Tre domande a Filippo Falcone su poesia e rivelazione

1. Che rapporto c’è fra poesia e rivelazione e qual è secondo te la funzione della poesia all’interno della rivelazione?

Volendo circoscrivere la forma poetica alla forma poetica letteraria nel contesto della rivelazione particolare, che i cristiani identificano nelle Scritture ebraiche e cristiane, colpisce in prima istanza la presenza stessa di poesia nel testo. Le Scritture non si limitano all’espressione referenziale di contenuti teologici o filosofici. In altre parole, gli scritti biblici non sono unicamente un insieme di enunciati di fede o proposizioni e discettazioni di natura argomentativa su Dio. La Bibbia si presenta, anzi tutto, come fine narrazione, una narrazione ricca di rapporti intertestuali che declina la teologia ― la conoscenza di Dio ― in modo spesso implicito nella Storia e nelle vicende autentiche dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con Dio (vd. Alter, The art of biblical narrative, 12-13). La sua natura letteraria viene da subito messa in evidenza. La narrazione biblica possiede qualità letteraria in ragione della sua forma, ma possiede altresì qualità letteraria perché rivela Dio nel contesto di un’esperienza umana che, pur nella sua specificità, mantiene un carattere universale. Scorrendo i testi narrativi, facciamo quindi una scoperta sorprendente. Già al loro interno troviamo incastonate gemme e pietre preziose, brevi intermezzi poetici. Questi si trasformano in estesi brani poetici nei profeti per prendere poi tutta la scena nel libro dei Salmi. L’insegnamento di Gesù e, in parte quello degli apostoli, è per immagini e possiede a sua volta qualità poetica. Se crediamo che le Scritture siano più che deposito dell’esperienza dell’uomo con Dio; se crediamo cioè che le Scritture siano rivelazione che scende dal cielo, parola che procede dalla bocca di Dio (cf. 2 Ti 3:16) e che si “incarna” nel tessuto umano, dobbiamo chiederci quale sia al suo interno la funzione delle varie forme letterarie di cui si compone. In altri termini, dovremmo domandarci a quale esigenza risponda l’inclusione dell’elemento letterario e, in particolare, di quello poetico nel testo biblico. La risposta credo venga dal testo stesso. La Bibbia sin dall’inizio ci rivela Dio come potenza creatrice, ma anche come immaginazione creativa, e ci rivela l’uomo come essere creato a sua immagine. L’uomo ne riflette cioè il carattere razionale ed emotivo, relazionale e creativo. Sarà quindi Dio ad assumere dell’uomo il carattere materiale nell’incarnazione. Rivelazione in Dio sottende volontà, desiderio di farsi conoscere all’uomo. Dio sceglie il linguaggio per farsi conoscere. Parlare all’uomo in termini puramente razionali e referenziali significherebbe fare appello alla sola mente dell’uomo, mentre Dio desidera che l’uomo lo conosca in senso relazionale. Egli prepara perciò nella Scrittura un terreno di incontro fra sé e l’uomo e lo fa rivolgendosi a tutto ciò che l’uomo è, alla componente razionale come a quella emotiva, alla componente immaginativa e creativa come ai sensi. Ciò avviene attraverso una cascata di forme letterarie al cui interno la forma poetica gioca un ruolo di primaria importanza. È proprio la poesia biblica, infatti, a realizzare quella che potremmo chiamare associazione di sensibilità. La poesia biblica nei modi più vari ci fa sentire ciò che vuole farci capire attraverso immagini tratte dall’esperienza umana comune e sensibile. La poesia biblica fa anche altro. Attraverso l’ordine delle parole e, in particolare, attraverso parallelismi, ripetizioni e inversioni, crea effetti di accumulo e intensificazione che contribuiscono ad accrescere il portato dinamico dei significati. La musica del testo poetico, l’elemento estetico e l’immagine sensibile, infine, parlano ai sensi dell’uomo (cf. Alter, The art of biblical poetry).

