di Giacomo Carlo Di Gaetano
Questo è l’altro hastag (oltre a #andràtuttobene) di questa Italia del XXI secolo costretta a casa per “contenere” la diffusione del contagio. È stato il primo, e quello più persistente, perché, come ci ricordano gli organi istituzionali, la pubblicità e tanti altri nel pieno dell’epidemia, si deve fare questo, restare a casa. Personaggi dello sport, dello spettacolo, istituzioni culturali, medici hanno rilanciato lo slogan. E pare che abbia funzionato, stia funzionando: gli italiani appaiono la nazione più ligia all’osservanza delle norme sul distanziamento sociale affinché l’aria che ci separa dal nostro prossimo non venga sfruttata da questo piccolo mostro per diffondersi.
Stare a casa: un problema di libertà e di razionalità
La riduzione delle prerogative delle libertà individuali di movimento, di assembramento (si pensi a quanti incontri – incluso quelli di natura religiosa, dalle messe ai culti evangelici – sono stati interdetti) e altre ancora che non sono state ridotte per necessità (le attività economiche essenziali), è sempre stato un tema della riflessione filosofica e politica dell’Occidente. Si sostiene che “l’uomo libero”, così come lo conosciamo noi, sia il frutto della confluenza di almeno tre tradizioni culturali: il pensiero greco, con la libertà considerata come determinazione della volontà e manifestazione di virtù; la quintessenza della rivelazione ebraico–cristiana, con la libertà della coscienza derivante dal coram deo e dall’imago dei; le acquisizioni illuministiche, con la libertà della ragione e del pensiero. Bene, se “l’uomo libero” è tutto ciò, non può accettare alcuna restrizione. Questa condizione è confuita nella mappa dei diritti (religiosi, civili, politici, etc.).
Si discute, lo abbiamo ascoltato spesso di questi tempi, se questo schema possa subire delle riduzioni in funzione delle nuove frontiere della cura quali la telemedicina, la mapatura digitale del contagio, etc.
Qui si contrappongono privacy e benessere
pubblico.
Eppure adesso siamo tutti
confinati in casa. Questo è un retroeffetto del “male naturale” di cui stiamo
facendo esperienza; di cui stanno facendo esperienza, in primo luogo, coloro
che hanno subito delle perdite e coloro che sono in prima linea a combattere
l’epidemia.
Senza volerlo, sicuramente senza
desiderarlo, anche la stragrande maggioranza di tutti noi siamo partecipi e
subiamo, sotto la forma della riduzione delle libertà della persona, il confronto
con il male nella sua accezione naturale.
Perché accettiamo questa
condizione?
Si tratta di una sorta di contributo globale che gli umani stanno rendendo alla razionalità di natura scientifica. Ci sottoponiamo a delle direttive e assumiamo dei comportamenti che sono suggeriti dalla ricerca scientifica da cui derivano le argomentazioni razionali per cui è meglio subire la riduzione delle nostre ibertà per quindici giorni o un mese, o anche più, piuttosto che dare il lasciapassare all’infezione …
Irrazionale è oggi il comportamento e il pensiero che ammucchia, che non sa distanziare, che si accalca, che non è lucido, sanificante. Ed è strano pensare che proprio le aree geografiche che un tempo avevano indicato la strada maestra dell’igiene pubblica e del miglioramento delle condizioni di vita (l’Occidente), oggi sono le aree geografiche in cui il pensiero e i comportamenti ammucchianti sono più evidenti e più devastanti. La scienza, i virologi e gli epidemiologici, ci dicono che dobbiamo stare a casa, serrare l’uscio delle nostre porte affinché il contagio “passi oltre”. Con buona pace del pensiero complottista, no–vax, etc.
