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Non respiro

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Il respiro, il prodotto dell’alternarsi dei movimenti che il nostro corpo compie per inspirare ed espirare l’aria da cui traiamo l’ossigeno, è stato al centro di vicende che hanno segnato un tratto fondamentale della storia dell’umanità. Un movimento impercettibile che compiamo continuamente senza farci caso ha attirato potentemente la nostra attenzione e legando al suo impercettible flusso la stessa esistenza del mondo degli uomini.

 

Polmonite interstiziale!

Il primo fenomeno che ha portato all’attenzione il respiro è quello dell’infezione provocata dal nuovo coronavirus, il COVID–19; l’infezione non causa solo lo stato patologico che negli ultimi mesi, quando diagnosticato, suonava come una sorta di condanna a morte, la “polmonite interstiziale” appunto, ma provoca anche un’insufficienza respiratoria che necessita del ricorso, nei casi più seri, a cure mediche raffinate.
Molte, tante volte, medici e operatori sanitari hanno udito il grido, o il sussurro “non respiro”, nel mentre erano indaffarati intorno a una postazione dove giaceva un corpo in cerca di aria, e prima che il paziente scomparisse nel sonno della terapia, quando non, in centinaia di migliaia di casi, nel vuoto della morte! L’ultimo grammo di aria era utilizzato per segnalare la perdita dell’aria, del fiato, del respiro.

Tutti questi termini (respiro, fiato, etc.) da un lato richiamano gli scenari asettici di un reparto di terapia intensiva, dove si concentra il meglio della teconologia medica, e dall’altro lato richiamano ancestrali credenze relative a ciò che si accompagna al fiato al respiro: l’anima, lo spirito, la vita (neshama).
Il virus ci ha rivelato che laggiù, nella profondità delle cavità polmonari, là dove avviene lo scambio tra ossigeno e anidride carbonica, gli uomini ricevono un “insulto” (è questo il termine tecnico) che inquina la fonte del loro respiro. Un qualcosa di estraneo si è parassitariamente annidato nelle nostre fibre e noi … “non respiriamo”. I corpi reclini sui lettini dei reparti covid sono una plasica rappresentazione di membra alla ricerca del soffio vitale.

L’espressione “Non respiro”, sussurrata a un infermiere o in collegamento con un cellulare con all’altro capo un parente, è una previsione sull’imminente perdita del legame tra la propria identità e il posto che occupa questa identità, tra l’anima e il corpo.

I polmoni infettati dal virus e che estinguono il respiro sono allora una potente metafora dell’esistenza che si confronta e che lotta con l’imponderabile, con la sua fragilità e finitezza («la vita è un soffio», esclamava il sofferente Giobbe). Chi sta intorno fa di tutto affinché il respiro non si spenga. Possiamo sussurrare “non respiro”. Qualcuno interverrà.

La brutta esperienza dell’epidemia che stiamo vivendo ci fa pensare al nostro respiro come un qualcosa da proteggere, tutelare. E allora la mascherina è divenuta la nuova icona di un’umanità che tiene a se stessa, a ciò che espira e a ciò che inspira.

 

George Floyd: “Non respiro”!

Un’altra catastrofe ha investito il respiro degli umani; il suo epicentro non era nelle profondita oscure delle cavità polmonari; non aveva a che fare con il microscopico ma era ben evidente, tanto da occupare per alcuni minuti un video adatto alla trasmissione sui social. La si è intravista, questa catastrofe, a terra, in una strada di Minneapolis. A essere in difficoltà era la parte alta del sistema respiratorio, addirittura quella esterna, il collo, perché su di esso premeva un ginocchio, per ben nove, lunghi minuti. Non era una patologia ma una efferatezza; non una condanna a morte passibile di essere rinviata ma un’esecuzione vera e propria.
Lì non c’era il male naturale; non c’er finitezza. Quell’episodio è un’icona del male morale, del male compiuto, operato, messo in atto, in maniera schiacciante da un essere umano su un altro essere umano. Il respiro è stato tolto. In maniera ancor più brutale del modus operandi di un virus. In quelle circostanze, con quella pigmentazione della pelle, puoi anche gridare “non respiro” … non ti aiuterà nessuno.

Quel respiro che si è arrestato a Minnepolis ha innescato un’onda d’urto tremenda, cha fa trattenere il fiato alle fondamenta delle società occidentali: il respiro di alcune vite non importa! Può essere strozzato, chiuso, impedito, soffocato, fermato in gola.
Troppe volte è accaduto; adesso basta! La stessa storia sembra non respirare più per i sussulti dell’iconoclastia.

Anche questa vicenda “respiratoria” assume una portata metaforica universale: gli uomini non sono solo alle prese con l’imponderabile che “insulta” la propria condizione interiore; sono anche alla mercè, schiavi, messi sotto dalla violenza che li strozza, reciprocamente; qualcuno più degli altri, ma poi tutti insieme: abbiamo tutti le mani intorno alla gola di qualcuno, il collo schiacciato da qualcun altro, il ginocchio che preme su un altro ancora.

Il respiro è divenuto una sorta di cifra antropologica capace di illuminare una condizione umana universale fatta di fragilità e prevaricazione; ma forse anche qualcosa in più.

Nel primo caso si è detto da parte di alcuni filosofi (Agamben su tutti) che la reazione al respiro messo in pericolo dal virus consiste nella rivalsa della parte biologica dell’essere umano. Vogliamo sopravvivere. Ma proviamo a incrociare questo dato con il secondo “non respiro”: dov’è la biologia in tutta la pressione del ginocchio sul collo di un essere umano? Affinché una parte dell’umanità, decida che un’altra parte, magari dal colore della pelle diverso, non abbia diritto al respiro è necessario molto di più della semplice biologia. È necessaria la cultura perversa (ahimé fomentata anche da stupide e insulse teologie cristiane) di un essere che pensa di superare e gestire i limiti del bios; i quali già in sé, probabilmente, avrebbero l’antidoto contro il soffocamento di un altro essere umano.

Fragilità e prevaricazione: queste due espressioni del “respiro” che si dilegua rammentano la condizione generale dell’essere umano. C’è un qualcosa nel profondo delle nostre fibre che rende insufficiente il nostro respiro e minaccia la nostra esistenza. E come se questo non bastasse, viviamo in un contesto in cui spesso siamo schiacciati dalle circostanze e dai nostri simili.

Ci manca il respiro e ci tolgono il respiro.

Ci sentiamo infettati e siamo strangolati.

Chi ci salverà?
La dimensione sociale è importante. Dobbiamo rafforzare i sistemi sanitari e dobbiamo approdare alla giustizia sociale. Ma non è detto che le due cose si incrocino e si sviluppino armoniosamente, … senza un’assicurazione! O forse, anche una raccomandazione per un posto in terapia intensiva!

I due scenari che abbiamo evocato non si allontanano dalla nostra testa, anche quando cerchiamo di porvi riparo sul piano sociale.
Il respiro flebile, quintessenza della nostra esistenza, non sarà mai al sicuro: siamo un fiato.

 

Il cristianesimo è una via di vita in cui ogni respiro ha il suo valore; lo si potrebbe dedurre anche dal controfattuale secondo il quale a Uno solo è permesso di richiamare lo spirito, perché è a lui che esso deve tornare in quanto è lui che lo ha dato (Qo 12:9), che lo insuffla (Gen 1).
Il cristianesimo recepisce l’insegnamento della Bibbia che ricorda che a tutti noi, in ragione di una visione precisa dell’inizio della vita umana (creata), è fatto obbligo di «essere i guardiani di nostro fratello» (Gen 4). Anche di colui (Caino) che, per aver rifiutato questa vocazione, è giunto all’estremo opposto di distruggere l’immagine di Dio in un altro uomo (Abele). Siamo infatti guardiani anche di chi porta il segno dell’assassino.
Figuriamoci poi per chi ha usato trenta dollari di buoni spesa falsi!

 

Il cristianesimo è messo a dura prova da queste due forme di sofferenza del respiro.
Nel primo caso, l’insulto portato ai polmoni non risparmia i cristiani e spinge, coloro che portano il nome di cristiani, a interrogarsi e chiedersi quale sia il vero, autentico, unico conforto che essi hanno nella vita e nella morte. A fare chiarezza con se stessi.

Nel secondo caso, il respiro soffocato in gola a un altro essere umano tradisce che di cristianesimo lì non si tratta. Il messaggio cristiano è lontano, tradito, soffocato prima nelle proprie coscienze.

 

Il cristianesimo si propone però di farci percorrere le vicende di Dio per condurci al loro centro, al vangelo, dove troviamo un’altra vicenda drammatica concernente il “respiro”. Gesù di Nazaret è un altro esempio di uomo che ci viene presentato nell’atto di “rendere lo spirito”.
È morto per asfissia, il crocifisso!
E in quella morte vediamo la passione di Dio per tutte le morti, la passione di Dio per tutti i respiri che svaniscono; e vediamo anche la madre di tutti i soffocamenti: quello di chi volontariamente si lascia crocifiggere e soffocare. Ma perché?

Il canto del Servo sofferente (Isaia 53) ci suggerisce una traccia per trovare una risposta:

«Disprezzato e abbandonato dagli uomini,
uomo di dolore, familiare con la sofferenza,
pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia,
era spregiato, e noi non ne facemmo stima alcuna.
Tuttavia erano le nostre malattie che egli portava,
erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato;
ma noi lo ritenevamo colpito,
percosso da Dio e umiliato!
Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni,
stroncato a causa delle nostre iniquità;
il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui
e mediante le sue lividure noi siamo stati guariti».

 

 

 

Il fine vita ai tempi di COVID–19

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Sul sito dell’UAAR viene riportata la percezione della popolazione italiana in merito a un tema caldo della bioetica, l’eutanasia:
Tutti i sondaggi condotti negli ultimi anni attestano che la maggioranza degli italiani è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia. Secondo un sondaggio Swg del 2019, i cittadini favorevoli a una legge sarebbero ormai il 93%.

Si tratta di un’affermazione che risente in modo particolare delle ultime mosse nel campo della bioetica del fine vita nell’arco del 2019, poco prima che scoppiasse la pandemia. Anzi, si potrebbe dire che per poche settimane non si è verificata una vera e propria sovrapposizione estremamente significativa nel campo della bioetica.
Infatti, mentre in Cina si cominciava a parlare di un virus sconosciuto che si agitava dalle parti di Whuan, la Corte Costituzionale depositava il 22 novembre le motivazioni della sentenza del 25 settembre dello stesso anno relativa alla depenalizzazione del reato di assistenza al suicidio (art. 580 del c.p.) ritenendo una parte di quell’articolo incostituzionale.

La Corte così concludeva il percorso iniziato un anno prima con l’Ordinanza del 25 settembre 2018 con la quale segnalava il vulnus legislativo relativo alla questione del suicidio assistito, da molti ritenuto il primo passo verso forme di eutanasia.
Il caso che aveva scatenato questa produzione di giurisprudenza era quello di DJ Fabo, recatosi in Svizzera, accompagnato dall’eponente radicale Marco Cappato per essere aiutato nel suo proponimento di togliersi la vita. Marco Cappato al ritorno dalla Svizzera si era autodenunciato e aveva avviato l’iter delle sentenze che arrivava a conclusione nel novembre dello scorso anno.

In maniera quasi fatidica due vicende relative al fine vita stavano per incrociarsi per ritrovarsi travolte dallo tzunami della pandemia che portava prepotentmente all’attenzione degli italiani la conclusione dell’esistenza di migliaia di connazionali (con una media dell’età secondo l’ISS superiore agli ottant’anni) immortalata dalle terribili immagini dei camion dell’esercito pieni di bare.

