio la legge e lo Stato, la giustizia soccombe e i primi a farne le spese  sono gli ultimi che la Bibbia individua nell’orfano, nella vedova e nello straniero. Se queste parole ci interpellano ancora oggi dovremmo valutare con attenzione i programmi elettorali, le parole degli esponenti politici e anche, se ci sarà, l’occasione di un impegno diretto per non essere correi perché indifferenti come è successo durante le dittature nazifasciste.

 

Elena Ammirabile, 32 anni, laureata in Relazioni Internazionali. Studentessa del Gbu un tempo e attiva sostenitrice di questo ministero è Assessore presso il Comune di Montespertoli (FI).

Tre domande a Filippo Falcone su poesia e rivelazione

1. Che rapporto c’è fra poesia e rivelazione e qual è secondo te la funzione della poesia all’interno della rivelazione?

Volendo circoscrivere la forma poetica alla forma poetica letteraria nel contesto della rivelazione particolare, che i cristiani identificano nelle Scritture ebraiche e cristiane, colpisce in prima istanza la presenza stessa di poesia nel testo. Le Scritture non si limitano all’espressione referenziale di contenuti teologici o filosofici. In altre parole, gli scritti biblici non sono unicamente un insieme di enunciati di fede o proposizioni e discettazioni di natura argomentativa su Dio. La Bibbia si presenta, anzi tutto, come fine narrazione, una narrazione ricca di rapporti intertestuali che declina la teologia ― la conoscenza di Dio ― in modo spesso implicito nella Storia e nelle vicende autentiche dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con Dio (vd. Alter, The art of biblical narrative, 12-13). La sua natura letteraria viene da subito messa in evidenza. La narrazione biblica possiede qualità letteraria in ragione della sua forma, ma possiede altresì qualità letteraria perché rivela Dio nel contesto di un’esperienza umana che, pur nella sua specificità, mantiene un carattere universale. Scorrendo i testi narrativi, facciamo quindi una scoperta sorprendente. Già al loro interno troviamo incastonate gemme e pietre preziose, brevi intermezzi poetici. Questi si trasformano in estesi brani poetici nei profeti per prendere poi tutta la scena nel libro dei Salmi. L’insegnamento di Gesù e, in parte quello degli apostoli, è per immagini e possiede a sua volta qualità poetica. Se crediamo che le Scritture siano più che deposito dell’esperienza dell’uomo con Dio; se crediamo cioè che le Scritture siano rivelazione che scende dal cielo, parola che procede dalla bocca di Dio (cf. 2 Ti 3:16) e che si “incarna” nel tessuto umano, dobbiamo chiederci quale sia al suo interno la funzione delle varie forme letterarie di cui si compone. In altri termini, dovremmo domandarci a quale esigenza risponda l’inclusione dell’elemento letterario e, in particolare, di quello poetico nel testo biblico. La risposta credo venga dal testo stesso. La Bibbia sin dall’inizio ci rivela Dio come potenza creatrice, ma anche come immaginazione creativa, e ci rivela l’uomo come essere creato a sua immagine. L’uomo ne riflette cioè il carattere razionale ed emotivo, relazionale e creativo. Sarà quindi Dio ad assumere dell’uomo il carattere materiale nell’incarnazione. Rivelazione in Dio sottende volontà, desiderio di farsi conoscere all’uomo. Dio sceglie il linguaggio per farsi conoscere. Parlare all’uomo in termini puramente razionali e referenziali significherebbe fare appello alla sola mente dell’uomo, mentre Dio desidera che l’uomo lo conosca in senso relazionale. Egli prepara perciò nella Scrittura un terreno di incontro fra sé e l’uomo e lo fa rivolgendosi a tutto ciò che l’uomo è, alla componente razionale come a quella emotiva, alla componente immaginativa e creativa come ai sensi. Ciò avviene attraverso una cascata di forme letterarie al cui interno la forma poetica gioca un ruolo di primaria importanza. È proprio la poesia biblica, infatti, a realizzare quella che potremmo chiamare associazione di sensibilità. La poesia biblica nei modi più vari ci fa sentire ciò che vuole farci capire attraverso immagini tratte dall’esperienza umana comune e sensibile. La poesia biblica fa anche altro. Attraverso l’ordine delle parole e, in particolare, attraverso parallelismi, ripetizioni e inversioni, crea effetti di accumulo e intensificazione che contribuiscono ad accrescere il portato dinamico dei significati. La musica del testo poetico, l’elemento estetico e l’immagine sensibile, infine, parlano ai sensi dell’uomo (cf. Alter, The art of biblical poetry).