 

2. Potresti fare qualche esempio delle funzioni poetiche che hai descritto?

– Le lettere del Nuovo Testamento tendono a descrivere il rapporto di Dio con l’uomo in termini teologici, affermando, ad esempio, il carattere immutabile e incondizionato della grazia di Dio e della sua sovranità che si traducono, in relazione ai suoi figli, in salvezza, giustizia, fede, amore, speranza, protezione, cura, guida, gioia e pace. Tutto ciò si trasferisce nel salmista Davide in immagine poetica e in questo passaggio la forma ridefinisce il contenuto:

Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.
2 Egli mi fa riposare in verdeggianti pascoli,
mi guida lungo le acque calme.
3 Egli mi ristora l’anima,
mi conduce per sentieri di giustizia,
per amore del suo nome.
4 Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte,
io non temerei alcun male,
perché tu sei con me;
il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.
5 Per me tu imbandisci la tavola,
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo;
la mia coppa trabocca.
6 Certo, beni e bontà m’accompagneranno
tutti i giorni della mia vita;
e io abiterò nella casa del SIGNORE
per lunghi giorni. (Salmo 23)

Ciò che le lettere spiegano chiedendo al lettore capacità di astrazione è qui illustrato da immagini di vita quotidiana che hanno una risonanza particolare nel contesto di una società agreste, ma che risultano efficaci ancora oggi. La grazia, la guida e la provvidenza che informano il rapporto fra l’uomo e Dio diventano il rapporto che intercorre fra la pecora e il suo pastore. Questi provvede a ogni suo bisogno e la conduce in luoghi ameni e lungo sentieri di giustizia, paesaggi dell’anima e immagini di una vita caratterizzata da pace e amore. A questa realtà, Davide subito contrappone la valle dell’ombra e della morte. Chi appartiene al Signore non è esente da prove, difficoltà, afflizioni, pericoli; ma in tutte queste cose Dio è con lui come il pastore attraverso la valle oscura con il suo gregge. Il Salmo si chiude con uno sguardo di gioia proteso all’eternità, speranza certa del salmista.

– Là dove il Nuovo Testamento parla dell’efficacia eterna dell’espiazione (Ebrei 10:14), una realtà spirituale, Davide dipinge davanti ai nostri occhi una distanza fisica:

Come è lontano l’oriente dall’occidente,
così ha egli allontanato da noi le nostre colpe. (Salmo 103:12)

– Infine, due esempi di parallelismo:

3 Poiché la tua bontà vale più della vita,
le mie labbra ti loderanno.
4 Così ti benedirò finché io viva,
e alzerò le mani invocando il tuo nome.
5 L’anima mia sarà saziata come di midollo e di grasso,
e la mia bocca ti loderà con labbra gioiose. (Salmo 63:3-5)

Il Salmo si apre con le parole “l’anima mia è assetata di te” (v. 1). La brama e il bisogno che il salmista ha di Dio sono come la brama e il bisogno di acqua dell’uomo che percorre una terra arida. Questa terra è correlativo oggettivo dell’anima inaridita del poeta. A quest’immagine fa eco un’altra potente immagine fisica all’inizio del versetto 5: “L’anima mia sarà saziata come di midollo e di grasso”. L’anima assetata si dichiara ora affamata e la comunione di Dio diventa cibo che sostenta e soddisfa. Un parallelismo lega poi i secondi versi dei versetti 3 e 5, dove “le mie labbra ti loderanno” è ripreso da “la mia bocca ti loderà…” e la lode ridefinita come frutto della gioia da “…con labbra gioiose”.

Purificami con issopo, e sarò puro;
lavami, e sarò più bianco della neve. (Salmo 51:7)

Osserviamo qui la disposizione parallela di elementi analoghi nel primo e nel secondo verso, dove “purificami” diventa “lavami” e “sarò puro” diventa “sarò più bianco della neve”. Qui il parallelismo non ha una mera funzione enfatica dettata da ripetizione, ma ha funzione di intensificazione. Il poeta vuole indicare che là dove il peccato è abbondato nella sua vita, la grazia sovrabbonderà (vd. Ro 5:20) e il salmista potrà tornare a gustare la gioia della sua salvezza.