Stare a casa per scampare la distruzione
Se la razionalità scientifica è ciò che ci giustifica nell’adozione di comportamenti che limitano le nostre libertà individuali, forse la motivazione ultima è quella di assecondare la nostra percezione che ci suggerisce che in tal modo ci stiamo proteggendo. Lì fuori c’è qualcosa che si aggira e che è tremendo. Al netto di tutti i dibattiti che si fanno e si leggono il succo di questa epidemia e di ciò che la causa, il virus, è questo: in un’epoca così avanzata per quanto concerne i sistemi sanitari, il tasso di morte per patologie che si ritengono curabili è molto alto. Niente di simile era accaduto in passato. È perché sappiamo di poter curare (anche se non in maniera definitiva) chi si infetta, che ci spaventa la prospettiva di una diffusione del contagio che renderebbe impossibile curare tutti. Allora è meglio proteggerci. Abbiamo avuto una rivelazione: stiamo a casa, raduniamoci nei nostri nuclei familiari e segnaliamo all’esterno che noi non ci siamo contaminati. La protezione implica due versanti: quello esterno e quello interno. All’esterno bisogna segnalare che sì, abbiamo chiuso l’uscio prima dell’arrivo del distruttore, abbiamo assecondato la sapienza e la saggezza “tecnica”. All’interno bisogna “celebrare” questa salvezza: se stiamo in casa il contagio “passa oltre”, possiamo con grande umiliazione celebrare la nostra salvezza e prepararci a ri–partire.
Non ci vuole molto per comprendere che queste categorie (passare oltre, segnalare all’esterno, celebrare all’interno) sono le categorie di quella festività carica di simboli e frutto di strati di sgnificato complessissimi che è la PASQUA (pesach).
Straordinaria coincidenza: ci chiudiamo in casa perché là fuori c’è qualcosa che ci spaventa, una manifestazione subdolamente superlativa di tutta una serie di sciagure che abbiamo sperimentato, e nel frattempo il nostro calendario ci ricorda che è Pasqua (quella cristiana) e le nostre menti sono obbligate ad andare a Esodo 12 (la pasqua ebraica), da dove tutto è partito.
E lo scenario è straordinariamente simile o almeno possiede dei richiami simbolici molto forti:
– un popolo chiuso in casa, avvertito in merito #nessunodivoivarchilaportadicasasuafinoalmattino;
– qualcosa che là fuori si agira e può colpire;
– la speranza di essere risparmiati e di poter finalmente ripartire.
Ci sono alcune lezioni che si possono trarre da questa antica pagina biblica, sulla quale si sono esercitate le menti più acute dell’ebraismo e del cristianesimo, e non solo.
A questo punto sarebbe utile che si legga quel capitolo.
Il popolo
ritrova compattezza
Sicuramente
non è un elemento principale del racconto; tuttavia il contesto generale non lo
nasconde. Dio chiama Mosè e gli dà delle istruzioni; Mosè le comunica al
popolo, questo le accetta, le mette in pratica [il popolo s’inchinò e adorò (v. 27)].Niente più divisioni e
fazioni,come nel capitolo 5, quando il popolo si era trovato a
fronteggiare la reazione del regime di faraone. Ora non c’è più l’insinuazione
contro Mosè, (chi ti ha costituito sopra
di noi) e neanche le fazioni.
Il momento era cruciale, delicato, gravido di conseguenze (promessa della
liberazione, ma minaccia di cadere vittima della decima piaga).
Questa compattezza viene conseguita mediante la ricomposizione dei nuclei
famigliari, anche quelli allargati. Ci si frammenta, ci si stringe l’uno
all’altro in famiglia (dove non si rispettano le misure di distanziamento
sociale – 1 metro), in un certo senso ci si separa, per poi sentirsi partecipi
di uno stesso destino. Nell’Italia del XXI secolo questa dinamica è stata
sicuramente incarnata dalla figura del Presidente della Repubblica. Il
Presidente Sergio Mattarella, con i suoi sapienti e centellinati interventi è
riuscito a farci sentire tutti partecipi di una stessa vicenda nel mentre la
sua voce arrivava a milioni di famiglie ognuna chiusa nel suo isolamento. Non
così la politica! E poi c’è Zoom, con cui una miriade di formazioni sociali
prende vita davanti a telecamere e mouse. C’è vita dietro le porte chiuse alla
piaga; e, se sapientemente vissuta, quasta frammentazione può produrre
compattezza in un popolo. Mettiamo pure il tricolore sul balcone.