 

2. Potresti fare qualche esempio delle funzioni poetiche che hai descritto?

– Le lettere del Nuovo Testamento tendono a descrivere il rapporto di Dio con l’uomo in termini teologici, affermando, ad esempio, il carattere immutabile e incondizionato della grazia di Dio e della sua sovranità che si traducono, in relazione ai suoi figli, in salvezza, giustizia, fede, amore, speranza, protezione, cura, guida, gioia e pace. Tutto ciò si trasferisce nel salmista Davide in immagine poetica e in questo passaggio la forma ridefinisce il contenuto:

Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.
2 Egli mi fa riposare in verdeggianti pascoli,
mi guida lungo le acque calme.
3 Egli mi ristora l’anima,
mi conduce per sentieri di giustizia,
per amore del suo nome.
4 Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte,
io non temerei alcun male,
perché tu sei con me;
il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.
5 Per me tu imbandisci la tavola,
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo;
la mia coppa trabocca.
6 Certo, beni e bontà m’accompagneranno
tutti i giorni della mia vita;
e io abiterò nella casa del SIGNORE
per lunghi giorni. (Salmo 23)

Ciò che le lettere spiegano chiedendo al lettore capacità di astrazione è qui illustrato da immagini di vita quotidiana che hanno una risonanza particolare nel contesto di una società agreste, ma che risultano efficaci ancora oggi. La grazia, la guida e la provvidenza che informano il rapporto fra l’uomo e Dio diventano il rapporto che intercorre fra la pecora e il suo pastore. Questi provvede a ogni suo bisogno e la conduce in luoghi ameni e lungo sentieri di giustizia, paesaggi dell’anima e immagini di una vita caratterizzata da pace e amore. A questa realtà, Davide subito contrappone la valle dell’ombra e della morte. Chi appartiene al Signore non è esente da prove, difficoltà, afflizioni, pericoli; ma in tutte queste cose Dio è con lui come il pastore attraverso la valle oscura con il suo gregge. Il Salmo si chiude con uno sguardo di gioia proteso all’eternità, speranza certa del salmista.

– Là dove il Nuovo Testamento parla dell’efficacia eterna dell’espiazione (Ebrei 10:14), una realtà spirituale, Davide dipinge davanti ai nostri occhi una distanza fisica:

Come è lontano l’oriente dall’occidente,
così ha egli allontanato da noi le nostre colpe. (Salmo 103:12)

– Infine, due esempi di parallelismo:

3 Poiché la tua bontà vale più della vita,
le mie labbra ti loderanno.
4 Così ti benedirò finché io viva,
e alzerò le mani invocando il tuo nome.
5 L’anima mia sarà saziata come di midollo e di grasso,
e la mia bocca ti loderà con labbra gioiose. (Salmo 63:3-5)

Il Salmo si apre con le parole “l’anima mia è assetata di te” (v. 1). La brama e il bisogno che il salmista ha di Dio sono come la brama e il bisogno di acqua dell’uomo che percorre una terra arida. Questa terra è correlativo oggettivo dell’anima inaridita del poeta. A quest’immagine fa eco un’altra potente immagine fisica all’inizio del versetto 5: “L’anima mia sarà saziata come di midollo e di grasso”. L’anima assetata si dichiara ora affamata e la comunione di Dio diventa cibo che sostenta e soddisfa. Un parallelismo lega poi i secondi versi dei versetti 3 e 5, dove “le mie labbra ti loderanno” è ripreso da “la mia bocca ti loderà…” e la lode ridefinita come frutto della gioia da “…con labbra gioiose”.