 

3. La poesia può avere una funzione sacramentale?

Occorre capire in prima battuta cosa si intenda per sacramento. La questione sacramentale ruota attorno alla possibilità o meno di esperire l’immanenza di Dio nella realtà sensibile. In termini biblici, il sacramento è tale non perché è la realtà stessa, ma perché della realtà è segno. Il segno, il significante, non contiene il trascendente, ma lo addita e in questo senso vi partecipa in termini di significato (cf. Schwartz, Sacramental poetics, 6). Se parliamo di poesia biblica, essa, come d’altronde tutta la Scrittura, ha certamente una funzione sacramentale. Cristo, la Parola, si identifica con la sua parola, che è segno di Cristo. In un senso molto reale, avvicinarsi al testo biblico è avvicinarsi a Cristo. La Bibbia, parola di Dio, frammento di cielo sulla terra, realizza per l’uomo l’immanenza di Dio nel momento in cui diventa terreno di incontro fra l’uomo e Cristo, la Parola. La poesia biblica, dal canto suo, svolge una funzione essenziale in questo senso. Con i suoi suoni, i suoi rapporti di significante e significato e le sue immagini sensibili essa ci fa sentire, per così dire, Dio e ce lo fa conoscere al di là dei nostri processi meta-cognitivi.
Rimane da interrogarsi sulla funzione della poesia sacra non contenuta nelle Scritture. Quello che vale per la poesia biblica vale anche per la poesia sacra in genere? Sì, ma in termini di riflesso. Così come la predicazione scritturale informata dalla guida dello Spirito riflette il carattere di parola della Parola proprio della predicazione apostolica, la poesia sacra, laddove tessuto della parola e dello Spirito, può anch’essa diventare veicolo della realtà di Dio.

 

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU.

 

Che cosa celebriamo quando celebriamo la Riforma?

L’autore della Lettera agli Ebrei invitava i lettori a ricordare i loro conduttori in quanto questi, «vi hanno annunciato la parola di Dio; e considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede» (Eb 13:7). Sebbene nella Bibbia abbondino gli inviti a considerare il passato, a custodire la memoria (dagli appelli popolo d’Israele, all’istituzione della Cena del Signore), mi pare che questo ammonimento sia molto vicino alle nostre sensibilità (non c’è il rischio dell’orgoglio etnico né quello di decidere quale sia lo status della Cena).

Il brano chiede allora tre cose:

  • Ricordare;
  • Considerare la fine dei conduttori;
  • Imitarne la fede

 

 

Appare evidente che due dei tre elementi hanno un sapore chiaramente “storico” mentre il terzo si presta a considerazioni di altro ordine (spirituale?).

Pensando ai due elementi storici, la riflessione da fare nella ricorrenza della Riforma è se questa sia stata presa e considerata come un evento realmente storico (non ci sarà un’altra porta di una cattedrale di Wittenberg con un elenco di tesi affisse); il rischio infatti è che si possa alludere a essa come a una sorta di età dell’oro considerata sub specie aeternitatis.

Giorgio Spini metteva in guardia sulla retta considerazione dei fenomeni storici:

«non si è storici se non si ha coscienza chiara che il passato è il passato e non l’avvenire, e che se si smarrisce questa coscienza si possono fare cento altri mestieri belli o brutti, da quello ammirabile dell’apostolo a quello assai meno ammirabile del padre inquisitore, ma non si farà giammai il mestiere dello storico» (Storia dell’età moderna, p. 22)

In sostanza facciamo giustizia alla Riforma allorquando la presentiamo in tutta la sua crudezza storica, senza nascondere niente: pluralità e dunque lotte intestine; conflitti teologici (dai sacramenti alla predestinazione) fino alle rivendicazioni contadine, etc..