Da un lato una dimensione sofferente che a “certe condizioni” può portare legittimamente un soggetto a chiedere di essere aiutato, assistito a interrompere la propria vita:

Il riferimento è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Dall’altro lato una dimensione sofferente come quella delle migliaia di vite che si ritenvano custodite e protette nelle RSA e che contro la volontà dei soggetti implicati in esse, in primis i familiari, viene brutalmente messa a confronto con il virus e, nella maggior parte dei casi, strappata via. Dopo che, peraltro, nel momento dell’emergenza più acuta, aveva fatto nascere un altro problema bioetico quello opportunamente messo in luce dalla Commissione bioetica delle Chiese Battiste, Metodiste e Valdesi d’Italia con il documento dal titolo: “Emergenza Covid–19 e criteri di accesso alle terapie. Una riflessione protestante”: come prendere decisioni corrette di fronte alla mancanza di risorse sufficienti per rispondere alle esigenze di tutti in un momento di emergenza.

La morte cercata, la morte esorcizzata e combattuta si sono quasi incrociate sul suolo della nostra nazione, mostrando forse in maniera provvidenziale, per la prima volta, l’aspetto relativo e non assoluto delle acquisizioni bioetiche più avanzate. Quello che sembrava un trend quasi inarrestabile e che ci voleva convincere che il modo più avanzato e confacente alla raggiunta matura età dell’uomo occidentale nei confronti della morte fosse quello di venirci a patti, invitarla e prepararle la strada “a certe condizioni” ora deve fare i conti con lo sconforto nazionale nei confronti della generazione che volevamo proteggere dalla morte, che credevamo protetta fino al suo approssimarsi naturale, e che invece se n’è andata via mestamente, senza conforto e nella solitudine, su un camion grigioverde.

E a questo si aggiunge forse, speriamo, il senso di colpa collettivo di una nazione che ha abbassato la guardia nei confronti dell’uso e dell’allocamento delle risorse da dedicare al Sistema Sanitario Nazionale; Sistema ridotto a terra di conquista della corruzione degli apparati corrotti dello stato nonché campo di produzione di ricchezza del malaffare.

Anche questo, un altro classico tema della bioetica contemporanea.

La speranza, in questo incrocio di pulsioni sociali di segno contrario che si sono quasi scontrate in questo scorcio della nostra storia, è che quel 93% del gradimento per qualche forma di eutanasia scenda, si riduca, prendendo atto che è insopportabile lo spettacolo del piano inclinato del destino che quando comincia a farvi scivolare le vite degli esseri umani sembra non più controllabile e arrestabile.

Quale riflessione per i cristiani? Qualcuno diceva che il fine vita è uno dei contesti privilegiati in cui si manifesta la tensione tutta biblica e teologica tra la provvidenza divina – i cristiani credono che sia Dio a detenere la vita e la morte – e la solerte azione dell’uomo tesa a curare e ritardare non solo in vista della guarigione ma anche come rimedio palliativo per la sofferenza con cui la morte spesso si fa annunciare:

Questa tensione teologica fornisce le prospettive e i limiti nel campo della morte e del morire per il fatto che essa preclude le risposte radicali alla questione. Per esempio, essa sembra proibire l’eutanasia attiva che accentua la responsabilità della cura ma nega la provvidenza [eutanasia pietosa]. Allo stesso modo, la stessa tensione mette in discussione il rifiuto di porre fine in alcuni, garantiti casi ai trattamenti medici, una posizione questa che accentua la provvidenza ma nega il prendersi cura. La tensione creativa tra la provvidenza divina e il prendersi cura ci aiuta “a trovare un’equilibrata via di mezzo tra il vitalismo medico (che preserva la vita a tutti i costi) e il pessimismo medico (che uccide quando la vita sembra frustrata, ai limiti e senza alcuna utilità” (Hollingher, 2001).

Fotografia di Gabriele Magnano

Protesto, perciò credo

di Miroslav Volf

Le catastrofi nel mondo ci sono sempre state e disastri localizzati sono sempre stati presenti. Anche le pandemie non sono ignote all’uomo e, anzi, questa legata al COVID-19, almeno per ora sembra essere una delle meno tragiche nei suoi risultati di vittime. Basterebbe vedere cosa è successo durante l’influenza spagnola subito dopo il Primo Conflitto mondiale per capire come la portata odierna sia più limitata, anche se ugualmente tragica.
Quando ci si trova di fronte alla tragedia del male e della morte talvolta il cristianesimo sembra essere sotto scacco. Come ci ricorda Blocher, nel suo Il male e la croce (pubbblicato dalle edizioni Gbu in italiano, https://edizionigbu.it/libreria/il-male-e-la-croce) il cristianesimo non può rispondere al quesito in maniera semplicistica e ostentando un facile ottimismo. La presenza del male nel mondo, infatti, è rappresentato dalla stessa Croce.
Colui che crede in Dio spera nel Cristo che asciugherà le lacrime, ma, allo stesso tempo si interroga, e, come ci ricorda il testo biblico, si lamenta per la sua condizione chiedendo conforto al Dio in cui crede.
Qualche settimana fa il teologo anglicano Tom Wright sull’autorevole rivista Time, ci ha ricordato il diritto al Lamento che ha il credente ed anche al non dover dare per forza delle risposte.
Sedici anni fa l’umanità del sud-est asiatico fu colpita da un disastroso Tsunami, un evento “naturale” che portò via migliaia di vite. In quell’occasione il teologo americano-croato Miroslav Volf si interrogò sull’accaduto in questo breve scritto, pubblicato nella rivista Christian Century e poi riproposto nel libro Contro la marea, che le eduzioni Gbu hanno in corso di pubblicazione.
Riproponiamo questo articolo, proprio perché in questi giorni lo stesso Volf lo ha riproposto e perché ci sembra di stringente attualità. (Valerio Bernardi

Protesto, perciò credo

Ad una cena in onore di un ospite importante, ero seduto vicino ad una signora che lavorava per la  CBS. Lo tsunami aveva appena colpito la costa di Sumatra con tutta la sua forza distruttiva, e stavamo parlando della grandezza della desolazione, la grave condizione delle vittime e la follia dell’evento. Sapeva che ero un teologo, così ha affrontato il problema di Dio. “Dove era Dio”, disse bruscamente, “Come si può credere in un Dio buono di fronte a tale sofferenza?” E qui io ho commesso il mio errore.

La cosa buona era che, suppongo, l’errore non fosse tanto cattivo quanto poteva sembrare. Potevo tentare di giustificare Dio. Dopo tutto, Dio era sotto attacco, ed io ero un teologo – ed un teologo che trova Dio profondamente attraente, anche se talvolta totalmente sconcertante e perturbante. Ma mi sono ricordato del terremoto che aveva distrutto Lisbona nel 1755 ed il Candido di Voltaire, un devastante e spiritoso attacco nei confronti dell’ottimismo filosofico e teologico e scritto parzialmente a risposta. Due terzi di Lisbona erano stati distrutti e circa trentamila persone erano morte, molti a seguito di un maremoto e di un incendio che avevano seguito il terremoto. Era il giorno di Tutti i Santi, e “le chiese, con le candele che bruciavano, si sbriciolarono sui fedeli”. I bordelli furono quasi tutti risparmiati, come Voltaire faceva argutamente notare.

Da quando ho letto il Candido, non sono stato capace di portare me stesso a cercare di difendere Dio contro il carico di impotenza o la mancanza di attenzione riguardo i mali orribili. Non riuscivo a rendere plausibile a me stesso affermazioni quali “qualunque cosa succeda, è giusta” o “la malattia parziale è per  il bene universale”. Non c’è voluto molto per giungere alla conclusione che un tale argomento dovesse essere sbagliato.  Può darsi che sarò persuaso da ciò una volta che la storia avrà fatto il suo corso e Dio causerà redenzione e dannazione, e sarò capace di pensare con una mente chiara un mondo reso unitario dall’interno. Quello è ciò che Martin Lutero ha suggerito che sarebbe accaduto nel suo trattato Sul servo arbitrio. Ma qui ed ora, invischiato come sono in un mondo in cui la sofferenza si assomma ad altra sofferenza nel corso di una storia senza fine, trovo tale argomentazione improbabile, zoppicante e persino un po’ irritante. La bontà della interezza sembra terribilmente astratta e senza alcuna plausibilità o consolazione per un essere umano colpito dalla sofferenza. “Quando la morte coronerà le malattie dell’uomo sofferente, che grande consolazione sarà essere mangiato dai vermi!” scriveva Voltaire con il suo caratteristico sarcasmo.

Non ho fatto l’errore di giustificare Dio, in due minuti o meno. Ma ho cercato di fare qualcosa di ugualmente complesso, sebbene più plausibile. Ho suggerito alla mia commensale che una reale protesta contro Dio di fronte al male presuppone l’esistenza di Dio. In quanto siamo disturbati dalla forza cieca e bruta degli tsunami che spengono le vite delle persone, incluse quelle dei bambini che erano stati attirati, come se ci fosse qualche sinistro architetto, sulle spiagge dai pesci lasciati esposti sulle secche perché le acque si erano ritirate poco prima che arrivasse il maremoto. Se il mondo è solo questo, ed il mondo con le placche tettoniche in movimento è il mondo in cui è capitato di vivere, cosa c’è da lamentarsi? Dobbiamo fare cordoglio, abbiamo perso qualcosa di terribilmente caro. Ma non ci possiamo realmente lamentare e non possiamo certamente protestare in maniera legittima.

L’aspettativa che il mondo debba essere un posto ospitale, senza devastanti contrattempi, è collegata alla credenza che il mondo debba essere fatto in una certa maniera. E quella credenza –distinta da quella per cui il mondo è così come è – è in sé stessa collegata alla nozione di creatore. E ciò ci porta a Dio. È Dio che rende possibile la nostra protesta nei confronti del male che è nel mondo. Ed è Dio contro cui protestiamo. Dio è sia il fondamento che l’obiettivo del nostro protestare. In maniera quasi paradossale, noi protestiamo con Dio contro Dio. Come posso credere in Dio quando lo tsunami colpisce? Protesto, perciò credo.

Era un errore, comunque, cercare di portare avanti questo ragionamento durante quella cena. Non è che sono giunto a pensare che il ragionamento non sia valido. E’ un buon ragionamento, anche se ti lascia con una fede che sembra in contrasto con sé stessa, con un Dio che è difficile da abbandonare ma anche difficile da abbracciare. Non era neanche il fatto che la mia interlocutrice non fosse capace di seguire il ragionamento, anche in una forma così condensata e pronunciato tra un’insalata ed il primo. Era abbastanza intelligente per tutto ciò. Tuttavia non lo avrei dovuto offrire, non allora e lì, e non come prima cosa da dire sullo Tsunami.

“Come si può credere in un buon Dio di fronte ad una tale sofferenza?” La risposta a questo problema dipende in parte dall’altra questione che il mio interlocutore mi aveva chiesto quella sera. “Dove era Dio?”. Il mio errore consisteva nel fatto che avevo cercato di rispondere alla prima domanda senza rispondere alla seconda. Proprio come Dio era presente in maniera misteriosa nel Crocifisso, così Dio era presente nel mezzo della carneficina dello tsunami, ascoltando ogni sospiro, raccogliendo ogni lacrima, risonante con ogni cuore tremante colpito dalla paura. E proprio come Dio è presente nel Risorto, così Dio era in ogni mano che aiutava, in ogni decisione di sacrificare la propria perché un altro potesse vivere. Dio soffriva e Dio aiutava. So anche che, simultaneamente, Dio era anche assiso sul Suo trono celeste. Perché l’onnipotente e misericordioso Uno non fa qualcosa prima che lo tsunami colpisca? Non lo so. Se lo sapessi, potrei giustificare Dio. Ma non posso. Questo è il motivo per cui sono ancora turbato dal Dio verso cui sono immensamente attratto e che non mi lascia andare.

Mirislav Volf, Teologo protestante croato che da molti anni vive negli Stati Uniti, è Henry B. Wright professore di teologia e Direttore del Yale Center for Faith and Culture presso l’Università di Yale.

Foto di Gabriele Magnano

Complottismo e coronavirus

di Ed Stetzer

Pubblichiamo qui in versione integrale il testo di Ed Stetzer (già pubblicato da un altro network evangelico in versione ridotta) sulle teorie complottiste e le fake news che si diffondono sempre di più nel mondo evangelico. A proposito di questo problema il Dirs aveva già pubblicato a inizio pandemia il contributo di Nicola Berretta che parlava del problema (https://dirs.gbu.it/wordpress/tre-domande-a-nicola-berretta-su-virus-pandemie-e-contagio/ ).