Ma la pandemia, lo si è detto, non conosce confini; serve a poco se in Italia
ci si separa in famiglie e si riscopre nello stesso tempo la coscienza
collettiva. Le schermaglie europee e la diversità di approcci (dall’Inghilterra
prima, per finire poi alla Svezia), se non addirittra il doppogioco dei regimi
autoritari (quanti morti in Cina?) e la leggerezza dei Trump sono tutte cose
che fanno comprendere che è il genere umano a dover ritrovare una sua
compattezza.
Intorno a che cosa però? Questo è difficile dirlo. Un certo umanesimo cristiano
ha ben ragione a segnalare che ciò su cui bisogna ritrovare compattezza è la
stessa idea di uomo. Uscirà fuori un nuovo uomo da questa pandemia?
Per il momento abbiamo la riduzione a uno dell’attenzione dell’umanità. Più
della metà della popolazione mondiale è rinchiusa in casa. E l’attenzione di
tutti è focalizzata su un unico tema, un unico punto: COVID–19! La maledizione
che ha colpito la terra a causa di una mescolanza di specie (dai pipistrelli
agli umani, passando per i serpenti) ha reso gli uomini UNO (quanto meno nella
paura; non sappiamo se anche nella speranza).
La lezione dell’Esodo è che la possibilità di ripensarsi daccapo era data dal
fatto che la presenza di Dio era divenuta tangibile ed era una presenza sinistra:
circolava la terribile profezia sulla morte dei primogeniti e per questa
ragione bisognava prepararsi adeguatamente. La presenza di Dio era minacciosa. Altro che chiese aperte e/o chiuse
… a Pasqua!
Salvati per servire
La Pasqua, nella sua prima celebrazione, fu una festa che esaltò la precarietà e il movimento, a differenza di ciò che diverrà in seguito la stessa festa: un banchetto senza patemi d’animo. Alle origini, la precarietà era segnata dalla presenza delle erbe amare e del pane non lievitato e il movimento era percepito come reale e con una duplice dinamica: quello che dava il nome all’evento, il passare oltre della piaga e quello della possibile ri–partenza del popolo.
Il secondo movimento, quello della ripartenza, merita la nostra attenzione. Si trattava di un movimento di liberazione. Nella Bibbia ci sono molti esempi di interventi di Dio che chiama i fedeli a uscire: Abraamo, Lot; gli esuli di Babilonia e gli abitanti della Babilonia apocalittica. In genere si tratta di uscire o avendo la testa a ciò che si attende ed è oggetto della chiamata – e della fede (la terra per Abraamo) oppure si esce perché si è spaventati per la rovina del posto in cui ci si trova (Lot; la Citta di Distruzione de Il Pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan).
In questo caso,
in Esodo 12, ma anche un po’ – almeno lo speriamo – per il coronavirus, ci sono
alcune differenze. Sicuramente c’era l’indicazione positiva di ciò che aspetta
il popolo. È un nuovo inizio e questo nuovo inizio implicava responsabilità:
Mosè aveva più volte detto al faraone che dovevano andare a servire il loro
Dio. Da ciò deriva l’immagine dell’ebreo attrezzato ed equipaggiato per
partire, agile perché senza il pane già lievitato e tutto teso al futuro.
Pietro l’apostolo nella sua prima Lettera raccoglierà questa dimensione della
Pasqua e la volgerà interamente in termini spirituali e non più fisici e
materiali
Perciò, dopo aver
predisposto la vostra mente all’azione, state sobri, e abbiate piena speranza
nella grazia che vi sarà recata al momento della rivelazione di Gesù Cristo.
Come figli ubbidienti, non conformatevi alle passioni del tempo passato, quando
eravate nell’ignoranza; ma come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi
siate santi in tutta la vostra condotta, poiché sta scritto: «Siate
santi, perché io sono santo» (1 Pt 1:13).