 

Tenendo conto di questi due rilievi apostolici dal sapore storico viene da pensare all’enfatizzazione, ricorrente nei dibattiti e nelle conferenze, delle conseguenze positive della Riforma, conseguenze da registrare sul piano sociale, culturale, etc.. Benissimo! Personalmente penso che il piano su cui la Riforma abbia inciso più degli altri sia quello educativo. Si tratta, se vogliamo, di una lettura apologetica della Riforma. Una lettura che sembra sorgere da un bisogno quasi ossessivo di giustificare la Riforma oppure di renderla appetibile per via delle conseguenze. Ma dobbiamo ammettere che su questa strada, con operazioni di storia del pensiero abbastanza complesse, corriamo il rischio di imbatterci in operazioni di segno contrario, altrettanto valide, nelle quali ci vengono ricordate alcune conseguenze negative della Riforma.

In questa lettura apologetica non si corre dunque il rischio di mettere in ombra le riscoperte teologiche dei Riformatori dal momento che queste vengono inserite nel frullatore delle rivendicazioni o delle contestazioni confessionali?

 

Restando sul piano dei due elementi dell’ammonimento apostolico va segnalato anche lo strano fenomeno della Riforma ricordata e rappresentata al cospetto di interlocutori cattolici, quando non anche di appartenenti a Chiese protestanti storiche. Che significato ha questa operazione?

A parte il pio ma discutibile pensiero di usare questa ricorrenza per evangelizzare … essa pare manifestare l’attesa che la Chiesa di Roma si decida ad accogliere la Riforma. Ma qui si erge un grosso problema: prima di tutto, a che cosa richiamiamo i nostri interlocutori cattolici? Essendo e definendoci evangelici ciò a cui dovremmo richiamarli, sia loro sia noi stessi, sarebbe il vangelo e non una stagione della storia del cristianesimo. In secondo luogo viene da interrogarsi sulle modalità di lettura della Riforma che adoperiamo. Nella sua recente biografia su Lutero, Adriano Prosperi ha focalizzato l’attenzione sugli anni di fuoco dell’esperienza del Riformatore, quelli che vanno dal 1517 al 1520, gli anni della fede e della libertà, come li ha definiti (Mondadori, 2017); alla fine di questo periodo c’è la scomunica e la rottura, e dunque la necessità concreta di pensare a come interagire con una parte del corpo cristiano che rifiutava l’appello a riformarsi. Ma in tutti i modi, come hanno ricordato in molti, Lutero in quegli anni ambiva a riformare quella che riteneva essere la sua chiesa!

Cercando di cogliere la lezione da questa focalizzazione sembra che il primo impulso della Riforma si rivolgesse verso il contesto all’interno del quale era inserita l’esperienza di fede di chi lo aveva sperimentato. Se prendessimo in carico totalmente la movenza degli anni della fede e della libertà di Lutero, avremmo che ognuno di noi dovrebbe pensare alla Riforma avendo nella testa e sullo sfondo la condizione della propria chiesa di appartenenza, quale che sia. Di fatto tutto l’evangelismo dovrebbe avere questa coscienza. Se poi dovessimo pensare a cosa, della Riforma, dovremmo auspicare per le nostre chiese e per tutto l’evangelismo può essere utile considerare la sintetica presentazione di Paolo Ricca: in una conferenza tenuta a un convegno a Torino nel 2008 (La Riforma come fenomeno europeo, Claudiana, 2011) ha sostenuto infatti che l’aspirazione di Lutero era quella di riporre la sua chiesa (nel senso di chiesa a cui apparteneva) sul fondamento che le era proprio, quello di Gesù Cristo, attestato nella Scrittura e per mezzo del quale era imputata al peccatore la giustizia. Desideriamo una chiesa e delle chiese poste sull’unico fondamento che è Gesù Cristo? Il confessionalismo e gli esperimenti confessionali successivi alla Riforma ci hanno insegnato, come ha ben spiegato Alister McGrath nel suo La Riforma e le sue idee sovversive (Edizioni GBU 2017), la necessità che ogni cristiano definisse la sua identità sulla base di una confessione di fede, di un documento che lo collocasse in uno dei partiti usciti dalle epoche delle ortodossie che hanno la Riforma solo a uno dei suoi estremi!