Anche Berretta aveva notato che tra i cristiani evangelici sembrava esserci una maggiore predisposizione a proposito delle fake news: questo è vero soprattutto negli USA, ma il fenomeno si è diffuso anche in Italia. Stetzer ricorda che l’ingenuità non è una virtù cristiana e che, talvolta, i credenti lo fanno con un certa ingenuità, cercando fonti alternative rispetto ai media mainstream, visti spesso come contenitori con valori alternativi alla propria fede. La diffusione dei social media, di cui stiamo anche vedendo gli effetti positivi in questo periodo di isolamento, ha portato anche alla vere e proprie fabbriche di notizie false che servono ad influenzare l’opinione pubblica ed anche la nostra. L’A. dell’articolo ci richiama alla priorità del Vangelo e del suo annuncio, ma anche dell’Amore per la Verità che dovrebbe portarci sempre a controllare quello che trasmettiamo ed a comprendere che la nostra agenda va al di là di quella di stigmatizzare il male nel mondo, senza cercare di redimerlo. La nostra speranza è che la lettura di questo articolo, come degli altri materiali che stiamo proponendo in questo periodo siano un valido ausilio e risorsa per chi voglia un’informazione corretta e documentata. In un mondo di post-verità come è quello odierno, conviene appellarsi alla Verità del Vangelo ed ad essa conformarsi anche quando diffondiamo notizie che non provengano dalla Bibbia.  (Valerio Bernardi)

 

L’attuale pandemia globale ha creato una eccezionale fioritura di teorie complottiste. Purtroppo, i Cristiani sembrano essere ingannati da queste teorie in maniera sproporzionata. Ho anche scritto precedentemente che, quando i Cristiani mentono, bisogna che si pentano di queste bugie. Condividere fake news ci fa sembrare ingenui e danneggia la nostra testimonianza. Abbiamo visto che nell’ultima elezione le fabbriche di troll si sono concentrate sui cristiani evangelici conservatori. E ora di nuovo ci troviamo nella stessa situazione.

Che fare adesso?

In primo luogo, bisogna parlare, in particolare a coloro che sono stati di nuovo ingannati e dirgli con amore: “Bisogna andare a fonti attendibili”. I feed di notizie dei social media non sono una fonte affidabile. Questo è il motivo per cui abbiamo creato www.coronavirusandthechurch.com, per fornire informazioni credibili ai pastori. Ma vi è un’abbondanza di fonti di notizie attendibili che in genere provengono da organi che non hanno precedenti nello smerciare teorie complottiste. In secondo luogo Dio non ci ha chiamato ad essere facilmente ingannati. La creduloneria non è una virtù cristiana. Credere e condividere teorie complottiste non onora il Signore. Potrebbe farci sentire meglio come fossimo esperti, ma può finire che si faccia del male agli altri e può danneggiare la nostra testimonianza. Tuttavia noi abbiamo a che fare con una nuova ondata di teorie complottiste. Si guardi alla lista su Wikipedia, o le si cerchino usando alcune parole chiave. Sono tanto diverse quanto strane. Ed i cristiani le stanno condividendo. Di nuovo.

La diffidenza verso i media ed il governo

Comprendo la diffidenza di molti cristiani nei confronti dei media e del Governo. Il Pew Research ha segnalato che molti di coloro che preferiscono credere che il virus sia stato creato nel laboratorio sono Repubblicani, coloro che tendono ad essere più religiosi e più diffidenti nei confronti del governo.

Comunque, questa diffidenza porta spesso i credenti a diventare più creduloni, piuttosto che più perspicaci.

La Parola di Dio ci chiama ad essere “saggi, non stolti” (Ef. 5, 16).

Bisogna che diveniamo perspicaci e riflessivi nelle nostre credenze ed in ciò che condividiamo con gli altri.

Se qualcuno vuole credere che qualche laboratorio segreto abbia creato il Covid-19 come arma biologica, e che ora tutti lo stanno coprendo, non lo posso fermare. Se qualcuno vuole credere ad una delle decine di teorie complottiste che stanno già circolando, questa è sua responsabilità. Ma se si crede in ciò, cosa si farà quando le persone inizieranno a credere che il vaccino è anche parte di questa cospirazione?

Allo stesso modo vediamo alcuni leader cristiani eccitati all’idea di essere perseguitati se si ignorano le attuali linee guida e si cerca di riunire un migliaio di persone per il culto durante la pandemia. Abbiamo visto qualche pastore fare uno spettacolo di sé a Pasqua quando dovrebbe rendere spettacolo molto più Gesù.

Ci sono dei problemi? Certo, alcuno sindaci ed un governatore o due hanno fatto e detto delle sciocchezze. Queste azioni sono già state portate davanti al giudice. In una crisi globale, alcuni esagerano ed altri gli rispondono e poi ci sono ancora ci sono le reazioni. Questa non è una cospirazione voluto dallo stato in segreto.

E’ vero che la Cina non è stata né di aiuto né trasparente e occorre che siano chiesti ulteriori dettagli. Domande legittime possono e devono essere chieste (e sono state chieste!) ma ci sono sbalorditive e bizzarre teorie complottiste sulla guerra biologica, su un piano di vaccinazioni malvagio, complotti per abolire la libertà religiose, torri per la trasmissione del 5G che diffondono il virus e così via.

Riempiono i social media nei feed di molto che si identificano come Cristiani. Di nuovo.

Uno dei motivi per cui ho scritto Christians in the Age of Outrage: How to Bring Our Best When the World Is at Its Worst (I cristiani nell’età dell’indignazione: come tirar fuori il nostro meglio quando il mondo è al suo punto peggiore) è perché i cristiani stanno cominciando ad essere indignati per cose che non sono vere.

Il risultato finale è essere facilmente ingannati ed aderire ad idee che possono divenire reali minacce, specialmente quando si sta cercando di sviluppare un vaccino che può portare un sostanziale aiuto alle nostre comunità. Noi che riconosciamo Gesù come nostro Signore dovremo far meglio. Molto meglio.

Dare falsa testimonianza                                                                                                                  

Nel 2017, ho scritto un articolo intitolato I cristiani si pentano (si pentano) spargere teorie complottiste e fake news: è dare falsa testimonianza”. In quell’occasione parlavo della cattiva abitudine di diffondere complotti non provati, la questione che affrontavo allora deve essere affrontata di nuovo ora.

Troppi cristiani credono che “tutto va bene” in alcune guerre e, in quell’articolo, mettevo in guardia dal non violare l’ottavo comandamento di Es. 20:16 sul dare falsa testimonianza. Non siamo condotti dalla paura o dall’ira, ma dal desiderio di “pronunciare la verità nell’amore” come Paolo ha detto in Ef. 4:15.

Diffondere speculazioni non provate è dare falsa testimonianza ed ancora credo che dobbiamo pentirci se siamo stato portatori di tali testimonianze. Bisogna che passiamo più tempo ad esaminare la parola di Dio e meno tempo nell’essere influenzati dai troll e dai clickbait nei social media.

Non è un errore che alcune delle stesse persone che hanno diffuso il complotto del Pizzagate e quello dell’omicidio di Seth Rich che sono stati discreditati, sono tornati a spargere complotti sul coronavirus. Cerchiamo di far sì che i cristiani non siano tra gli ingannati non diffondendo tra di noi quegli inganni.

La nostra testimonianza è colpita

Pensateci.
A meno che non si pensi che il Presidente Trump, i Repubblicani ed i Democratici nel Congresso, i media e la comunità scientifica sono tutti in combutta tra di loro (un vero salto della fede), ci si dovrebbe sentire in imbarazzo quando si diffondono complotti sul Coronavirus. Questi vasti complotti ci dovrebbero fare ammettere che anche il Presidente Trump sapeva che era un’arma batteriologica, che è parte del piano porre fine alla libertà religiosa, pianificando di usare un potenziale vaccino come marchio della bestia e in qualche modo il 5g ha a che fare con tutto ciò. (Certo è tutto qui, lo si può trovare sul web ed in troppi feed di social media dei cristiani).

Non ha alcun senso, se non per coloro che si fanno facilmente ingannare. Se  insistete ancora nel diffondere tali informazioni false, potreste pensare a togliere dalla vostra bio l’etichetta di Cristiani in maniera tale che il resto di noi non deve condividerne l’imbarazzo?

Arrecare danno

Per farla breve, arrecate danno a voi stessi ed alla vostra comunità. Pensate di distinguervi dagli altri ma in realtà non lo fate.

Ancora più importante è il fatto che danneggiate la nostra testimonianza e quella della vostra chiesa quando porgete attenzione a teorie e speculazioni non accertate, piuttosto che alle buone notizie che il nostro Signore ci ha comandato di proclamare.

Come ha twittato Austin Jones, “La settimana scorsa il mio feed di Facebook era pieno di gente che postava assurde teorie complottiste sul Covid, seguito da post sull’evidenza della resurrezione. Non penso che comprendessero il messaggio che stavano in realtà inviando”.

Veramente. 

Gesù nelle sua ultime parole sulla terra in Atti 1:8 ci ha promesso che riceveremo il potere dello Spirito ed renderemo testimonianza di Gesù. Non vi occorre il potere dello Spirito Santo per essere scriteriati, e non state testimoniando dell’opera salvifica del nostro Signore diffondendo complotti.

Sono grato che moltissimi pastori e leader di chiesa e le loro chiese hanno usato questo periodo fuori dall’usuale non per diffondere teorie complottiste, ma per proclamare Cristo, non per nutrire le proprie paure, ma per servire la propria comunità.

Continuiamo a esortarci reciprocamente alle buone opere, stando fermi nella verità e rifiutando ciò che è falso.

Nota alla pubblicazione:

Dalla pubblicazione di questo articolo, abbiamo ricevuto centinaia di migliaia di like ed abbiamo ricevuto molte risposte che ci appoggiavano e qualche dissenso. L’interazione è ben accetta.

Subito dopo la pubblicazione del blog, John Roberts di Fox News, una redazione di notizie tra le principali e affidabili, ha chiesto al Presidente Trump del collegamento della diffusione del virus con un laboratorio in Cina. Quella domanda, e le storie che sono seguite, non hanno realmente cambiato la mia idea: il complotto sosteneva che fosse stato creato in un laboratorio come arma biologica. Quindi, se si tratta di un virus naturale che è stato esaminato in un laboratorio e ed è sfuggito in maniera accidentale, la tesi rimane la stessa.

Come Fox News ha riportato “Le fonti credono che la trasmissione iniziale del virus, un ceppo naturale che era in quel momento studiato là, era da pipistrello ad umano e che il “paziente zero” lavorava al laboratorio, poi è arrivato alla popolazione a Wuhan”. (corsivo aggiunto)

A completa informazione, non mi aspettavo che il laboratorio fosse il punto della contesa e così non  è stato una sorpresa per me. Secondo il mio articolo, non si può mantenere un complotto tra tutte queste parti. Qualcuno si è posto la domanda e quindi si è  investigato. Allo stesso modo, possiamo essere d’accordo che le torri del 5G, i vaccini, le armi batteriologiche e le altre cose non sono un complotto? Probabilmente non tutti lo comprenderanno, ma molti si. E la mia idea ancora rimane. Ed ho scritto l’articolo per rendere chiaro tutto ciò.

Così, al contrario del complotto, il virus non è stato creato in un laboratorio come un’arma. La storia di FoxNews dice chiaramente che non è questo il caso, dicendo (loro parole), “non come un’arma batteriologica”. Le teorie complottiste si basano sulla creazione in laboratorio, le armi batteriologiche, il 5G, i vaccini e molto di più. E quando i cristiani condividono queste idee complottiste, feriscono la nostra testimonianza.

Infine, il blog continuerà regolarmente ad aggiornarsi ed io riorganizzerò i miei post, come ho fatto adesso e lo farò seguendo l’evoluzione delle nuove informazioni. Grazie per la lettura e la condivisione.