Purificami con issopo, e sarò puro;
lavami, e sarò più bianco della neve. (Salmo 51:7)

Osserviamo qui la disposizione parallela di elementi analoghi nel primo e nel secondo verso, dove “purificami” diventa “lavami” e “sarò puro” diventa “sarò più bianco della neve”. Qui il parallelismo non ha una mera funzione enfatica dettata da ripetizione, ma ha funzione di intensificazione. Il poeta vuole indicare che là dove il peccato è abbondato nella sua vita, la grazia sovrabbonderà (vd. Ro 5:20) e il salmista potrà tornare a gustare la gioia della sua salvezza.

 

3. La poesia può avere una funzione sacramentale?

Occorre capire in prima battuta cosa si intenda per sacramento. La questione sacramentale ruota attorno alla possibilità o meno di esperire l’immanenza di Dio nella realtà sensibile. In termini biblici, il sacramento è tale non perché è la realtà stessa, ma perché della realtà è segno. Il segno, il significante, non contiene il trascendente, ma lo addita e in questo senso vi partecipa in termini di significato (cf. Schwartz, Sacramental poetics, 6). Se parliamo di poesia biblica, essa, come d’altronde tutta la Scrittura, ha certamente una funzione sacramentale. Cristo, la Parola, si identifica con la sua parola, che è segno di Cristo. In un senso molto reale, avvicinarsi al testo biblico è avvicinarsi a Cristo. La Bibbia, parola di Dio, frammento di cielo sulla terra, realizza per l’uomo l’immanenza di Dio nel momento in cui diventa terreno di incontro fra l’uomo e Cristo, la Parola. La poesia biblica, dal canto suo, svolge una funzione essenziale in questo senso. Con i suoi suoni, i suoi rapporti di significante e significato e le sue immagini sensibili essa ci fa sentire, per così dire, Dio e ce lo fa conoscere al di là dei nostri processi meta-cognitivi.
Rimane da interrogarsi sulla funzione della poesia sacra non contenuta nelle Scritture. Quello che vale per la poesia biblica vale anche per la poesia sacra in genere? Sì, ma in termini di riflesso. Così come la predicazione scritturale informata dalla guida dello Spirito riflette il carattere di parola della Parola proprio della predicazione apostolica, la poesia sacra, laddove tessuto della parola e dello Spirito, può anch’essa diventare veicolo della realtà di Dio.

 

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU.

 

Che cosa celebriamo quando celebriamo la Riforma?

L’autore della Lettera agli Ebrei invitava i lettori a ricordare i loro conduttori in quanto questi, «vi hanno annunciato la parola di Dio; e considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede» (Eb 13:7). Sebbene nella Bibbia abbondino gli inviti a considerare il passato, a custodire la memoria (dagli appelli popolo d’Israele, all’istituzione della Cena del Signore), mi pare che questo ammonimento sia molto vicino alle nostre sensibilità (non c’è il rischio dell’orgoglio etnico né quello di decidere quale sia lo status della Cena).

Il brano chiede allora tre cose:

  • Ricordare;
  • Considerare la fine dei conduttori;
  • Imitarne la fede

 

 

Appare evidente che due dei tre elementi hanno un sapore chiaramente “storico” mentre il terzo si presta a considerazioni di altro ordine (spirituale?).

Pensando ai due elementi storici, la riflessione da fare nella ricorrenza della Riforma è se questa sia stata presa e considerata come un evento realmente storico (non ci sarà un’altra porta di una cattedrale di Wittenberg con un elenco di tesi affisse); il rischio infatti è che si possa alludere a essa come a una sorta di età dell’oro considerata sub specie aeternitatis.

Giorgio Spini metteva in guardia sulla retta considerazione dei fenomeni storici:

«non si è storici se non si ha coscienza chiara che il passato è il passato e non l’avvenire, e che se si smarrisce questa coscienza si possono fare cento altri mestieri belli o brutti, da quello ammirabile dell’apostolo a quello assai meno ammirabile del padre inquisitore, ma non si farà giammai il mestiere dello storico» (Storia dell’età moderna, p. 22)

In sostanza facciamo giustizia alla Riforma allorquando la presentiamo in tutta la sua crudezza storica, senza nascondere niente: pluralità e dunque lotte intestine; conflitti teologici (dai sacramenti alla predestinazione) fino alle rivendicazioni contadine, etc..