Facciamo dunque un errore di prospettiva quando pensiamo alla Riforma avendo ancora sullo sfondo la condizione della Chiesa di Roma, e non le nostre proprie chiese.

Alcuni teologi evangelici del nordamerica, forse pensando a cosa la Riforma possa dire a tutto l’evangelismo, in questa correzione della prospettiva, hanno posto l’attenzione sul tema della cattolicità di tutto ciò che è venuto fuori dalla Riforma (A Reforming Catholic Confession). È vero, i protestanti e gli evangelici sono più cattolici dei cattolici “romani”. E tuttavia, l’operazione di porre la Riforma avendo sullo sfondo la propria condizione e non quella altrui li ha portati a fare un’amara considerazione:

«Dobbiamo riconoscere che i Protestanti non hanno gestito le differenze dottrinali e di interpretazione in uno spirito di carità e di umiltà, ma nel fare una comune confessione sfidiamo l’idea che ogni differenza o distinzione denominazionale porti necessariamente alla divisione» (Explanation, n. 10; https://reformingcatholicconfession.com/)

Quando poniamo mente a tutto ciò abbiamo ancora voglia di andare a celebrare la Riforma al cospetto dei nostri amici cattolici, avendo forse il retropensiero che è la Chiesa di Roma a doversi riformare? Sicuramente la testimonianza di Lutero, e per suo mezzo il richiamo del vangelo, restano per Roma ancora oggi un appello con cui essi devono confrontarsi; grazie a Dio non più a suon di spade! Ma nel segno della fede e della libertà forse sarebbe meglio per noi iniziare a mettere mano a una riforma di noi stessi, delle nostre prassi segnate dalla ricerca del potere, della visibilità mediatica e di tanti altri idoli che affiorano via via nel nostro vissuto di fede evangelico.

Conclusione: non ci resta che la terza ingiunzione di Ebrei, imitate la fede! Su questo elemento, a differenza dei due storici, possiamo liberamente effondere tutte le nostre energie nella celebrazione. Imitare la fede di qualcuno non è un’operazione di “copia e incolla”, non è uno scimmiottamento di questo e quel riformatore, ma piuttosto un’impresa ermeneutica nella quale la fede da imitare viene ripulita da tutto ciò che è storicamente e culturalmente superato. Si tratta di un’operazione possibile, che i Riformatori stessi, e in particolare Lutero, ci hanno indicato proprio nel crogiuolo degli anni della fede e della libertà: è possibile prendere in carico il passato nella misura in cui ci si ancora saldamente all’insegnamento della sola Scrittura per rispondere alle sfide che man mano ci troviamo davanti.

 

Giacomo Carlo Di Gaetano è Dottore di Ricerca in Filosofia della religione (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara), e Direttore editoriale di Edizioni GBU, nonché coordinatore del DiRS.

 

 

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4. La risurrezione e il dubbio

 

Il vangelo di Gesù Cristo: La risurrezione e il dubbio

Video della quarta sessione plenaria

X Convegno Nazionale 2015

Sabato 5 Dicembre

Traduce Andrea Papini

Lettura biblica: Giovanni 20:24-31

24 Or Tommaso, detto Didimo, uno dei dodici, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli altri discepoli dunque gli dissero: «Abbiamo visto il Signore!» Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e se non metto la mia mano nel suo costato, io non crederò».
26 Otto giorni dopo, i suoi discepoli erano di nuovo in casa, e Tommaso era con loro. Gesù venne a porte chiuse, e si presentò in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!» 27 Poi disse a Tommaso: «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente». 28 Tommaso gli rispose: «Signor mio e Dio mio!» 29 Gesù gli disse: «Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»
30 Or Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi, che non sono scritti in questo libro; 31 ma questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome.