Leggere La Peste di Camus, ai tempi del Coronavirus

di Stefano Molino

La seule chose qui nous reste, c’est la comptabilité
(L’unica cosa che ci resta è la contabilità).

Così si esprime uno dei protagonisti del celebre romanzo di Albert Camus, La peste del 1947, più volte ricordato in questo giorni per l’affinità con la condizione pandemica attuale. Chi parla è un amico del protagonista, un dottore che lotta contro un’epidemia di peste scoppiata nella città di Oran. Il personaggio rassegnato constata che non resta molto altro da fare se non occuparsi del computo quotidiano dei morti. Questa frase, letta nei tempi in cui le giornate si concludono con la conferenza del capo della protezione civile Borrelli sulle statistiche di vittime, guariti, contagiati, da covid 19, mi è saltata agli occhi.

La rilettura de La peste in questi tempi propone numerosi spunti di riflessione, ma tra i tanti quello della facilità con cui ci entusiasmiamo alla notizia dei 100 morti in meno, o viceversa ci inquietiamo se ne annunciano 100 in più, mi colpisce. La riflessione di Camus, del resto, mira proprio a puntare i riflettori sul problema della morte, spingendo a considerare come, anche nelle emergenze arriva un momento in cui ci si assuefà allo scandalo della morte, quindi della vita e della sua fine, riducendola ad un semplice problema di conteggio. Da cui l’incoraggiamento a considerare che tutta la vita è un’emergenza in quanto delimitata inevitabilmente dalla morte e che la preoccupazione per la vita non dovrebbe emergere solo in contesti di emergenza. Camus non ragiona in un orizzonte trascendente. Le soleil (il sole) nei suoi romanzi sostituisce Dio e non dà risposte. In risposta all’assurdo, o non senso della vita propone un impegno per la vita che altri personaggi del romanzo incarnano. È una risposta possibile ma la proposta di un impegno autentico, che al massimo riesce a limitare i numeri delle statistiche mortuarie non mi pare contribuire molto alla questione del senso della vita e della sua eventuale assurdità…

Mi piace affiancare la frase di Tarrou, il personaggio citato all’inizio, alle riflessioni di tre secoli prima del grande Pascal, con una frase lungimirante, molto fertile in tempi di quarantena: “… tout le malheur des hommes vient d’une seule chose, qui est de ne savoir pas demeurer en repos dans une chambre” (Pensées, XI Divertissement, 168 –  Tutto il male degli uomini viene da una sola cosa, che il non saper restarsene en pace in una stanza”). Detta in questi termini suona quasi ironica, e forse irriverente per chi in questi giorni è chiuso in spazi inospitali o scomodi.

Ma il pensiero di Pascal si inserisce in una meditazione sul “divertimento”, da intendersi in senso etimologico: il di-vertire, il distogliere lo sguardo da un altra parte quando si è posti davanti allo stesso problema: “Les hommes n’ayant pu guérir la mort, la misère, l’ignorance, ils se sont avisés, pour se rendre heureux, de n’y point penser”. (Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per rendersi felici, di non pensarci affatto” (Pensées, IX Divertissement, 166). Davanti all’accecamento (l’aveuglement) e alla miseria dell’uomo, incapace di capire cosa ci stia a fare in questo mondo, e cosa gli accadrà dopo la morte, osserva uomini che si accontentano di “divertirsi”, e preferisce cercare se Dio non abbia per caso lasciato qualche segno di sé (Pensées, XVI, Transition, 229). Lo scandalo per la morte e la sua assurdità che Pascal ben avvertiva non lo porta ad un’accettazione dell’assurdo, ma alla conferma che il senso è oltre l’apparenza.

Forse dopo le statistiche quotidiane che possono portare tanto scandalo quanto  rassegnazione potremmo ricavare dalla lezione di Camus un spinta a non rassegnarci ad un mero conteggio di morti, che non è comunque che sineddoche di un’esistenza volta alla fine, indicando con Pascal, che i segni di Dio non mancano, e che davanti ad una vita volta a concludersi in modo più o meno rapido le parole di Paolo esprimono quella folgorazione di senso che chi ha incontrato Dio avverte e diffonde: “perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 6:23).

Stefano Molino, Dottore di Ricerca in Letteratura francese, è professore di Scuola Superiore a Lucca, città in cui guida anche una Chiesa evangelica locale. E’ membro del Comitato Editoriale di Edizioni GBU.

Il Ponte su cui transita ciò che ci fa bene

di Andrea Papini

Vi ricordate quello che stavate facendo l’11 Settembre del 2001, quando sono cadute le Torri Gemelle ?
Io ero in ufficio, si è sparsa la voce e la prima cosa che ho fatto, ricordo, è stato chiamare un amico missionario svizzero che lavorava in Tunisia. Volevo avvisarlo di quello che stava succedendo, in caso fosse stato l’inizio di una sollevazione mondiale contro i cristiani. Oggi, ripensandoci, mi vengono in mente diversi se e ma; all’epoca, però, chiamare Bernard mi era sembrata la cosa più logica da fare.

Se foste genovesi vi ricordereste anche e forse ancora di più, quello che stavate facendo il 14 Agosto 2018, alle 11.36.  

Era Martedì ma, a causa delle ferie estive, sembrava Sabato. Nostra figlia mi aveva chiesto di portarla in biblioteca, in centro città, per studiare con amici. Uscendo di casa avevo pensato che, già che ero in giro, sarei potuto andare a comprare delle luci da Ikea ma pioveva troppo forte, così ho lasciato Elena in biblioteca e me ne sono tornato a casa, con l’idea di godermi la mattinata in relax.

Ikea si trova a pochissimi metri dal ponte Morandi. Inoltre, se ci fossi davvero andato, quasi sicuramente lo avrei percorso per rientrare.

Ricordo che, ad un certo punto, ho iniziato a ricevere messaggi da parte di amici e fratelli da diverse parti d’Italia e del mondo. Chiedevano: ”Come state ?”, “Tutto bene ?”. All’inizio pensavo che si trattasse di persone cordiali che si informavano sulla salute della nostra famiglia ma ben presto ho capito che era successo qualcosa di grave, emozionante ed irreparabile.

Ho pensato distintamente “la nostra vita non sarà più la stessa”, ho chiamato mia moglie, abbiamo acceso la televisione, cercato tra i canali, trovato la diretta e siamo rimasti a guardare, increduli, quello sfacelo.

Piangevo e intanto pensavo che forse sarebbe venuto fuori che era meno grave di quello che sembrava, che forse era stato solo un cedimento, che alla fine sarebbe andato tutto bene.

Dio ha avuto pietà ed il ponte è crollato in uno dei giorni in assoluto meno trafficati dell’anno ma, comunque, non è andato tutto bene. Non per le 43 vittime, nemmeno per le loro famiglie ed amici.

Non è andato tutto bene per la città, per il traffico che era abituato a circolare intorno ed attraverso il Ponte, per il commercio nei quartieri coinvolti dal disastro, per le persone corse via da casa, lasciando luci accese, porte aperte e senza poter poi rientrare a prendere ciò di cui avevano bisogno.

Henry era originario dell’Ecuador, viveva e studiava a Genova, era amico di nostra figlia. Veniva spesso da noi, era un ottimo cuoco e ancora ricordo uno squisito risotto alle fragole che aveva cucinato, invitandoci a pranzo a casa nostra. Il 14 Agosto stava tornando a casa, dove viveva con la madre e il fratello e il ponte si è sbriciolato sotto le ruote della sua auto. L’hanno trovato qualche giorno dopo, scavando tra le macerie sulla riva del Polcevera. Con il passare dei giorni sono venute fuori altre storie, di sconosciuti, di conoscenti, di conoscenti di conoscenti. Si dice che l’amore non diminuisca con l’aumentare del numero delle persone che amiamo. Lo stesso avviene per il dolore. E’ stato un periodo di lacrime, rabbia, incredulità, incertezza.

Poi è iniziata la ricostruzione.

Un Ponte nuovo, costruito con una tecnologia di derivazione navale, in acciaio, disegnato dall’architetto genovese Renzo Piano, con una sezione cava per favorire la manutenzione ed un parco pubblico sottostante.

I lavori sono proseguiti alacremente, le promesse sono state sostanzialmente mantenute. Oggi, 28 Aprile 2020, a mezzogiorno campane e sirene hanno festeggiato il posizionamento dell’ultima sezione del viadotto. Molto resta da fare prima di potervi di nuovo circolare, ovviamente, ma la ferita si sta rimarginando.

Nel frattempo Genova ha guadagnato, per esempio, una nuova tangenziale a mare, costruita a tempo di record per permettere lo scorrimento del traffico che non poteva più usufruire dello svincolo autostradale mutilato. Ma ha anche perso posti di lavoro, abitazioni, vite, tempo.

Nella Bibbia non si parla di ponti stradali. E’ normale, che cosa se ne facevano di un ponte in mezzo alla pianura ?

Non si parla nemmeno di ponti navali, tranne un caso nel libro del profeta Ezechiele. E’ normale, il popolo d’Israele non è mai stato famoso per le sue capacità di navigazione ed ha sempre mostrato un certo disagio nei confronti di mari, laghi e simili.

Ma il concetto di ponte nella Parola c’è eccome. Poter passare da un posto all’altro, scavalcando il precipizio che li separa. Una Struttura la cui assenza complica la vita alle persone, impedisce loro di arrivare alla giusta destinazione. Una Struttura la cui mancanza, se ad un certo punto cessasse di essere percorribile, può avere effetti eternamente letali.

Ancora qualche mese e i genovesi potranno di nuovo passare da una riva del Polcevera all’altra senza dover scendere e risalire. Turismo e commercio potranno ricominciare ad utilizzare il nodo autostradale di Genova Ovest come facevano in passato. 

Nel frattempo però, abbiamo dovuto, insieme al mondo intero, imparare a convivere con un altro ponte, ancora più intimo; la vicinanza, il contatto che permette ad una cosa piccolissima, forse nemmeno davvero viva, di transitare da un essere umano all’altro, causando infezione, disagi, malattia, a volte morte. Abbiamo capito che facilitare il contatto tra due punti non è sempre qualcosa di auspicabile e che ci sono casi in cui è meglio stare lontani, separarsi dalla sorgente dell’infezione. Che può anche arrivare da persone e luoghi amati, facenti parte delle nostre vite.

Lezioni massicce, ricevute le quali non si può rimanere, o ritornare a, come si era prima. Di quali Ponti dovremmo approfittare ? A quali faremmo meglio a rinunciare ?

Qual è la Via per cui transita solo ciò che ci fa bene, che permette di arrivare alla Destinazione migliore possibile ?

Esiste ed è stata progettata dal numero uno degli architetti, Uno a cui non è sfuggito nulla, che ha tenuto conto di tutto.

Esiste e non aspetta altro che essere percorsa.                

A Genova ed altrove.

Andrea Papini, abita a Genova con sua moglie Aida, il gatto Peloponneso e, se non sono da qualche altra parte, tre figli. Lavora per una società di ingegneria navale e cerca di servire il Signore come può, sia partecipando come interprete a diverse conferenze in Italia e all’estero, che condividendo la responsabilità della chiesa evangelica La Promessa.

Lutero risponde alla CEI

di V. Bernardi e GC Di Gaetano

Vero tesoro della Chiesa di Cristo è il sacrosanto Vangelo, gloria e grazia di Dio.
(M. Lutero, Tesi 62 sulle indulgenze)

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, domenica 26 aprile, annunciando la cosiddetta “fase 2” dell’isolamento necessario per combattere la pandemia, ha ribadito, sicuramente a malincuore e non con qualche imbarazzo, che ancora per qualche settimana non sarà possibile aprire le chiese al pubblico per le funzioni religiose. Unica eccezione fatta è stata quella dei funerali che potranno essere presieduti da una quindicina di persone.