In questo
periodo si sente evocare spesso, pensando alla ripartenza in più fasi, il
dopoguerra e lo straordinario miracolo italiano del boom economico. Il rimando
e l’evocazione non possono essere più adeguati. Ma ci sono anche delle lezioni
da imparare. Che ne è stato della società nata dai sacrifici e dalle sofferenze
della Seconda Guerra Mondiale? Il capo della popolazione si è rialzato per
cercare nuovi valori oppure ha dato inizio a un ciclo di decadimento alla fine
del quale ci troviamo con il trionfo degli egoismi a tutti i livelli, fino alla
messa in crisi dell’idea che ha garantito la pace per settant’anni, l’idea
dell’Europa? L’immagine di un popolo che dopo aver chiuso le porte alla piaga,
che è passata–oltre, si mette in cammino per adorare, per celebrare e su questa
strada, sicuramente non facile, incontra un Dio (al Sinai) che si dispone ad
accompagnarlo con le sue leggi e la sua volontà è un’immagine che deve far
riflettere tutti quanti noi. Quale Dio abbiamo incontrato nel dopoguerra
miracoloso? E dove ci ha portati? Abbiamo bisogno, come Italiani, di riflettere
seriamente dove andremo, quando riapriremo le nostre porte, avendo una
macherina in mano. Già, perché non dimentichiamolo: il virus è ancora in mezzo
a noi.
Il ruolo del
sangue sugli stipiti
Ma c’è un
altro elemento della notte di Pasqua che non è un elemento dinamico, ma
statico. Non concerne il partire ma lo stare a casa. Il popolo resta in Egitto
e poi può partire grazie al sangue dell’agnello spruzzato sugli stipiti delle
porte chiuse. Israele poteva restare in mezzo all’Egitto a una sola condizione:
se si fosse messo al riparo del sangue dell’agnello.
Chi mastica un po’ di teologia sa bene che qui ci sono due enormi problemi: la natura e le ragioni ultime della distruzione che passa per le città d’Egitto e fuori dalle porte degli schiavi ebrei e, in secondo luogo, il ruolo e il simbolo del sangue. Il primo grosso problema è un classico dell’apologetica che si è riacceso anche in questi tempi: che relazione c’è tra Dio e l’epidemia? [Si guardi all’ultimo libretto di John Lennox, Dov’è Dio nella pandemia? (Adi Media); e anche a R. Nicole, Il Dio della Bibbia è un Dio violento?, GBU, 2018)
Il secondo è un tema che ha da sempre occupato lo spazio che unisce teologia e antropologia (da Girard alla nuova prospettiva su Paolo, passando per la querelle su espiazione e/o propiziazione) [Per questo tema si veda John Stott, La croce di Cristo, Edizioni GBU].
Ogni
qual volta viene ripetuto il racconto della festività pasquale sia nella Bibbia
ebraica sia nel Nuovo Testamento un elemento permane, a scapito di altri che
cambiano: il
riferimento al sangue. Quando i cristiani guardano alla Pasqua non possono fare
a meno di intravedere il ruolo del sangue
Per fede celebrò la Pasqua
e fece l’aspersione del sangue affinché lo sterminatore dei primogeniti non
toccasse quelli degli Israeliti. (Eb 11:28)
La presenza del sangue in Esodo 12 fa capire chiaramente che anche gli Ebrei
erano in pericolo. Non erano diversi dagli Egiziani. Questo è straordinario. Ma
come, non aveva detto Dio a Mosè che era per amore dei padri che li liberava?
Sicuramente; questo era vero. Ma la loro liberazione non era semplicemente un
fatto etnico. E non era neanche una necessità metafisica, nel senso che
“dovevano” essere salvati, punto e basta.