 

 

 

Endorsement

Prof. Roberto Frache
Professore ordinario di Chimica Analitica
Università di Genova

I Gruppi Biblici Universitari – GBU sono stati un notevole aiuto quando ero studente all’Università di Genova ma, soprattutto, negli anni successivi. Le possibilità di leggere libri e Riviste, di assistere a Conferenze, di frequentare incontri organizzati dai GBU hanno costituito per me una occasione importante per approfondire temi fondamentali sulla base di una solida base biblica.

La frequentazione dei GBU mi ha portato a fare parte del primo Comitato che ho presieduto per circa dieci anni. Ho potuto così portare un contributo all’impegno del movimento nel presentare al mondo universitario la visione biblica delle problematiche fondamentali che interessano da sempre l’uomo.

Ritengo il DiRS un moderno strumento che permette l’incontro di giovani – universitari e non – su temi importanti, che stanno alla base della nostra esistenza, in un clima di rispetto reciproco e di sincera ricerca. Il DiRS può quindi svolgere un ruolo significativo sia nell’ Università sia, in generale, fra le persone che sono interessate a problematiche che non sempre sono affrontate, nel dibattito culturale attuale, tenendo conto anche della prospettiva biblica.

 

 

Giancarlo Rinaldi
Docente di Storia del cristianesimo
Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Il Dipartimento di Ricerche e Studi costituisce un’articolazione dei Gruppi Biblici Universitari i quali operano anche in Italia al fine di sensibilizzare il mondo universitario verso una libera riflessione su temi di carattere religioso, filosofico, sociale, etico, umanistico etc.

Le iniziative sono corredate da una attività editoriale di qualità. Tra i pregi di questo laboratorio di riflessione v’è quello della sua dimensione internazionale, per quanto riguarda sia i relatori che i partecipanti.

Sicuramente da questa azione di stimolo e di servizio la vita dei nostri atenei potrà trarre profitto promuovendo la partecipazione degli studenti e, tra l’altro, contribuendo ad esorcizzare il pericolo di una università – esamificio.

 

 

Prof. Massimo Rubboli
Docente di Storia delle Americhe
Università di Genova

Molti anni fa, quando ero studente all’Università di Bologna, ho fatto parte anch’io dei Gruppi Biblici Universitari (GBU) e ne ho ricevuto importanti stimoli per una seria riflessione su temi di grande rilevanza a partire dallo studio della Scrittura.

Ho continuato poi ad apprezzare l’impegno di questo movimento nel continuare a promuovere una riflessione biblica nell’ambito universitario, sia nel campo umanistico sia in quello scientifico.
Per alcuni anni sono stato membro del Comitato editoriale della casa editrice dei GBU e oggi dirigo la collana “Orizzonti del pensiero cristiano”, dove sono state pubblicate e sono in preparazione opere importanti ma ancora inedite in Italia, come il testo di Alexandre Vinet sulla separazione tra stato e chiesa che ispirò il pensiero di Cavour.

Credo che il DiRS sia un importante luogo di incontro e confronto per giovani studiosi su varie tematiche e svolga una funzione di stimolo alla discussione su temi e valori che spesso sono assenti dal mondo universitario.

 

 

Dr. Nicola Berretta
Ricercatore Laboratorio di Neurologia Sperimentale
Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma

Sono entrato nel mondo dei GBU quando ero ancora studente universitario presso l’Università di Pisa, trovando in esso uno felice strumento per uscire da una inopportuna dicotomia tra quella che era la mia esperienza quotidiana, vissuta tra un corso universitario e l’altro, e il tempo invece dedicato alla comunione fraterna, nella chiesa locale che frequentavo. La mia successiva esperienza lavorativa mi ha portato lontano dai GBU, in quanto vissuta in contesti affini, ma pur sempre esterni alla realtà accademica.

In anni recenti il mio interesse e il mio coinvolgimento diretto coi GBU è lentamente riemerso, grazie alla partecipazione a convegni annuali, oltre che a contributi che ho potuto offrire a colloqui organizzati dal DiRS e a iniziative evangelistiche dei GBU, e non ultima la mia collaborazione nel consiglio direttivo delle Edizioni GBU. Questo rinnovato entusiasmo non ha fatto altro che confermare, e semmai apprezzare ancora di più, l’utilità delle iniziative promosse dai GBU, tra le quali il DiRS. Nel suo impegno alla ricerca e all’approfondimento intellettuale, ancorché radicato nell’insegnamento biblico, credo che il DiRS possa costituire un’efficace interfaccia del mondo evangelico con la realtà accademica nel suo insieme, fatta di studenti, ricercatori e docenti universitari.

Il “tono” del vangelo

Abbiamo una chiamata a essere ambasciatori di Dio nel mondo. Ora siamo stranieri e rappresentiamo un regno e un sistema di valori differenti. Abbiamo anche un messaggio: questo mondo non ha l’ultima parola sulla vita. In un certo senso il nostro messaggio è soprattutto una supplica e la supplica è: «Siate riconciliati con Dio». Egli si cura di voi; separati da lui non state traendo il massimo dalla vostra vita. Quanto potreste avere e sperimentare di più! Quello che si ha qui è per lo più il tono di un invito a riflettere. Paolo inchioda spesso i propri interlocutori alla loro responsabilità, ma nel farlo mantiene sempre il tono dell’appello a essere riconciliati con Dio.

È il tono che osserviamo anche nel toccante passo di Atti 17:16–32. Paolo si trova ad Atene. Il testo ci dice che è adirato per tutti gli idoli che vi osserva. Se vogliamo avere un’idea di come si sentisse Paolo per questo tipo di rifiuto di Dio ci basta leggere i versetti d’apertura di Romani 1:18–231. Tuttavia quando si rivolse agli Ateniesi lo fece in modo rispettoso, pur sfidandoli a cambiare il loro modo di concepire Dio. Li invitò a riflettere sulla loro responsabilità davanti a Dio. Non fu lui a porre fine al discorso poiché quando arrivò alla risurrezione la discussione si spense. Nondimeno il passo mostra Paolo che predica come un ambasciatore, latore di un richiamo a un modo nuovo di pensare a Dio. Chiama al ravvedimento anche mentre cerca la fede:

«Mentre Paolo li aspettava ad Atene, ….. lo spirito gli s’inacerbiva dentro nel vedere la città piena di idoli. Frattanto discorreva nella sinagoga con i Giudei e con le persone pie; e sulla piazza, ogni giorno, con quelli che vi si trovavano. E anche alcuni filosofi epicurei e stoici conversavano con lui. Alcuni dicevano: “Che cosa dice questo ciarlatano?” E altri: “Egli sembra essere un predicatore di divinità straniere”, perché annunciava Gesù e la risurrezione. Presolo con sé, lo condussero su nell’Areòpago, dicendo: “Potremmo sapere quale sia questa nuova dottrina che tu proponi? Poiché tu ci fai sentire cose strane. Noi vorremmo dunque sapere che cosa vogliono dire queste cose”. Or tutti gli Ateniesi e i residenti stranieri non passavano il loro tempo in altro modo che a dire o ad ascoltare novità. E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areòpago, disse: “Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto.

“Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che
sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito
dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: ‘Poiché siamo anche sua discendenza’. Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana. Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti”.
Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni se ne beffavano; e altri dicevano: “Su questo ti ascolteremo un’altra volta”».

Vedete il rispetto accordato da Paolo a una ricerca spirituale male indirizzata? La riconobbe e cercò d’impegnare coloro che vi si dedicavano ponendosi al livello del loro desiderio di conoscere e di cercare Dio. Anche se questo cammino era al momento male indirizzato, Paolo corresse la rotta, orientandoli verso quello che Dio stava facendo in Gesù. Li supplicò di essere riconciliati con il Dio vivente, incominciando nel frattempo a mettere in chiaro che erano responsabili verso di lui.

In parte Paolo potè farlo perché nel mondo antico c’era rispetto per il divino. Nessuno metteva in discussione che ci fosse qualche divinità al mondo, cosa questa che oggi non è sempre così scontata. Ci sono alcuni che pensano di poter scendere a patti con Dio e con quello che egli deve loro. Oppure hanno un’idea di Dio che lo considera più come un nonno facilmente manipolabile che come il Signore sovrano. Nondimeno il punto è che dobbiamo presentare il vangelo con un tono invitante, anche quando sfidiamo le persone a rimettere in discussione il loro modo di concepire Dio. Non dobbiamo fare un accordo con i nostri interlocutori o fare pressione su di essi; il nostro compito è quello di presentare il messaggio di speranza. I risultati sono nelle mani di coloro che ci ascoltano e del Dio che può operare per cambiare i cuori delle persone.

Questo tema del tono è davvero importante. Spesso è qui che la chiesa viene meno. O edulcora tanto il vangelo da far dimenticare il bisogno (e la risultante gratitudine derivante dal soddisfacimento di quel bisogno) oppure punta il dito contro le persone, cercando di farle entrare nel regno in preda alla vergogna. Nessuno di questi due approcci è quello qui mostrato da Paolo. Rispettate quanti sono spiritualmente alla ricerca. Invitateli a essere riconciliati con Dio e a percepire il bisogno che hanno di ciò che egli ha fatto. Poi lasciate serenamente gli effetti di quella conversazione nelle mani di coloro che sono invitati e del Dio che per vostro tramite fa l’invito. Ricordate: al vangelo si accompagna la potenza che in quanto parola di Dio gli è propria. La sua speranza può penetrare nel cuore in modi che a noi non sarebbero mai accessibili, in quanto lo Spirito di Dio continua a operare nel seme che attecchisce tramite la condivisione di quel positivo messaggio.

(Darrell L. Bock, Alla riscoperta del vero vangelo perduto, Edizioni GBU, 2017)

 

Darrell Bock sarà il relatore del XII Convegno Nazionale GBU (7-10 dicembre 2017)

Il messaggio di Gesù Cristo in una cultura complessa

Darrell Bock su Riforma e società contemporanea

 

Prof. Bock,

il titolo del ciclo di conferenze che terrà al prossimo XII Convegno Nazionale GBU è: “Il messaggio di Gesù Cristo in una cultura complessa“;

quest’anno ricorre anche il 500° anniversario della Riforma protestante. Vede qualche parallelismo tra la complessità che caratterizzava la società del XVI secolo e la complessità che caratterizza il tempo presente?

 

No, c’è una differenza importante tra le due società, quale che possa essere l’idea che abbiamo di “complessità”. Si tratta di questo: la rete di convinzioni ebraico–cristiane che avvolgeva l’Europa della Riforma ora non c’è più. Questo ha implicazioni profonde per la chiesa e per quello che questa deve fare quando deve comunicare il suo messaggio.

La testimonianza che rendiamo a Gesù Cristo può beneficiare di una rilettura importante della Riforma, oppure i cambiamenti sociali e culturali ci suggeriscono di andare oltre la Riforma?

Decisamente la seconda ipotesi. C’è sicuramente un certo beneficio nel confrontarsi con tutto ciò che è venuto dalla Riforma ma il modo in cui spieghiamo il contenuto cambia completamente. Invece di argomentare sostenendo che ciò che è vero lo è in quanto è contenuto nella Scrittura, dobbiamo oggi argomentare sostenendo che la verità si trova nella Bibbia proprio perché è vera; si tratta di un orientamento e un compito completamente diverso.

(D. Bock)

Chi è Darrell L. Bock?

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