Poche ore dopo questa dichiarazione la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha risposto con le sue rimostranze al Governo, accampando due motivazioni fondamentali: la prima di tipo costituzionale (non sono stati interpellati come prevederebbe il dettato costituzionale), la seconda di tipo teologico. Riportiamo quello che dice il comunicato della CEI a proposito dell’importanza di celebrare Messa, in ordine alla seconda motivazione:

I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.

Come si può leggere il dovere di celebrare e partecipare alla Messa è essenzialmente dovuto al bisogno di attingere alla sorgente sacramentale necessaria al credente cattolico. In questo testo viene dunque ribadita la concezione sacramentale della funzione ecclesiale, tipica del Cattolicesimo romano, e magistralmente analizzata qualche decennio fa dal teologo evangelico Vittorio Subilia. Si tratta, in sostanza, di una delle principali caratteristiche di distinzione tra il cattolicesimo e il protestantesimo. Un buon credente cattolico per poter garantirsi la salvezza (secondo la terminologia biblica), deve durante la sua vita assolvere a tutti i sacramenti. Questa forma di disciplina ecclesiale è da noi evangelici ritenuta sbagliata in quanto cozza con quello che ci pare essere l’insegmaneto biblico centrale sulla salvezza che fa leva sulla sola fede in Gesù Cristo. Questo è il vangelo, questa è la buona notizia. Il Riformatore Martin Lutero sintetizzò mirabilmente questo punto nella sua Tesi 62 riportata sopra.

Nel 1527, quando Lutero scrive a Rudolf Hess nel periodo di diffusione della peste, ha ben chiaro questo concetto. Ma la sua voce è oggi utile anche per i consigli relativi alla questione fondamentale del discorso epidemiologico: il contagio possibile o probabile.

In primo luogo, Lutero ha la preoccupazione per le cominità locali e ritiene che sia fondamentale in una città colpita dall’epidemia che rimangano dei ministri di culto per adempiere essenzialmente a due compiti del loro ministero: il conforto delle anime e il seppellimento dei morti.

 

In secondo luogo, anch’egli ritiene doveroso mantenere i luoghi di culto aperti, anche se essenzialmente per due cose: il conforto che deriva del Vangelo e la preparazione alla morte che, in caso di epidemie, è sempre in agguato. Vi è anche un accenno al sacramento che, come è noto, per il teologo tedesco aveva una funzione diversa: ricordare la Grazia ricevuta tramite la Croce di Cristo.

 

Ma sono soprattutto le sue raccomandazioni relative al contagio quelle che vogliamo sottolineare in quanto sono quelle preminenti su tutto. Raccomandiamo queste parole a tutti coloro che in questo momento percepiscono il peso delle restrizioni fino a parlare addirittura di pericolo per la libertà di culto.

 

«È ancora più disonorevole per una persona non prestare attenzione al suo proprio corpo e non riuscire a proteggerlo dalla pestilenza al meglio delle sue capacità, e poi infettare e avvelenare gli altri che sarebbero potuti restare vivi se quella persona si fosse presa cura del suo corpo come avrebbe dovuto. Egli è quindi responsabile davanti a Dio per la morte del suo prossimo ed è omicida molte volte. Infatti, una tale persona si comporta come se una casa stesse bruciando nella città e nessuno stesse cercando di spegnere il fuoco. Invece dà libertà alle fiamme in maniera tale che l’intera città bruci, dicendo che se Dio lo volesse, potrebbe salvare la città senza acqua per spegnere il fuoco.

No, miei cari amici, questo non va bene. Usate le medicine; prendete le pozioni che vi possono aiutare; disinfettate la casa, il cortile, la strada; evitate le persone e i luoghi dove il vostro vicino non ha bisogno della vostra presenza o è guarito, e agite come un uomo che vuole aiutare a estinguere le fiamme della città.

Cos’altro è l’epidemia se non un incendio che invece di distruggere legno e paglia divora vite e corpi? Dovresti pensare in questa maniera: “Molto bene, per decisione di Dio il nemico ci ha mandato frattaglie velenose e mortali. Perciò io chiederò a Dio misericordioso di proteggerci. Poi disinfetterò, aiuterò a purificare l’aria, darò e prenderò le medicine. Eviterò luoghi e persone dove la mia presenza non è necessaria per non contaminarmi e quindi forse infettare e contaminare gli altri, e così causare la loro morte come risultato della mia negligenza. Se Dio vorrà prendermi, sicuramente mi troverà e io avrò fatto ciò che egli si aspetta da me, e così non sarò responsabile per la mia propria morte o per la morte degli altri. Se il mio vicino ha bisogno di me, comunque, non eviterò i luoghi o le persone ma ci andrò volontariamente, come ho già affermato”.

Vedi, questa è una fede realmente basata sul timore di Dio perché non è insolente né avventata né tenta Dio». (M. Lutero)

Se abbiamo lo scopo primario di preservare l’umanità e far sì che tutti possano godere di buona salute, allora ci sentiamo di dire che il restare a casa per evitare gli assembramenti che possono mettere a rischio la vita del prossimo è un bene supremo. Lo Stato ha l’onere di assumere delle decisioni per il bene comune mentre il nostro compito è quello di ubbidire, pur potendo, all’interno del dibattito democratico, dissentire su decisioni che possono essere soppesate con il pro e il contro.

Si potrebbe pensare però che quando è in gioco l’ubbidienza a Dio, l’ubbidienza allo Stato non deve essere vincolante (At 5:29). E allora chiediamoci: come ci rapportiamo noi cristiani evangelici a questa situazione? Per grazia di Dio, e in ragione di una visione della chiesa che ci viene direttamente dal Maestro, dalla testimonianza apostolica e dai vangeli, possiamo continuare a sentirci e a essere chiesa anche in queste condizioni difficili. I moderni mezzi informatici permettono di ricostituire la comunità locale anche a distanza, pur tra mille difficoltà, consentendoci di avvertire la presenza spirituale del Signore anche se mancano gli abbracci: è il radunamento “nel suo nome” quello che assicura la presenza del Signore (Mt 18:20); inoltre riceviamo l’assicurazione che il culto a Dio deve essere reso in spirito e verità, esigenza questa che non viene scalfita per nulla da un radunamento non in presenza (Gv 4:21–23)!

Ascoltiamo dunque un consiglio che, al di là della teologia, risuona di buon senso.

“Chiederò a Dio misericordioso di proteggerci. Poi disinfetterò, aiuterò a purificare l’aria, darò e prenderò le medicine. Eviterò luoghi e persone dove la mia presenza non è necessaria per non contaminarmi e quindi forse infettare e contaminare gli altri, e così causare la loro morte come risultato della mia negligenza” (M. Lutero)

Resta con me, Signore, il dì declina

di Filippo Falcone

Autore di “Abide with Me” (1847), Henry Francis Lyte fu pastore anglicano (della All Saints Church di Brixham, in Inghilterra), poeta e innografo. Una salute cagionevole lo spinse, secondo una prassi comune nell’800, a frequenti viaggi verso luoghi più temperati. Contrasse la tubercolosi all’età di 54 anni. Anna Maria Maxwell Hogg, figlia di Lyte, racconta come “Abide with Me” sia stato scritto proprio nel contesto della malattia, che lo porterà a una morte prematura.

Nel giorno della stesura dell’inno, malgrado la sua debilitazione fisica, Lyte aveva insistito, contro ogni resistenza dei familiari, a predicare alla sua congregazione. “Meglio essere sfinito che arrugginito”, diceva. Quella sera, esausto, mise nelle mani di un familiare l’inno, corredato da un’aria di sua composizione (A Dictionary of Hymnology, Vol. 1). Solo alcune settimane dopo, il 20 novembre del 1847, si spense a Nizza.

Abide with me; fast falls the eventide;
            The darkness deepens; Lord with me abide.
            When other helpers fail and comforts flee,
            Help of the helpless, O abide with me.

5          Swift to its close ebbs out life’s little day;
            Earth’s joys grow dim; its glories pass away;
            Change and decay in all around I see;
            O Thou who changest not, abide with me.

            Not a brief glance I beg, a passing word;
10        But as Thou dwell’st with Thy disciples, Lord,
            Familiar, condescending, patient, free.
            Come not to sojourn, but abide with me.

            Come not in terrors, as the King of kings,
            But kind and good, with healing in Thy wings,
15        Tears for all woes, a heart for every plea—
            Come, Friend of sinners, and thus bide with me.

            Thou on my head in early youth didst smile;
            And, though rebellious and perverse meanwhile,
            Thou hast not left me, oft as I left Thee,
20        On to the close, O Lord, abide with me.

            I need Thy presence every passing hour.
            What but Thy grace can foil the tempter’s power?
            Who, like Thyself, my guide and stay can be?
            Through cloud and sunshine, Lord, abide with me.

25        I fear no foe, with Thee at hand to bless;
            Ills have no weight, and tears no bitterness.
            Where is death’s sting? Where, grave, thy victory?
            I triumph still, if Thou abide with me.      

30        Hold Thou Thy cross before my closing eyes;
            Shine through the gloom and point me to the skies.
            Heaven’s morning breaks, and earth’s vain shadows flee;
            In life, in death, O Lord, abide with me.

Versione italiana
Musica: W.H. Monk – Parole: G. Rostagno

1 Resta con me, Signore, il dì declina:
fuga l’angoscia che m’opprime il cuor!
Resta con me, la notte s’avvicina,
resta con me, pietoso Redentor.
2Aspro è il sentier che fino a Te conduce,
debole sono, forte è il tentator:
vincer vorrei, ma il mondo mi seduce,
resta con me, pietoso Redentor.
3. Presso la croce tutto è calma e pace;
è dolce pure, insiem con Te, il dolor;
ogni sospiro, a Te vicino, tace;
resta con me, pietoso Redentor.
4. In questa oscura valle un dì smarrita
l’anima mia non Ti seguiva ancor;
ma Tu venisti a darle pace e vita,
resta con me, pietoso Redentor.
5 Ed ora in Te soltanto credo e spero,
in Te soltanto vivo, o mio Signor;
dolce è il tuo amor, il giogo tuo leggero,
resta con me, pietoso Redentor.

Analisi e commento (sul testo originale inglese)
Questo inno richiama da vicino temi e stilemi propri di Easter Wings (1633), componimento del poeta metafisico George Herbert (vd. Il cielo nell’ordinario, Edizioni GBU, 2020, pp. 112-16).

La prima quartina si apre con la locuzione che costituisce il filo conduttore teologico, esistenziale e poetico dell’inno. “Abide with me” fa eco alla supplica rivolta dai due discepoli sulla via di Emmaus al Signore risorto in Luca 24,29: “Essi lo trattennero, dicendo: ‘Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire’”. 

I primi due versi presentano una costruzione chiastica (“Abide with me” / “with me abide”).
La ripetizione del medesimo suono in parole consecutive amplifica il portato della discesa repentina (“fast falls”, v. 1) di un buio fitto e profondo (“darkness deepens”, v. 2). I due versi presentano un parallelismo di significato nel segno dell’intensificazione.
Il chiasmo ha una funzione parentetica, a indicare che il Signore, che con il vocativo (“Lord”) è posto al centro dei due versi iniziali, con la sua presenza contiene, per così dire, la notte dell’io lirico. Cfr. “Quando anche camminassi nella valle dell’ombra e della morte, tu sei con me” (Sal. 23,4).

Il v. 3 presenta l’allitterazione imperfetta di “fail”, “comfort” e “flee”, figura del suono che pone enfasi sulla perdita di consolazione. L’allitterazione è replicata al v. 4 da “Help” e “helpless”, illuminando il parallelismo con la prima parte del v. 3. A “other helpers [fail]” corrisponde “Help of the helpless”. Là dove l’io lirico non può trovare soccorso in altri (“other helpers”), né in se stesso (“helpless”), il Signore invocato al v. 2 è qui identificato come l’aiuto.

“Abide with me” al termine del v. 4 costituisce il terzo fermalibro della quartina (a inizio [v. 1], centro [fine v. 2] e alla fine [v. 4]). Inizio, centro e fine, la ripetizione indica come la presenza del Signore, il Signore stesso, sia la risposta unica ed essenziale alla sofferenza esistenziale e spirituale dell’io lirico, al buio che avanza, all’assenza di consolazione e aiuto attorno a lui e in lui. “Abide with me” ritorna alla fine di ogni quartina.
Qui come nelle successive quartine, la rima baciata crea rapporti di significato, un sottotesto compiuto. Al crepuscolo che avanza (“eventide”) risponde l’invocazione (“abide”), alla fugacità (“flee”) non l’alterità di Dio, ma la natura intima della sua presenza (“me”).

Nella seconda stanza viene ripresa l’immagine del giorno che sta per finire. “Day” è qualificato come “little” (v. 5), a indicare la natura breve e fugace della vita e con essa delle gioie e delle glorie terrene (v. 6). Un parallelismo informa nuovamente il terzo e quarto verso della quartina. A “Change and decay” si contrappone “Thou who changest not”, alla caducità e transitorietà naturale colui che è lo stesso ieri, oggi e in eterno (Ebr. 13,8). La rima baciata nella quartina restituisce “day”, “away”, “see” e “me”. Là dove il giorno della vita (“day”) fugge via (“away”), l’io lirico (“me”) invoca su di sé lo sguardo (“see”) del Signore o altrimenti la sua dimora (in caso si intenda “see” come “visitare”).

La terza stanza sviluppa l’idea di tempo introdotta nella seconda. Se la realtà naturale proietta una perpetua ombra di mutamento, l’io lirico desidera che l’eternità non lo attraversi soltanto, ma che dimori nella sua esperienza finita e la ridefinisca. A “brief glance” e “passing word” (v. 9) risponde “dwellst” (v. 10), a “sojourn” “abide” (v. 12). Torna l’identificazione della seconda persona singolare nel vocativo “Lord” al secondo verso della quartina. Come quella dei discepoli sulla via di Emmaus, quella dell’io lirico è supplica (“I beg”, v. 9). L’io lirico prega il Signore di restare e dimorare con lui, come con i discepoli, nel suo amore che declina i tratti delle perfezioni immutabili di Cristo nel tempo dell’io lirico (“familiar, condescending, patient, free”, v. 11).
La rima qui sottolinea come la parola (“word”) del Signore (“Lord”) liberi (“free”) l’io lirico (“me”).

Nella quarta quartina l’allitterazione di “King”, “kings” e “kind” lega il v. 13 al v. 14. Il Signore, la cui presenza l’io lirico invoca, è sia il Re dei re altro e tremendo (“terrors”) del v. 13 sia colui che è definito dalla grazia e dall’amore (“kind and good”) del v. 14, giudice e redentore, Signore dei signori e fonte di guarigione. Visitami come colui che guarisce la mia infermità (“healing in thy wings”), come colui che non spegne il lucignolo fumante, ma sana il cuore dolente.
Là dove “tears” (v. 15) riprende “terrors” (v. 13), il v. 15 parla dell’identificazione del Signore con la realtà dell’uomo. Il Dio tremendo è colui che con la sua incarnazione partecipa alle sofferenze dell’io lirico. Lui stesso è “tears” per i suoi mali (“woes”), “heart” per ogni supplica (“plea”).

Il v. 16 completa l’identificazione dell’oggetto dell’invocazione. Egli è colui che mangia con i peccatori, l’amico dei peccatori (“friend of sinners”). L’io lirico annovera se stesso tra questi, riconoscendo a un tempo il suo bisogno del Salvatore. “Abide” al v. 16 diventa “bide” per ragioni metriche e di significato. L’inserimento di “thus” detta le prime e ridefinisce la dimora del Signore con l’io lirico come risultato della sua grazia. È come amico dei peccatori che il Signore può attendere (“bide”) con l’io lirico la fine del giorno e accompagnarlo nell’ora più buia verso un giorno nuovo.

La quinta quartina sviluppa ulteriormente il tema della precedente, mostrando come la vita dell’io lirico, sin da un’età precoce (“in early youth”, v. 17), testimoni il suo peccato (“rebellious and perverse”, v. 18) e la sua fragilità e infedeltà (“I left thee”, v. 19), ma nel contempo la vocazione, la grazia (“didst smile”, v. 17) e la fedeltà (“Thou hast not left me”, v. 19) di Dio. Il chiasmo del v. 19 – “Thou hast not left me, oft as I left thee” – intreccia la prima e la seconda persona, palesando come al fallimento dell’io lirico (“I left thee”) non corrisponda a un abbandono da parte di Dio (“Thou hast not left me”). Al contrario, quell’io lirico (“me” e “I”) che ha spesse volte (“oft”) lasciato Dio è compreso, racchiuso nell’abbraccio di “Thou” e “thee”.
La grazia che ha informato la vita dell’io lirico fino a quel momento è l’essenza stessa della sua perseveranza sino alla fine (“On to the close”, v. 20). Di qui il rinnovarsi dell’invocazione: “Abide with me”.

La rima parla del sorriso di Dio verso di lui in tenera età (“smile”) e del passare del tempo (“meanwhile”), per poi additare la dinamica di una seconda persona (“thee”) che sino alla fine definisce l’identità dell’io lirico (“me”).
La ripetizione di “thy” nei primi tre versi della sesta quartina mette in luce l’oggetto della ricerca dell’io lirico e la fonte ultima del suo bene – la presenza di Cristo, la sua grazia, Cristo stesso. La presenza di Cristo è risposta alla transitorietà (“passing hour”, v. 21), la sua grazia alla tentazione (“tempter’s power”, v. 22) e la persona di Cristo allo smarrimento dell’io lirico (“my guide and stay”, v. 23).
L’io lirico non invoca circostanze esteriori e interiori (“cloud and sunshine”, v. 24) differenti né risposte alla sua condizione, ma unicamente la presenza di Dio attraverso (“Through”) quelle circostanze e quella condizione.
La rima addita un’ora (“hour”) in cui si manifesta la potenza della tentazione (“tempter’s power”). L’io lirico può affrontarla soltanto nella misura in cui rinuncia alle prerogative dell’io per fare di Cristo la propria identità: sii me (“be me”).

La settima quartina si apre con l’allitterazione di “fear” e “foe”. Là dove torna il riferimento a satana, già tentatore (v. 22) qui nemico (“foe”), la paura viene meno nella misura in cui l’io lirico è “with thee”. Allora né lacrime (“tears”) né mali (“ills”) recano in sé l’amarezza e il peso che le definisce quando la voce lirica s’affida all’io. 
Il tono di derisione e sfida di Paolo in 1 Cor. 15:55-57 viene riecheggiato ai vv. 27-28. La vittoria di Cristo sulla morte è la vittoria presente dell’io lirico in Cristo. L’invocazione lascia il posto qui a un se (“if”) concessivo, in cui si sovrappongono una realtà posizionale e la realizzazione esperienziale della stessa. Ancora una volta, nella sconfitta della prima persona “I” campeggia il trionfo della seconda persona “Thou”. Si chiude qui un movimento iniziato nella quinta quartina con le perversioni dell’io e che culmina nella sua resa, là dove nella propria morte, nel passaggio da “I” a “with thee”, l’io lirico conosce la vita di Cristo. La rima testimonia l’appropriazione da parte dell’io lirico (“me”) della vittoria di Cristo (“victory”), che passa per una sofferenza (“bitterness”) benedetta (“bless”), poiché è nel terreno della massima debolezza che l’io lirico può conoscere la forza del Signore.

L’ultima quartina è dominata dall’immagine della croce (v. 29) e si sviluppa per figure dicotomiche, giovannee – notte e giorno (v. 31), buio e luce (vv. 30-31), morte e vita (v. 32), occhi che si chiudono e orizzonti celesti (vv. 29-30). La croce realizza il passaggio: là dove c’è il buio, essa fa risplendere la luce; là dove c’è la morte, reca vita; là dove gli occhi si chiudono e la vita si spegne, proietta lo sguardo verso infinito ed eternità; e là dove il giorno è ormai al liminare, reca con sé una nuova alba di resurrezione. L’ultimo verso si chiude con un’allusione a 1 Tess. 5,10: “[Cristo] è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”.  
La rima rafforza questa prospettiva nella misura in cui l’io lirico (“me”) acquista occhi (“eyes”) per vedere il cielo (“skies”) e là librarsi (“flee”) su ali di Pasqua (cfr. Easter Wings).

Questo inno è una preghiera, “anima in parafrasi”, direbbe Herbert, espressione di un’anima che cerca Dio nel crepuscolo della vita, di fronte alla sofferenza e alla morte, là dove dubbio, pianto e smarrimento informano uno sguardo che non vede in sé, né attorno a sé, alcuna risposta. Risposta non c’è, né l’io lirico s’interroga. La sua è l’invocazione di chi non chiede gli sia risparmiato il buio o la notte dell’anima, il grido di chi sa che Dio non elide il passaggio attraverso la valle dell’ombra di morte, ma vi si incammina con lui e rimane con lui nel senso più intimo e profondo, facendo della sofferenza il terreno stesso del rinnovamento, lo spazio in cui l’io viene decostruito per lasciare posto alla grazia e alle sue identità.  

I Interpretazione del testo italiano sulla musica di Monk di Marta Falcone

https://www.youtube.com/watch?v=Asr7h1qWmPo

Filippo Falcone è Dottore di ricerca in Letteratura inglese e si è specializzato presso la Oklahoma State University. E’ stato professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; ha pubblicato una monografia sul concetto di libertà in John Milton e saggi sul poeta inglese; collabora con la Società Biblica di Ginevra e con le Edizioni GBU, cone le quali ha curato l’opera di George Herbert, Il cielo nell’ordinario. Antologia ragionata e lettura critica (2020).

Il Covid–19 e la vita spirituale

di Dale Coulter

Il coronavirus sta alterando la nostra esistenza sociale in modi che possiamo e non possiamo ancora percepire. Anche dopo che un vaccino renderà inoffensivo il virus, la società sentirà gli effetti del COVID-19 per decenni, se non di più. La stessa cosa è accaduta quando la Morte Nera colpì la prima volta l’Europa a metà XIV secolo.

Uno degli effetti più significativi della Morte Nera è stata l’accelerazione di alcune tendenze spirituali che stavano già costantemente crescendo. Durante e dopo questo periodo, il Cristianesimo vide il fiorire di una spiritualità interiore che era stata forgiata nelle riforme del XII secolo. Usando le parole del grande storico del misticismo, Bernard McGinn, la fioritura del misticismo (1250-1350) ha prodotto un raccolto tardo medievale per la vita spirituale.

La perdita di leader ecclesiastici ed i costanti “scandali” della chiesa istituzionale nel Tardo Medio Evo significò che essa era mal equipaggiata ad affrontare le sfide poste dalla peste. Ciò che prese il suo posto era una spiritualità centrata negli ordini religiosi e nella vita religiosa dei laici. Con i molti villaggi rurali devastati ed il clero che si spostava nelle città più importanti [come per esempio] Londra, la spiritualità fu incoraggiata nei monasteri o anche nelle normali case piuttosto che nelle parrocchie locali. Esposta da uomini e donne, sosteneva il fedele mettendo inoltre in discussione l’ordine istituzionale. I suoi temi chiave erano un’attenzione all’umanità di Cristo, un programma di meditazione e contemplazione ed un ritorno alla semplicità nell’essere discepoli di Cristo. Questi temi possono darci conforto spirituale anche nella battaglia contro il COVID-19.

Le devastazioni della Morte Nera avevano portato molti a pensare che l’Europa medievale fosse sotto il giudizio di Dio. Le rappresentazioni dipingevano i tormenti dell’inferno ed i predicatori scatenavano la loro ardente retorica. Con più del trenta per cento della popolazione che soccombeva alla malattia (in certe zone più del 50 per cento) era facile giungere a quelle conclusioni. In contrasto con queste affermazioni, gli scrittori spirituali prendevano, della svolta francescana, il lato dell’umanità di Gesù, specialmente della sua crocifissione. Nel Cristo crocifisso, gli scrittori medievali vedevano l’entrata di Dio nella sofferenza dell’umanità per riscattarla.

Giuliana di Norwich andava così in là da sostenere che il corpo di Cristo emaciato e sanguinante “somigliava alla nostra disgustosa morte nera che il nostro giusto, splendente e benedetto Signore portò per i nostri peccati.” Nel divenire vittima della peste, Gesù conquistava il peccato e la morte e rivelava che non vi era più ira in Dio. Ad essere certi, Giuliana vedeva l’ira intrecciata alle strutture della creazione che riservavano malattie e morte ed il dolore che feriva l’anima. Ma il Cristo crocifisso, diceva, puntava verso un amore conquistato che si carica della sofferenza e la riscatta per portare l’umanità all’unione con il Dio trino.

Dolore e sofferenza non hanno l’ultima parola sull’esistenza umana. Invece, diventano un mezzo attraverso il quale Dio riscatta l’anima che, attraverso la preghiera, segue le orme del crocifisso. Nella sua risposta alla peste, Caterina da Siena chiarisce che la sofferenza in sé distrugge solamente. Tuttavia il dolore della malattia può essere convertito a vita, se l’anima devastata la trasforma in mezzo per salire al crocifisso in preghiera. Questo è il sentiero dell’unione con Cristo. Il punto per Caterina non era asserire la necessità della sofferenza ma a coloro che sono colti dal dolore della vita una maniera per utilizzare quel dolore per lo scopo finale dell’anima, ovvero, il suo ritorno al creatore da cui proviene. La sofferenza di Cristo mostrava la via.

Sia Caterina che Giuliana conferivano uno scopo pedagogico al dolore e alla sofferenza basandosi sulla crocifissione. Non solo, i danni della vita rendono umile l’anima e forzano la persona ad entrare nella sua interiorità più profonda per cercare le risposte. Ciò porta ad un volgersi verso la vita interiore. Citando la Scrittura, Tommaso da Kempis diceva ai suoi lettori, “Il regno di Dio è dentro di voi. Volgetevi con tutto il vostro cuore al Signore e abbandonate questo mondo miserabile…Imparate a disprezzare la cose esteriori e date voi stessi alle cose interiori, e vedrete il regno di Dio venire da dentro. Poiché il Regno di Dio è pace e gioia nello Spirito Santo”. Dolore e sofferenza portano la fragilità umana verso il sollievo, portando in tal modo la persona a guardare nella propria anima, che non è null’altro che guardarsi allo specchio di Dio.

Gli scrittori medievali presupponevano la svolta verso la vita interiore sulla base del rigetto del mondo esterno. Questo non significava negare la bontà della creazione, ma piuttosto riconoscere che i beni della creazione puntavano verso la bontà del Creatore. Sino a quando gli umani avessero prestato attenzione ai beni creati, non avrebbero potuto ascendere verso la loro vera dimora. Per andare ancora più al punto, un costante sguardo verso l’esteriorità era semplicemente un fallimento nel riconoscere chi siamo e da dove veniamo.

La più intensa tradizione tedesca del tardo Medio Evo vedeva questo sentiero come un qualcosa che coinvolgeva un radicale distacco, uno svuotamento delle cose create per fare spazio alla cose divine. In Inghilterra, l’anonimo autore de La nube della non-conoscenza si riferiva alla svolta verso l’interiorità come ad un movimento attraverso una nuvola di dimenticanza in cui la persona perdeva la vista dei beni della creazione. Le vicissitudini dell’esistenza temporale destabilizzano l’anima sia perché nulla di temporaneo può dare un fondamento permanente e sia perché i costanti cambiamenti del contingente cambiano costantemente la persona.

Ad accompagnare questa svolta verso la vita interiore c’era un programma spirituale che muoveva dalla meditazione sul sé alla meditazione su Cristo ed infine alla meditazione su Dio rivelato in Cristo. Il movimento finale verso Dio era un’elevazione contemplativa, un sollevamento estatico che soltanto la grazia poteva portare. L’antidoto tardo medievale alla Morte Nera non era una riaffermazione dell’ordine istituzionale della Chiesa. Era un invito, invece, a guardarsi dentro e a trovare Cristo, una cosa che poteva fare chiunque stando nella propria dimora. Con tante chiese temporaneamente chiuse nel mondo, i pastori e i sacerdoti dovrebbero diventare direttori spirituali, guidando il loro gregge a volgersi alla propria interiorità e a cercare il Dio crocifisso.

Dale Coulter è professore associato di Storia della teologia presso il Regent College a Vancouver in Canada. L’articolo è apparso in lingua originale nella rivista “First Things

Trad. Valerio Bernardi

#iorestoacasa

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Questo è l’altro hastag (oltre a #andràtuttobene) di questa Italia del XXI secolo costretta a casa per “contenere” la diffusione del contagio. È stato il primo, e quello più persistente, perché, come ci ricordano gli organi istituzionali, la pubblicità e tanti altri nel pieno dell’epidemia, si deve fare questo, restare a casa. Personaggi dello sport, dello spettacolo, istituzioni culturali, medici hanno rilanciato lo slogan. E pare che abbia funzionato, stia funzionando: gli italiani appaiono la nazione più ligia all’osservanza delle norme sul distanziamento sociale affinché l’aria che ci separa dal nostro prossimo non venga sfruttata da questo piccolo mostro per diffondersi.

Stare a casa: un problema di libertà e di razionalità
La riduzione delle prerogative delle libertà individuali di movimento, di assembramento (si pensi a quanti incontri – incluso quelli di natura religiosa, dalle messe ai culti evangelici – sono stati interdetti) e altre ancora che non sono state ridotte per necessità (le attività economiche essenziali), è sempre stato un tema della riflessione filosofica e politica dell’Occidente. Si sostiene che “l’uomo libero”, così come lo conosciamo noi, sia il frutto della confluenza di almeno tre tradizioni culturali: il pensiero greco, con la libertà considerata come determinazione della volontà e manifestazione di virtù; la quintessenza della rivelazione ebraico–cristiana, con la libertà della coscienza derivante dal coram deo e dall’imago dei; le acquisizioni illuministiche, con la libertà della ragione e del pensiero. Bene, se “l’uomo libero” è tutto ciò, non può accettare alcuna restrizione. Questa condizione è confuita nella mappa dei diritti (religiosi, civili, politici, etc.).
Si discute, lo abbiamo ascoltato spesso di questi tempi, se questo schema possa subire delle riduzioni in funzione delle nuove frontiere della cura quali la telemedicina, la mapatura digitale del contagio, etc.

Qui si contrappongono privacy e benessere pubblico.

Eppure adesso siamo tutti confinati in casa. Questo è un retroeffetto del “male naturale” di cui stiamo facendo esperienza; di cui stanno facendo esperienza, in primo luogo, coloro che hanno subito delle perdite e coloro che sono in prima linea a combattere l’epidemia.

Senza volerlo, sicuramente senza desiderarlo, anche la stragrande maggioranza di tutti noi siamo partecipi e subiamo, sotto la forma della riduzione delle libertà della persona, il confronto con il male nella sua accezione naturale.

Perché accettiamo questa condizione?

Si tratta di una sorta di contributo globale che gli umani stanno rendendo alla razionalità di natura scientifica. Ci sottoponiamo a delle direttive e assumiamo dei comportamenti che sono suggeriti dalla ricerca scientifica da cui derivano le argomentazioni razionali per cui è meglio subire la riduzione delle nostre ibertà per quindici giorni o un mese, o anche più, piuttosto che dare il lasciapassare all’infezione  …
Irrazionale è oggi il comportamento e il pensiero che ammucchia, che non sa distanziare, che si accalca, che non è lucido, sanificante. Ed è strano pensare che proprio le aree geografiche che un tempo avevano indicato la strada maestra dell’igiene pubblica e del miglioramento delle condizioni di vita (l’Occidente), oggi sono le aree geografiche in cui il pensiero e i comportamenti ammucchianti sono più evidenti e più devastanti. La scienza, i virologi e gli epidemiologici, ci dicono che dobbiamo stare a casa, serrare l’uscio delle nostre porte affinché il contagio “passi oltre”. Con buona pace del pensiero complottista, no–vax, etc.

Stare a casa per scampare la distruzione
Se la razionalità scientifica è ciò che ci giustifica nell’adozione di comportamenti che limitano le nostre libertà individuali, forse la motivazione ultima è quella di assecondare la nostra percezione che ci suggerisce che in tal modo ci stiamo proteggendo. Lì fuori c’è qualcosa che si aggira e che è tremendo. Al netto di tutti i dibattiti che si fanno e si leggono il succo di questa epidemia e di ciò che la causa, il virus, è questo: in un’epoca così avanzata per quanto concerne i sistemi sanitari, il tasso di morte per patologie che si ritengono curabili è molto alto. Niente di simile era accaduto in passato. È perché sappiamo di poter curare (anche se non in maniera definitiva) chi si infetta, che ci spaventa la prospettiva di una diffusione del contagio che renderebbe impossibile curare tutti. Allora è meglio proteggerci. Abbiamo avuto una rivelazione: stiamo a casa, raduniamoci nei nostri nuclei familiari e segnaliamo all’esterno che noi non ci siamo contaminati. La protezione implica due versanti: quello esterno e quello interno. All’esterno bisogna segnalare che sì, abbiamo chiuso l’uscio prima dell’arrivo del distruttore, abbiamo assecondato la sapienza e la saggezza “tecnica”. All’interno bisogna “celebrare” questa salvezza: se stiamo in casa il contagio “passa oltre”, possiamo con grande umiliazione celebrare la nostra salvezza e prepararci a ri–partire.

Non ci vuole molto per comprendere che queste categorie (passare oltre, segnalare all’esterno, celebrare all’interno) sono le categorie di quella festività carica di simboli e frutto di strati di sgnificato complessissimi che è la PASQUA (pesach).

Straordinaria coincidenza: ci chiudiamo in casa perché là fuori c’è qualcosa che ci spaventa, una manifestazione subdolamente superlativa di tutta una serie di sciagure che abbiamo sperimentato, e nel frattempo il nostro calendario ci ricorda che è Pasqua (quella cristiana) e le nostre menti sono obbligate ad andare a Esodo 12 (la pasqua ebraica), da dove tutto è partito.
E lo scenario è straordinariamente simile o almeno possiede dei richiami simbolici molto forti:
– un popolo chiuso in casa, avvertito in merito #nessunodivoivarchilaportadicasasuafinoalmattino;
– qualcosa che là fuori si agira e può colpire;
– la speranza di essere risparmiati e di poter finalmente ripartire.

Ci sono alcune lezioni che si possono trarre da questa antica pagina biblica, sulla quale si sono esercitate le menti più acute dell’ebraismo e del cristianesimo, e non solo.
A questo punto sarebbe utile che si legga quel capitolo.

Il popolo ritrova compattezza
Sicuramente non è un elemento principale del racconto; tuttavia il contesto generale non lo nasconde. Dio chiama Mosè e gli dà delle istruzioni; Mosè le comunica al popolo, questo le accetta, le mette in pratica [il popolo s’inchinò e adorò (v. 27)].Niente più divisioni e fazioni,come nel capitolo 5, quando il popolo si era trovato a fronteggiare la reazione del regime di faraone. Ora non c’è più l’insinuazione contro Mosè, (chi ti ha costituito sopra di noi) e neanche le fazioni. Il momento era cruciale, delicato, gravido di conseguenze (promessa della liberazione, ma minaccia di cadere vittima della decima piaga).
Questa compattezza viene conseguita mediante la ricomposizione dei nuclei famigliari, anche quelli allargati. Ci si frammenta, ci si stringe l’uno all’altro in famiglia (dove non si rispettano le misure di distanziamento sociale – 1 metro), in un certo senso ci si separa, per poi sentirsi partecipi di uno stesso destino. Nell’Italia del XXI secolo questa dinamica è stata sicuramente incarnata dalla figura del Presidente della Repubblica. Il Presidente Sergio Mattarella, con i suoi sapienti e centellinati interventi è riuscito a farci sentire tutti partecipi di una stessa vicenda nel mentre la sua voce arrivava a milioni di famiglie ognuna chiusa nel suo isolamento. Non così la politica! E poi c’è Zoom, con cui una miriade di formazioni sociali prende vita davanti a telecamere e mouse. C’è vita dietro le porte chiuse alla piaga; e, se sapientemente vissuta, quasta frammentazione può produrre compattezza in un popolo. Mettiamo pure il tricolore sul balcone.
Ma la pandemia, lo si è detto, non conosce confini; serve a poco se in Italia ci si separa in famiglie e si riscopre nello stesso tempo la coscienza collettiva. Le schermaglie europee e la diversità di approcci (dall’Inghilterra prima, per finire poi alla Svezia), se non addirittra il doppogioco dei regimi autoritari (quanti morti in Cina?) e la leggerezza dei Trump sono tutte cose che fanno comprendere che è il genere umano a dover ritrovare una sua compattezza.
Intorno a che cosa però? Questo è difficile dirlo. Un certo umanesimo cristiano ha ben ragione a segnalare che ciò su cui bisogna ritrovare compattezza è la stessa idea di uomo. Uscirà fuori un nuovo uomo da questa pandemia?
Per il momento abbiamo la riduzione a uno dell’attenzione dell’umanità. Più della metà della popolazione mondiale è rinchiusa in casa. E l’attenzione di tutti è focalizzata su un unico tema, un unico punto: COVID–19! La maledizione che ha colpito la terra a causa di una mescolanza di specie (dai pipistrelli agli umani, passando per i serpenti) ha reso gli uomini UNO (quanto meno nella paura; non sappiamo se anche nella speranza).
La lezione dell’Esodo è che la possibilità di ripensarsi daccapo era data dal fatto che la presenza di Dio era divenuta tangibile ed era una presenza sinistra: circolava la terribile profezia sulla morte dei primogeniti e per questa ragione bisognava prepararsi adeguatamente. La presenza di Dio era  minacciosa. Altro che chiese aperte e/o chiuse … a Pasqua!

Salvati per servire
La Pasqua, nella sua prima celebrazione, fu una festa che esaltò la precarietà e il movimento, a differenza di ciò che diverrà in seguito la stessa festa: un banchetto senza patemi d’animo. Alle origini, la precarietà era segnata dalla presenza delle erbe amare e del pane non lievitato e il movimento era percepito come reale e con una duplice dinamica: quello che dava il nome all’evento, il passare oltre della piaga e quello della possibile ri–partenza del popolo.
Il secondo movimento, quello della ripartenza, merita la nostra attenzione. Si trattava di un movimento di liberazione. Nella Bibbia ci sono molti esempi di interventi di Dio che chiama i fedeli a uscire: Abraamo, Lot; gli esuli di Babilonia e gli abitanti della Babilonia apocalittica. In genere si tratta di uscire o avendo la testa a ciò che si attende ed è oggetto della chiamata – e della fede (la terra per Abraamo) oppure si esce perché si è spaventati per la rovina del posto in cui ci si trova (Lot; la Citta di Distruzione de Il Pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan).

In questo caso, in Esodo 12, ma anche un po’ – almeno lo speriamo – per il coronavirus, ci sono alcune differenze. Sicuramente c’era l’indicazione positiva di ciò che aspetta il popolo. È un nuovo inizio e questo nuovo inizio implicava responsabilità: Mosè aveva più volte detto al faraone che dovevano andare a servire il loro Dio. Da ciò deriva l’immagine dell’ebreo attrezzato ed equipaggiato per partire, agile perché senza il pane già lievitato e tutto teso al futuro. Pietro l’apostolo nella sua prima Lettera raccoglierà questa dimensione della Pasqua e la volgerà interamente in termini spirituali e non più fisici e materiali

Perciò, dopo aver predisposto la vostra mente all’azione, state sobri, e abbiate piena speranza nella grazia che vi sarà recata al momento della rivelazione di Gesù Cristo. Come figli ubbidienti, non conformatevi alle passioni del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza; ma come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta, poiché sta scritto: «Siate santi, perché io sono santo» (1 Pt 1:13).

In questo periodo si sente evocare spesso, pensando alla ripartenza in più fasi, il dopoguerra e lo straordinario miracolo italiano del boom economico. Il rimando e l’evocazione non possono essere più adeguati. Ma ci sono anche delle lezioni da imparare. Che ne è stato della società nata dai sacrifici e dalle sofferenze della Seconda Guerra Mondiale? Il capo della popolazione si è rialzato per cercare nuovi valori oppure ha dato inizio a un ciclo di decadimento alla fine del quale ci troviamo con il trionfo degli egoismi a tutti i livelli, fino alla messa in crisi dell’idea che ha garantito la pace per settant’anni, l’idea dell’Europa? L’immagine di un popolo che dopo aver chiuso le porte alla piaga, che è passata–oltre, si mette in cammino per adorare, per celebrare e su questa strada, sicuramente non facile, incontra un Dio (al Sinai) che si dispone ad accompagnarlo con le sue leggi e la sua volontà è un’immagine che deve far riflettere tutti quanti noi. Quale Dio abbiamo incontrato nel dopoguerra miracoloso? E dove ci ha portati? Abbiamo bisogno, come Italiani, di riflettere seriamente dove andremo, quando riapriremo le nostre porte, avendo una macherina in mano. Già, perché non dimentichiamolo: il virus è ancora in mezzo a noi.

Il ruolo del sangue sugli stipiti
Ma c’è un altro elemento della notte di Pasqua che non è un elemento dinamico, ma statico. Non concerne il partire ma lo stare a casa. Il popolo resta in Egitto e poi può partire grazie al sangue dell’agnello spruzzato sugli stipiti delle porte chiuse. Israele poteva restare in mezzo all’Egitto a una sola condizione: se si fosse messo al riparo del sangue dell’agnello.

Chi mastica un po’ di teologia sa bene che qui ci sono due enormi problemi: la natura e le ragioni ultime della distruzione che passa per le città d’Egitto e fuori dalle porte degli schiavi ebrei e, in secondo luogo, il ruolo e il simbolo del sangue. Il primo grosso problema è un classico dell’apologetica che si è riacceso anche in questi tempi: che relazione c’è tra Dio e l’epidemia? [Si guardi all’ultimo libretto di John Lennox, Dov’è Dio nella pandemia? (Adi Media); e anche a R. Nicole, Il Dio della Bibbia è un Dio violento?, GBU, 2018)
Il secondo è un tema che ha da sempre occupato lo spazio che unisce teologia e antropologia (da Girard alla nuova prospettiva su Paolo, passando per la querelle su espiazione e/o propiziazione) [Per questo tema si veda John Stott, La croce di Cristo, Edizioni GBU].

Ogni qual volta viene ripetuto il racconto della festività pasquale sia nella Bibbia ebraica sia nel Nuovo Testamento un elemento permane, a scapito di altri che cambiano: il riferimento al sangue. Quando i cristiani guardano alla Pasqua non possono fare a meno di intravedere il ruolo del sangue

Per fede celebrò la Pasqua e fece l’aspersione del sangue affinché lo sterminatore dei primogeniti non toccasse quelli degli Israeliti. (Eb 11:28)


La presenza del sangue in Esodo 12 fa capire chiaramente che anche gli Ebrei erano in pericolo. Non erano diversi dagli Egiziani. Questo è straordinario. Ma come, non aveva detto Dio a Mosè che era per amore dei padri che li liberava? Sicuramente; questo era vero. Ma la loro liberazione non era semplicemente un fatto etnico. E non era neanche una necessità metafisica, nel senso che “dovevano” essere salvati, punto e basta.
Spesso il popolo d’Israele, e in seguito anche le chiese cristiane, nella loro lunga storia, hanno nutrito questo sentimento, appoggiandosi solo su una parte della verità, l’elezione. Ma nella Bibbia l’opera di Dio non si confina solo a una decisione unilaterale divina; necessita anche della soluzione [divina] del problema che sta alla base stessa dell’elezione. Israele era stato scelto perché Dio compisse la promessa fatta al rappresentante del genere umano (Adamo in Genesi 3), ma anche la promessa fatta ad Abramo della benedizione di tutte le famiglie della terra (Genesi 12). Dio non elegge solo; Dio redime e spinge a servire. E lo strumento che la Bibbia indica come scelto da Dio è lo “spargimento di sague”: nell’antichità in maniera visibile (i sacrifici animali); a un certo punto della storia in maniera personale e irripetibile (la morte di Gesù in croce); oggi in maniera simbolica (le rappresentazioni “eucaristiche”). Qui, più che spiegare (per esempio l’associazione tra sangue e vita), forse conviene lasciare la parola direttamente ai testi biblici che sono più eloquenti:

In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, il perdono dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia, (Ef 1:7)

eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, a ubbidire e a essere cosparsi del sangue di Gesù Cristo: grazia e pace vi siano moltiplicate. (1 Pt 1:2)

Il sangue aveva poi, nell’antico racconto di Esodo, un valore semiotico. Era un segnale per il Signore. Non aveva un potere in sé, non veicolava alcuna grazia. Esso parlava:

diceva che in quella casa era stato immolato un agnello,
che c’era gente che aveva ubbidito e si era sottomessa alla volontà del Signore;
gente che chiedeva a Dio di mantenere la sua promessa e di passare oltre;
gente che era pronta a partire per seguire il Signore.

Essi cantavano un cantico nuovo, dicendo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai acquistato a Dio, con il tuo sangue, gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5:9)

Il sangue era una protezione, uno scudo, un riparo. Dio avrebbe fatto giustizia di tutti gli dei dell’Egitto (v. 12) e questo naturalmente significava che la sua giustizia si sarebbe abbattuta su coloro che adoravano tali dei, sugli idolatri. Un peccato gravissimo, l’idolatria, che portò faraone a pensare che non esistesse nessuno al di fuori di se stesso. L’idolatra contrappone se stesso all’unico vero Dio. Per questo Dio fa giustizia e punisce gli idolatri. Qui abbiamo una rivelazione senza infingimenti di Dio, una rivelazione che ci spinge a chiedergli come possiamo essere protetti. Non siamo in una disgrazia naturale nella quale credenti e non credenti sono presi insieme, soffrono insieme (come con il coronavirus). No qui siamo alla presenza dell’ultima e più grave realtà dell’essere umano: il giudizio di Dio. Per carità, evitiamo le geremiadi che tendono a localizzare e temporalizzare il giudizio in questa o quella sciagura. Ricordiamoci di Giobbe … e dei suoi amici!

Il sangue di una vittima ci mette al riparo: dice a Dio che deva passare oltre; qualcuno ha pagato.

Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira (Rom 5:9)

Nel racconto dell’Esodo il sangue fu spruzzato sulle parti più esterne di ciò che rappresentava il rifugio della famiglia raccolta, la porta, gli architravi; poi veniva spruzzato sulla parte esteriore dell’altare del luogo santissimo ebraico. Ciò che per primo, fisicamente, incontrava la realtà esterna veniva santificato dal sangue. Con l’arrivo della vittima per eccellenza, con l’Agnello di Dio che è stato immolato, la purificazione con il sangue sarà più in profondità, e finirà. Niente più sacrifici.

avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell’aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. (Eb 10,22)

Gesù, il mediatore del nuovo patto e al sangue dell’aspersione che parla meglio del sangue d’Abele (Eb 12:24)

Restiamo a casa e limitiamo le nostre libertà.
Restiamo a casa perché intuiamo che ci dobbiamo proteggere.
Restiamo a casa e presagiamo la ripartenza, magari tutti uniti.
Restiamo a casa e intuiamo che dvremmo ripartire con il piede giusto (e la mascherina in mano)
Restiamo a casa e scopriamo che per la stessa nostra esistenza dobbiamo qualcosa a qualcuno.

In Esodo 12 gli antichi Israeliti sapevano che il sangue di un agnello li avrebbe fatti scampare. Già, l’agnello!

Un agnello per la vita di un uomo (Abramo e Isacco nel sacrificio evitato, Genesi 22).
Un agnello per una famiglia (Esodo 12).
Un agnello (una vittima) per un popolo (il Giorno delle Espiazioni ebraico, Levitico 16).
Un agnello per il mondo: “Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Giovanni 1:29)