Spesso il popolo d’Israele, e in seguito anche le chiese cristiane, nella loro lunga
storia, hanno nutrito questo sentimento, appoggiandosi solo su una parte della
verità, l’elezione. Ma nella Bibbia l’opera di Dio non si confina solo a una
decisione unilaterale divina; necessita anche della soluzione [divina] del
problema che sta alla base stessa dell’elezione. Israele era stato scelto
perché Dio compisse la promessa fatta al rappresentante del genere umano (Adamo
in Genesi 3), ma anche la promessa fatta ad Abramo della benedizione di tutte
le famiglie della terra (Genesi 12). Dio non elegge solo; Dio redime e spinge a
servire. E lo strumento che la Bibbia indica come scelto da Dio è lo “spargimento
di sague”: nell’antichità in maniera visibile (i sacrifici animali); a un certo
punto della storia in maniera personale e irripetibile (la morte di Gesù in
croce); oggi in maniera simbolica (le rappresentazioni “eucaristiche”). Qui,
più che spiegare (per esempio l’associazione tra sangue e vita), forse conviene
lasciare la parola direttamente ai testi biblici che sono più eloquenti:
In
lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, il perdono dei peccati
secondo le ricchezze della sua grazia, (Ef 1:7)
eletti
secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, a
ubbidire e a essere cosparsi del sangue di Gesù Cristo: grazia e pace vi
siano moltiplicate. (1 Pt 1:2)
Il sangue aveva
poi, nell’antico racconto di Esodo, un valore semiotico. Era un segnale per il
Signore. Non aveva un potere in sé, non veicolava alcuna grazia. Esso parlava:
diceva che in quella casa era stato immolato un agnello,
che c’era gente che aveva ubbidito e si era sottomessa alla volontà del Signore;
gente che chiedeva a Dio di mantenere la sua promessa e di passare oltre;
gente che era pronta a partire per seguire il Signore.
Essi
cantavano un cantico nuovo, dicendo: «Tu sei degno di prendere il libro e di
aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai acquistato a Dio, con il tuo
sangue, gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap
5:9)
Il sangue era
una protezione, uno scudo, un riparo. Dio avrebbe fatto giustizia di tutti gli
dei dell’Egitto (v. 12) e questo naturalmente significava che la sua giustizia
si sarebbe abbattuta su coloro che adoravano tali dei, sugli idolatri. Un
peccato gravissimo, l’idolatria, che portò faraone a pensare che non esistesse
nessuno al di fuori di se stesso. L’idolatra contrappone se stesso all’unico
vero Dio. Per questo Dio fa giustizia e punisce gli idolatri. Qui abbiamo
una rivelazione senza infingimenti di Dio, una rivelazione che ci spinge a
chiedergli come possiamo essere protetti. Non siamo in una disgrazia naturale
nella quale credenti e non credenti sono presi insieme, soffrono insieme (come
con il coronavirus). No qui siamo alla presenza dell’ultima e più grave realtà
dell’essere umano: il giudizio di Dio. Per carità, evitiamo le geremiadi che
tendono a localizzare e temporalizzare il giudizio in questa o quella sciagura.
Ricordiamoci di Giobbe … e dei suoi amici!
Il sangue di
una vittima ci mette al riparo: dice a Dio che deva passare oltre; qualcuno ha
pagato.
Tanto
più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo
di lui salvati dall’ira (Rom 5:9)
Nel racconto
dell’Esodo il sangue fu spruzzato sulle parti più esterne di ciò che rappresentava
il rifugio della famiglia raccolta, la porta, gli architravi; poi veniva
spruzzato sulla parte esteriore dell’altare del luogo santissimo ebraico. Ciò
che per primo, fisicamente, incontrava la realtà esterna veniva santificato dal
sangue. Con l’arrivo della vittima per eccellenza, con l’Agnello di Dio che è
stato immolato, la purificazione con il sangue sarà più in profondità, e
finirà. Niente più sacrifici.
avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di
fede, avendo i cuori aspersi di quell’aspersione che li purifica da una
cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. (Eb
10,22)
Gesù, il mediatore del nuovo patto e al sangue dell’aspersione
che parla meglio del sangue d’Abele (Eb 12:24)
Restiamo a casa e limitiamo le nostre libertà.
Restiamo a casa perché intuiamo che ci dobbiamo proteggere.
Restiamo a casa e presagiamo la ripartenza, magari tutti uniti.
Restiamo a casa e intuiamo che dvremmo ripartire con il piede giusto (e la mascherina in mano)
Restiamo a casa e scopriamo che per la stessa nostra esistenza dobbiamo qualcosa a qualcuno.
In Esodo 12 gli antichi Israeliti sapevano che il sangue di un agnello li avrebbe fatti scampare. Già, l’agnello!
Un agnello per la vita di un uomo (Abramo e Isacco nel sacrificio evitato, Genesi 22).
Un agnello per una famiglia (Esodo 12).
Un agnello (una vittima) per un popolo (il Giorno delle Espiazioni ebraico, Levitico 16).
Un agnello per il mondo: “Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Giovanni 1:29)