Il cristianesimo in tempi di epidemie

(John Wyatt)

Nel mondo antico le epidemie erano una fonte di terrore. Si sarebbero abbattute sulle città dell’Impero romano portando devastazione. Quella che viene chiamata l’epidemia di Cipriano fu una pandemia che afflisse l’Impero romano all’incirca dal 249 al 262 d.C. In questo periodo, al culmine della sua esplosione, si disse che nella stessa città di Roma morivano 5000 persone al giorno.

Ponzio di Cartagine scrisse una descrizione di prima mano: «In seguito, scoppiò una terribile piaga (peste), e l’eccessiva distruzione di destabile malattia invase ogni casa, una dopo l’altra, della popolazione tremolante, portando via giorno dopo giorno, con rapidità improvvisa innumerevoli persone, ciascuna dalla propria casa. Tutti tremavano, scappavano, cercavano di scansare il contagio, mettendosi empiamente a contatto con i proprio amici, esponendoli a rischio, come se, con l’esclusione della persona che sicuramente sarebbe morta di peste, uno potesse respingere anche la morte stessa. Intanto, ricoprivano tutta la città, non più di corpi, ma di carcasse di tanti e, la contemplazione di una sorte che a turno sarebbe stata la loro, esigeva che gli stessi passanti avessero compassione per se stessi. Nessuno considerava altro che il proprio crudele egoismo. Nessuno tremava al ricordo di un evento simile. Nessuno faceva all’altro quello che egli stesso avrebbe voluto sperimentare… »

Sorprendentemente, non ci sono giunti dei resoconti di prima mano relativi ai sintomi clinici e ai segni esteriori della piaga da parte dei medici ippocratici del tempo. Sebbene fossero rendicontate le descrizioni cliniche di molte altre malattie è stato notato che le descizioni mediche coeve della piaga sembrano vaghe e semplicistiche.

Perché? Sicuramente una ragione sta nel fatto che alle prime avvisaglie della piaga i medici ippocratici avrebbero disertato le città e sarebbero fuggiti nelle campagne per mettersi in salvo! Quando l’epidemia mise in pericolo Roma, il grande medico Galeno si spostò rapidamente in una tenuta di campagna dell’Asia Minore dove vi rimase fino a che non passò il pericolo.

Nell’opera ippocratica De arte lo scopo del medico era definito come «l’eliminazione della sofferenza del malato, ridurre la virulenza delle malattie e rifiutare coloro che sono già dominati dai loro malanni con il rendersi conto che in tali casi la medicina è impotente». Curare chi stava morendo equivaleva probabilmente a gettare discredito sulla reputazione della professione e mettere a rischio la fiducia nella capacità di guarire del medico.


È dunque notevole il fatto che fu un vescovo cristiano, Ciprano, che ci ha fornito la più accurata e dettagliata descrizione clinica dell’antica piaga: «Queste erano indicate come prova: mentre la forza del corpo si dissolve, le viscere si dissipano in un flusso; un fuoco che inizia nelle parti più profonde sale e brucia le ferite nella gola; gli intestini si scuotono a causa di un perpetuo vomitare; gli occhi bruciano per la pressione del sangue; ad alcuni, l’infezione della putrefazione mortale mozza i piedi o altre estremità; e mentre prevale la debolezza per i fallimenti e le perdite dei corpi, si paralizza il passo si perde l’udito si resta ciechi».


La descrizione di Cipriano ci fa pensare che la piaga del terzo secolo di cui egli fu testimone possa essere stata un’infezione virale emorragica, altamente infettiva e letale, simile al virus di ebola, sebbene continui il dibattito sulla natura di queste antiche epidemie.


Ciò che è chiaro è che c’erano scene di orrore – le strade piene di corpi sanguinanti dei moribondi e c’era il disperato tentativo della popolazione di salvarsi quali che fossero le conseguenze per gli altri. Qui c’è un’altra testimonianza di Dionigi di Alessandria: «Alla prima manifestazione della malattia i pagani allontanavano i malati e fuggivano dai loro cari gettandoli nelle strade prima che fossero morti e lasciavano i loro corpi non sepolti come si trattasse di immondizia, sperando così di evitare la diffusione e il contagio della malattia fatale; facevano quel che potevano ma era difficile per loro sfuggire …».


Eppure in molte di quelle città dell’Impero romano c’era un piccolo corpo di credenti, spesso osteggiati e stigmatizzati come “atei” (per il fatto che nelle loro case e nei loro luoghi di radunamento non c’erano state e idoli) oppure definiti “galilei”. Come reagivano in questo tempo di distretta e orrore? Scappavano anch’essi in campagna per salvare le proprie vite?

Il racconto di Dionigi prosegue: «La maggior parte dei nostri fratelli, dunque, senza avere alcun riguardo per se stessi, per un eccesso di carità e d’amore fraterno, accostandosi gli uni agli altri, visitavano senza preoccupazione gli ammalati, li servivano meravigliosamente, li soccorrevano in Cristo e morivano assai gioiosamente con loro; contagiati dal male degli altri, attiravano su di sé la malattia del prossimo e ne assumevano volentieri le sofferenze. Molti poi, dopo aver curato e ridato forza agli altri, morirono essi stessi [ . . . ]».


Seguendo l’esempio di Cristo i cristiani credenti offrivano cure compassionevoli ai loro vicini pagani – accogliendoli nelle loro case, lavando le ferite, pulendo il sangue e gli effetti delle perdite, offrendo acqua, cibo e medicinali di base, «li soccorrevano in Cristo», anche se sapevano che esponevano se stessi a un rischio estremo.


Il mondo antico non aveva mai visto qualcosa del genere. Rodney Stark, uno storico della società ha intrapreso un’analisi dettagliata gingendo alla conclusione che le azioni dei cristiani al tempo dell’epidemia fu uno dei fattori più importanti nella crescita esplosiva della chiesa cristiana in questo periodo.


Quando ho letto questi racconti mi sono sentito indegno di portare lo stesso titolo di un servo cristiano. Quanto poco ho sperimentato il costo della cura simile a quela di Cristo se i paragono alle mie sorelle e ai miei fratelli del terzo secolo.
Ma nei secoli successivi i servi cristani si sono comportati allo stesso modo dalla storia tragica della piaga dell’epidemia di Cipirano del 250 fino all’epidemia di ebola del 2014 e fino ad oggi. Molti degli infermieri e dei dottori della Sierra Leone che hanno sacrificato le loro vite per curare le vittime di ebola erano cristiani credenti. Sapevano che l’equipaggiamento protettivo era scadente e che nonostante tutte le loro precauzioni, non avrebbero potuto difendersi. Eppure essi si sono presi cura, come le loro antiche sorelle e i loro fratelli che ministrarono ai malati nel nome di Cristo.


Non ho dubbi che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi verranno fuori le storie di sacrificio eroico. Va detto che nel mondo moderno non sono solo i cristiani credenti che si sacrifiano nella cura degli sconosciuti. Dobbiamo celebrabre l’impegno nella cura di tutti a prescindere dal loro credo o motivazione. E naturalmente, come professionisti dobbiamo essere sapienti nel prendere le precauzioni, sì da poter continuare a curare il più possibile, piuttosto che infettarci anche noi. Ma non dobbiamo dimenticare la nobile storia del cristianesimo in tempi di epidemia, ricordando le parole di Gesù, come fecero i primi cristiani: « In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me» (Matteo 25:40).

John Wyatt è Professore emerito di Neonatal Paediatrics alla UCL e Senior Researcher presso il Faraday Institute for Science and Religion, dell’Università di Cambridge

In italiano si può leggere, dello stesso autore, Questioni di vita e di morte. Dilemmi moderni alla luce della fede cristiana, Edizioni GBU, 2018.


L’articolo è stato ripreso dal blog di CMF (Chrisrian Medical Fellowship) ed è stato tradotto con permesso. (https://cmfblog.org.uk)

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