 

Tenendo conto di questi due rilievi apostolici dal sapore storico viene da pensare all’enfatizzazione, ricorrente nei dibattiti e nelle conferenze, delle conseguenze positive della Riforma, conseguenze da registrare sul piano sociale, culturale, etc.. Benissimo! Personalmente penso che il piano su cui la Riforma abbia inciso più degli altri sia quello educativo. Si tratta, se vogliamo, di una lettura apologetica della Riforma. Una lettura che sembra sorgere da un bisogno quasi ossessivo di giustificare la Riforma oppure di renderla appetibile per via delle conseguenze. Ma dobbiamo ammettere che su questa strada, con operazioni di storia del pensiero abbastanza complesse, corriamo il rischio di imbatterci in operazioni di segno contrario, altrettanto valide, nelle quali ci vengono ricordate alcune conseguenze negative della Riforma.

In questa lettura apologetica non si corre dunque il rischio di mettere in ombra le riscoperte teologiche dei Riformatori dal momento che queste vengono inserite nel frullatore delle rivendicazioni o delle contestazioni confessionali?

 

Restando sul piano dei due elementi dell’ammonimento apostolico va segnalato anche lo strano fenomeno della Riforma ricordata e rappresentata al cospetto di interlocutori cattolici, quando non anche di appartenenti a Chiese protestanti storiche. Che significato ha questa operazione?

A parte il pio ma discutibile pensiero di usare questa ricorrenza per evangelizzare … essa pare manifestare l’attesa che la Chiesa di Roma si decida ad accogliere la Riforma. Ma qui si erge un grosso problema: prima di tutto, a che cosa richiamiamo i nostri interlocutori cattolici? Essendo e definendoci evangelici ciò a cui dovremmo richiamarli, sia loro sia noi stessi, sarebbe il vangelo e non una stagione della storia del cristianesimo. In secondo luogo viene da interrogarsi sulle modalità di lettura della Riforma che adoperiamo. Nella sua recente biografia su Lutero, Adriano Prosperi ha focalizzato l’attenzione sugli anni di fuoco dell’esperienza del Riformatore, quelli che vanno dal 1517 al 1520, gli anni della fede e della libertà, come li ha definiti (Mondadori, 2017); alla fine di questo periodo c’è la scomunica e la rottura, e dunque la necessità concreta di pensare a come interagire con una parte del corpo cristiano che rifiutava l’appello a riformarsi. Ma in tutti i modi, come hanno ricordato in molti, Lutero in quegli anni ambiva a riformare quella che riteneva essere la sua chiesa!

Cercando di cogliere la lezione da questa focalizzazione sembra che il primo impulso della Riforma si rivolgesse verso il contesto all’interno del quale era inserita l’esperienza di fede di chi lo aveva sperimentato. Se prendessimo in carico totalmente la movenza degli anni della fede e della libertà di Lutero, avremmo che ognuno di noi dovrebbe pensare alla Riforma avendo nella testa e sullo sfondo la condizione della propria chiesa di appartenenza, quale che sia. Di fatto tutto l’evangelismo dovrebbe avere questa coscienza. Se poi dovessimo pensare a cosa, della Riforma, dovremmo auspicare per le nostre chiese e per tutto l’evangelismo può essere utile considerare la sintetica presentazione di Paolo Ricca: in una conferenza tenuta a un convegno a Torino nel 2008 (La Riforma come fenomeno europeo, Claudiana, 2011) ha sostenuto infatti che l’aspirazione di Lutero era quella di riporre la sua chiesa (nel senso di chiesa a cui apparteneva) sul fondamento che le era proprio, quello di Gesù Cristo, attestato nella Scrittura e per mezzo del quale era imputata al peccatore la giustizia. Desideriamo una chiesa e delle chiese poste sull’unico fondamento che è Gesù Cristo? Il confessionalismo e gli esperimenti confessionali successivi alla Riforma ci hanno insegnato, come ha ben spiegato Alister McGrath nel suo La Riforma e le sue idee sovversive (Edizioni GBU 2017), la necessità che ogni cristiano definisse la sua identità sulla base di una confessione di fede, di un documento che lo collocasse in uno dei partiti usciti dalle epoche delle ortodossie che hanno la Riforma solo a uno dei suoi estremi!

Facciamo dunque un errore di prospettiva quando pensiamo alla Riforma avendo ancora sullo sfondo la condizione della Chiesa di Roma, e non le nostre proprie chiese.

Alcuni teologi evangelici del nordamerica, forse pensando a cosa la Riforma possa dire a tutto l’evangelismo, in questa correzione della prospettiva, hanno posto l’attenzione sul tema della cattolicità di tutto ciò che è venuto fuori dalla Riforma (A Reforming Catholic Confession). È vero, i protestanti e gli evangelici sono più cattolici dei cattolici “romani”. E tuttavia, l’operazione di porre la Riforma avendo sullo sfondo la propria condizione e non quella altrui li ha portati a fare un’amara considerazione:

«Dobbiamo riconoscere che i Protestanti non hanno gestito le differenze dottrinali e di interpretazione in uno spirito di carità e di umiltà, ma nel fare una comune confessione sfidiamo l’idea che ogni differenza o distinzione denominazionale porti necessariamente alla divisione» (Explanation, n. 10; https://reformingcatholicconfession.com/)

Quando poniamo mente a tutto ciò abbiamo ancora voglia di andare a celebrare la Riforma al cospetto dei nostri amici cattolici, avendo forse il retropensiero che è la Chiesa di Roma a doversi riformare? Sicuramente la testimonianza di Lutero, e per suo mezzo il richiamo del vangelo, restano per Roma ancora oggi un appello con cui essi devono confrontarsi; grazie a Dio non più a suon di spade! Ma nel segno della fede e della libertà forse sarebbe meglio per noi iniziare a mettere mano a una riforma di noi stessi, delle nostre prassi segnate dalla ricerca del potere, della visibilità mediatica e di tanti altri idoli che affiorano via via nel nostro vissuto di fede evangelico.

Conclusione: non ci resta che la terza ingiunzione di Ebrei, imitate la fede! Su questo elemento, a differenza dei due storici, possiamo liberamente effondere tutte le nostre energie nella celebrazione. Imitare la fede di qualcuno non è un’operazione di “copia e incolla”, non è uno scimmiottamento di questo e quel riformatore, ma piuttosto un’impresa ermeneutica nella quale la fede da imitare viene ripulita da tutto ciò che è storicamente e culturalmente superato. Si tratta di un’operazione possibile, che i Riformatori stessi, e in particolare Lutero, ci hanno indicato proprio nel crogiuolo degli anni della fede e della libertà: è possibile prendere in carico il passato nella misura in cui ci si ancora saldamente all’insegnamento della sola Scrittura per rispondere alle sfide che man mano ci troviamo davanti.

 

Giacomo Carlo Di Gaetano è Dottore di Ricerca in Filosofia della religione (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara), e Direttore editoriale di Edizioni GBU, nonché coordinatore del DiRS.

 

 

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4. La risurrezione e il dubbio

 

Il vangelo di Gesù Cristo: La risurrezione e il dubbio

Video della quarta sessione plenaria

X Convegno Nazionale 2015

Sabato 5 Dicembre

Traduce Andrea Papini

Lettura biblica: Giovanni 20:24-31

24 Or Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli altri discepoli dunque gli dissero: «Abbiamo visto il Signore!» Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò».
26 Otto giorni dopo, i suoi discepoli erano di nuovo in casa, e Tommaso era con loro. Gesù venne a porte chiuse, e si presentò in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!» 27 Poi disse a Tommaso: «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente». 28 Tommaso gli rispose: «Signor mio e Dio mio!» 29 Gesù gli disse: «Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»
30 Or Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi, che non sono scritti in questo libro; 31 ma questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome.