Dalla terra al cielo, volente o nolente

di Claudio Pasquale Monopoli

Non è più un segreto che in America ci sia un problema di razzismo che giunge a livelli tali da riuscire ad eliminare fisicamente altre persone, chiamate afroamericane, cioè persone con la pelle scura. È tristemente nota la notizia dell’ultima vittima di un atteggiamento errato da parte della polizia statunitense nei confronti di un uomo dalla pelle più scura della mia.

E mentre una parte dell’America si indigna, piange e manifesta in modalità più o (molto) meno pacifiche, l’altra esulta, e torna a guardare il cielo sognante, e ritorna a riempirsi di sano spirito patriottico. Infatti ieri, 30 maggio 2020, è stato lanciato nello spazio il razzo della SpaceX, che per la prima volta dal 2011 ha lanciato degli astronauti da suolo americano dopo che le missioni Shuttle furono cancellate in quell’anno. L’obiettivo della SpaceX, che può intraprendere grazie all’esito felice del lancio di ieri, essendosi guadagnata in tal modo l’approvazione dalla NASA per i suoi programmi spaziali, prevede entro pochi anni di tornare sulla luna per soste mediamente più lunghe delle precedenti, e iniziare chissà quando una colonizzazione spaziale.

Al di là delle discussioni scientifiche ed ingegneristiche che possiamo instaurare sulla plausibilità di abitare altri posti oltre la terra, è indubbiamente paradossale che una parte del paese sogni i viaggi su altri pianeti mentre l’altra lotti per rendere l’attuale un posto abitabile da tutti, bianchi o neri. Da una parte c’è chi pensa alla possibilità di ricominciare altrove, dall’altra chi, meno sognante, vive gli incubi di non riuscire a sopravvivere un altro giorno sulla terra. Ed è impossibile, anche per chi non è americano, non immedesimarsi in entrambi questi sentimenti, la gioia e il dolore, per due fatti altrettanto importanti, con implicazioni tanto diverse.

Forse in Italia non riusciamo veramente a capire la portata criminosa di un atteggiamento razzista che fa parte del sostrato culturale intessuto inconsciamente nell’anima della società statunitense. Un uomo di colore nero ogni 1000 muore ucciso dalla polizia. Per cercare di capire meglio, già venire ucciso durante un arresto in America non è così raro, ma il rischio aumenta di 2,5 volte se si è afroamericani. Ovvero, se siete neri e venite fermati dalla polizia e arrestati, la possibilità che perdiate la vita per qualsiasi motivo è 2,5 volte maggiore di chi invece ha la pelle più chiara. Ce ne sono tante di inchieste accurate e dati precisi reperibili in rete, mi soffermo solo sull’ultimo, più vicino a noi da un punto di vista cronologico e contestuale, da cui emerge che le persone afroamericani fossero state 4 volte di più a rischio incriminazione per la violazione del lockdown rispetto al resto della nazione.
Considerando che gli afroamericani in America sono poco più del 14% della popolazione totale, è interessante e triste pensare che il 14% dell’America è più in pericolo di morte rispetto alla popolazione restante. È indubbio che ci sia un problema di quello che semplificando chiamiamo razzismo. D’altra parte è impossibile non avere la pelle d’oca nel guardare il razzo della SpaceX staccarsi dal corpus della navicella e tornare sulla terra e parcheggiarsi da solo su una minuscola piattaforma nell’oceano, in quanto riutilizzabile, per la prima volta nella storia spaziale, in altre missioni.

Ed è proprio qui la contraddizione, il paradosso dell’anima degli USA, e dell’uomo in generale, tanto potente e intelligente da creare futuristiche navicelle spaziali che si guidano da sole e che ci porteranno alla colonizzazione di altri pianeti, troppo cieco per non riuscire a comprendere quanto grande sia il problema razziale, per debellarlo una volta per sempre.

Un cristiano non dovrebbe pensare che schierarsi in favore della vita umana sia fare politica, o che difendere la vita umana di qualsiasi genere, sesso e razza, sia necessariamente schierarsi con un orientamento partitico che non gli piace, che non lo rappresenta. Un cristiano dovrebbe solo fare sue le parole di Gesù di “amarci gli uni e gli altri” di “porre l’altra guancia” e di praticare la giustizia. Non può esistere una politica che si intrometta a garantire il diritto alla vita di un uomo. Troviamo nella genesi come Dio confuse gli uomini, e di fatto terminò il progetto più simile ad un razzo spaziale nell’antichità, la torre di Babele, perché questi si erano insuperbiti e volevano raggiungere il cielo per divenire immortali nella fama. Non credo che oggi la torre di Babele si possa identificare con i razzi spaziali, credo piuttosto che la superbia che riscontriamo negli uomini che volevano arrivare in cielo la ritroviamo in coloro che minimizzano il problema razziale, che si rendono superbi e svalorizzano una vita che Dio ha creato, magari giustificando un atto di violenza ingiustificabile, per la presunta colpevolezza di un uomo, senza peraltro ammettere che se fosse stato bianco, quell’uomo, avrebbe avuto 2,5 volte possibilità in più di continuare a vivere.

Per Dio ogni vita è importante, perché per noi non dovrebbe esserlo?

Dovremmo schierarci come cristiani contro ogni forma di violenza, razziale e non, ma in questo caso, in questi giorni specifici, lottiamo per terminare il razzismo, conscio o inconscio, dai nostri cuori e di conseguenza dalla nostra società. Prima di pensare di ricominciare una nuova vita, per non commettere gli errori e le atrocità di questa terra, pensiamo magari a rendere il nostro pianeta un posto vivibile da chiunque, in cui chiunque possa avere il tempo di ricevere l’annuncio del Vangelo senza che qualcuno spezzi la sua vita prematuramente. Posto che non vivremo mai in un luogo perfetto per via del peccato, e della nostra natura, credo fermamente che noi cristiani dobbiamo lottare perché comunque ciò possa potenzialmente accadere:

“Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l’amore, la costanza e la mansuetudine” (1 Timoteo 6:11-12), dove sarebbe dunque il nostro amore se non ci prodighiamo a terminare le ingiustizie commesse di fronte a noi?

Non riusciremo mai a costruire un nuovo mondo migliore, che sia Marte o la luna, se prima non miglioriamo il nostro, se non diveniamo servi della luce, e della giustizia alla luce dell’amore del Signore Gesù. A volte è bene spostare gli occhi dal cielo, e puntarli sulla terra, dove si piegano tra la polvere e il sangue i più deboli. “In ogni cosa vi ho mostrato che bisogna venire in aiuto ai deboli lavorando così, e ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse egli stesso: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere»” (Atti 20:35).

Claudio Pasquale Monopoli si è laureato in Filologia Moderna alla Sapienza di Roma, specializzandosi nel campo della critica letteraria. È stato coordinatore del GBU di Roma e attualmente è impegnato nella chiesa evangelica”La Via”  di Ciampino.

Il razzismo velenoso di un’America sgradevole

di Darrell L. Bock

Quello che è accaduto a Floyd è qualcosa che negli Stati Uniti ha una lunga, triste storia, una storia che degenera ogni pochi anni. Questa volta la differenza sta nel fatto che ci sono le registrazioni a mostrare ciò che è accaduto così che diventa difficile costruire una difesa con un controracconto che nega i fatti. In realtà, nelle ultime settimane si sono verificati tre incidenti del genere, tutti registrati. Questo ha colpito una corda che ha fatto venire a galla una profonda frustrazione nelle minoranze.

La violenza razziale è un attacco alla persona fatta all’immagine di Dio.

Non c’è posto per una cosa del genere in una fede che raccoglie molte tribù, lingue e nazioni.

E’ uno sfregio per la croce che mostra l’amore che Dio ha per gli uomini del mondo.

Viola l’appello di Gesù ad amare perfino i nostri nemici.

E’ un’offesa per le vie di Dio.

La saga di George Floyd non è nuova. Si tratta di un incidente che questa volta è stato documentato. Uno di tre solo nelle ultime settimane, come ho detto sopra. Se avete amici afro–americani allora sicuramente avrete saputo da loro che incidenti del genere non sono né rari né isolati ma piuttosto comuni.

Questo significa che qualcosa è veramente sbagliato e va avanti così da tanto tempo.

L’unica cosa è che nell’ambiente ostile in cui viviamo oggi la cosa si sta accelerando. Negare tutto ciò significa sopprimere l’ovvio e farlo ina maniera violenta. Possiamo e dobbiamo fare meglio e ciò significa agire, non semplicemente proferire parole e mostrare simpatia, poiché senza l’azione vedremo cose del genere che si ripeteranno di nuovo e ancora di nuovo. Non è una Teoria critica che stravolge ciò che ognuno dovrebbe essere in grado di vedere, al punto da non agire.

Si tratta di razzismo velenoso che percorre parti della nostra società e rende l’America sgradevole. Definire le cose con il loro nome significa rispettare le persone, la gente. Dobbiamo assolutamente fare meglio. Dire una cosa del genere è facile, fare qualcosa per questa situazione significherà per molti di noi essere chiari nelle nostre puntuali risposte affermando che tutto ciò è sbagliato e intollerabile.

 

Darrell L. Bock è Executive Director for Cultural Engagement, Howard G. Hendricks Center for Christian Leadership and Cultural Engagement e Senior Research Professor di New Testament Studies, presso il Dallas Theological Semminary.

 

Darrell L. Bock
è stato ospite nel 2017 del XII Convegno di Studi del GBU.
Qui trovi anche i link alle sue conferenze
Le Edizioni GBU hanno pubblicato il suo
Alla riscoperta del vero vangelo

 

 

Il fine vita ai tempi di COVID–19

di Giacomo Carlo Di Gaetano

Sul sito dell’UAAR viene riportata la percezione della popolazione italiana in merito a un tema caldo della bioetica, l’eutanasia:
Tutti i sondaggi condotti negli ultimi anni attestano che la maggioranza degli italiani è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia. Secondo un sondaggio Swg del 2019, i cittadini favorevoli a una legge sarebbero ormai il 93%.

Si tratta di un’affermazione che risente in modo particolare delle ultime mosse nel campo della bioetica del fine vita nell’arco del 2019, poco prima che scoppiasse la pandemia. Anzi, si potrebbe dire che per poche settimane non si è verificata una vera e propria sovrapposizione estremamente significativa nel campo della bioetica.
Infatti, mentre in Cina si cominciava a parlare di un virus sconosciuto che si agitava dalle parti di Whuan, la Corte Costituzionale depositava il 22 novembre le motivazioni della sentenza del 25 settembre dello stesso anno relativa alla depenalizzazione del reato di assistenza al suicidio (art. 580 del c.p.) ritenendo una parte di quell’articolo incostituzionale.

La Corte così concludeva il percorso iniziato un anno prima con l’Ordinanza del 25 settembre 2018 con la quale segnalava il vulnus legislativo relativo alla questione del suicidio assistito, da molti ritenuto il primo passo verso forme di eutanasia.
Il caso che aveva scatenato questa produzione di giurisprudenza era quello di DJ Fabo, recatosi in Svizzera, accompagnato dall’eponente radicale Marco Cappato per essere aiutato nel suo proponimento di togliersi la vita. Marco Cappato al ritorno dalla Svizzera si era autodenunciato e aveva avviato l’iter delle sentenze che arrivava a conclusione nel novembre dello scorso anno.

In maniera quasi fatidica due vicende relative al fine vita stavano per incrociarsi per ritrovarsi travolte dallo tzunami della pandemia che portava prepotentmente all’attenzione degli italiani la conclusione dell’esistenza di migliaia di connazionali (con una media dell’età secondo l’ISS superiore agli ottant’anni) immortalata dalle terribili immagini dei camion dell’esercito pieni di bare.

Da un lato una dimensione sofferente che a “certe condizioni” può portare legittimamente un soggetto a chiedere di essere aiutato, assistito a interrompere la propria vita:

Il riferimento è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Dall’altro lato una dimensione sofferente come quella delle migliaia di vite che si ritenvano custodite e protette nelle RSA e che contro la volontà dei soggetti implicati in esse, in primis i familiari, viene brutalmente messa a confronto con il virus e, nella maggior parte dei casi, strappata via. Dopo che, peraltro, nel momento dell’emergenza più acuta, aveva fatto nascere un altro problema bioetico quello opportunamente messo in luce dalla Commissione bioetica delle Chiese Battiste, Metodiste e Valdesi d’Italia con il documento dal titolo: “Emergenza Covid–19 e criteri di accesso alle terapie. Una riflessione protestante”: come prendere decisioni corrette di fronte alla mancanza di risorse sufficienti per rispondere alle esigenze di tutti in un momento di emergenza.

La morte cercata, la morte esorcizzata e combattuta si sono quasi incrociate sul suolo della nostra nazione, mostrando forse in maniera provvidenziale, per la prima volta, l’aspetto relativo e non assoluto delle acquisizioni bioetiche più avanzate. Quello che sembrava un trend quasi inarrestabile e che ci voleva convincere che il modo più avanzato e confacente alla raggiunta matura età dell’uomo occidentale nei confronti della morte fosse quello di venirci a patti, invitarla e prepararle la strada “a certe condizioni” ora deve fare i conti con lo sconforto nazionale nei confronti della generazione che volevamo proteggere dalla morte, che credevamo protetta fino al suo approssimarsi naturale, e che invece se n’è andata via mestamente, senza conforto e nella solitudine, su un camion grigioverde.

E a questo si aggiunge forse, speriamo, il senso di colpa collettivo di una nazione che ha abbassato la guardia nei confronti dell’uso e dell’allocamento delle risorse da dedicare al Sistema Sanitario Nazionale; Sistema ridotto a terra di conquista della corruzione degli apparati corrotti dello stato nonché campo di produzione di ricchezza del malaffare.

Anche questo, un altro classico tema della bioetica contemporanea.

La speranza, in questo incrocio di pulsioni sociali di segno contrario che si sono quasi scontrate in questo scorcio della nostra storia, è che quel 93% del gradimento per qualche forma di eutanasia scenda, si riduca, prendendo atto che è insopportabile lo spettacolo del piano inclinato del destino che quando comincia a farvi scivolare le vite degli esseri umani sembra non più controllabile e arrestabile.

Quale riflessione per i cristiani? Qualcuno diceva che il fine vita è uno dei contesti privilegiati in cui si manifesta la tensione tutta biblica e teologica tra la provvidenza divina – i cristiani credono che sia Dio a detenere la vita e la morte – e la solerte azione dell’uomo tesa a curare e ritardare non solo in vista della guarigione ma anche come rimedio palliativo per la sofferenza con cui la morte spesso si fa annunciare:

Questa tensione teologica fornisce le prospettive e i limiti nel campo della morte e del morire per il fatto che essa preclude le risposte radicali alla questione. Per esempio, essa sembra proibire l’eutanasia attiva che accentua la responsabilità della cura ma nega la provvidenza [eutanasia pietosa]. Allo stesso modo, la stessa tensione mette in discussione il rifiuto di porre fine in alcuni, garantiti casi ai trattamenti medici, una posizione questa che accentua la provvidenza ma nega il prendersi cura. La tensione creativa tra la provvidenza divina e il prendersi cura ci aiuta “a trovare un’equilibrata via di mezzo tra il vitalismo medico (che preserva la vita a tutti i costi) e il pessimismo medico (che uccide quando la vita sembra frustrata, ai limiti e senza alcuna utilità” (Hollingher, 2001).

Fotografia di Gabriele Magnano

Protesto, perciò credo

di Miroslav Volf

Le catastrofi nel mondo ci sono sempre state e disastri localizzati sono sempre stati presenti. Anche le pandemie non sono ignote all’uomo e, anzi, questa legata al COVID-19, almeno per ora sembra essere una delle meno tragiche nei suoi risultati di vittime. Basterebbe vedere cosa è successo durante l’influenza spagnola subito dopo il Primo Conflitto mondiale per capire come la portata odierna sia più limitata, anche se ugualmente tragica.
Quando ci si trova di fronte alla tragedia del male e della morte talvolta il cristianesimo sembra essere sotto scacco. Come ci ricorda Blocher, nel suo Il male e la croce (pubbblicato dalle edizioni Gbu in italiano, https://edizionigbu.it/libreria/il-male-e-la-croce) il cristianesimo non può rispondere al quesito in maniera semplicistica e ostentando un facile ottimismo. La presenza del male nel mondo, infatti, è rappresentato dalla stessa Croce.
Colui che crede in Dio spera nel Cristo che asciugherà le lacrime, ma, allo stesso tempo si interroga, e, come ci ricorda il testo biblico, si lamenta per la sua condizione chiedendo conforto al Dio in cui crede.
Qualche settimana fa il teologo anglicano Tom Wright sull’autorevole rivista Time, ci ha ricordato il diritto al Lamento che ha il credente ed anche al non dover dare per forza delle risposte.
Sedici anni fa l’umanità del sud-est asiatico fu colpita da un disastroso Tsunami, un evento “naturale” che portò via migliaia di vite. In quell’occasione il teologo americano-croato Miroslav Volf si interrogò sull’accaduto in questo breve scritto, pubblicato nella rivista Christian Century e poi riproposto nel libro Contro la marea, che le eduzioni Gbu hanno in corso di pubblicazione.
Riproponiamo questo articolo, proprio perché in questi giorni lo stesso Volf lo ha riproposto e perché ci sembra di stringente attualità. (Valerio Bernardi

Protesto, perciò credo

Ad una cena in onore di un ospite importante, ero seduto vicino ad una signora che lavorava per la  CBS. Lo tsunami aveva appena colpito la costa di Sumatra con tutta la sua forza distruttiva, e stavamo parlando della grandezza della desolazione, la grave condizione delle vittime e la follia dell’evento. Sapeva che ero un teologo, così ha affrontato il problema di Dio. “Dove era Dio”, disse bruscamente, “Come si può credere in un Dio buono di fronte a tale sofferenza?” E qui io ho commesso il mio errore.

La cosa buona era che, suppongo, l’errore non fosse tanto cattivo quanto poteva sembrare. Potevo tentare di giustificare Dio. Dopo tutto, Dio era sotto attacco, ed io ero un teologo – ed un teologo che trova Dio profondamente attraente, anche se talvolta totalmente sconcertante e perturbante. Ma mi sono ricordato del terremoto che aveva distrutto Lisbona nel 1755 ed il Candido di Voltaire, un devastante e spiritoso attacco nei confronti dell’ottimismo filosofico e teologico e scritto parzialmente a risposta. Due terzi di Lisbona erano stati distrutti e circa trentamila persone erano morte, molti a seguito di un maremoto e di un incendio che avevano seguito il terremoto. Era il giorno di Tutti i Santi, e “le chiese, con le candele che bruciavano, si sbriciolarono sui fedeli”. I bordelli furono quasi tutti risparmiati, come Voltaire faceva argutamente notare.

Da quando ho letto il Candido, non sono stato capace di portare me stesso a cercare di difendere Dio contro il carico di impotenza o la mancanza di attenzione riguardo i mali orribili. Non riuscivo a rendere plausibile a me stesso affermazioni quali “qualunque cosa succeda, è giusta” o “la malattia parziale è per  il bene universale”. Non c’è voluto molto per giungere alla conclusione che un tale argomento dovesse essere sbagliato.  Può darsi che sarò persuaso da ciò una volta che la storia avrà fatto il suo corso e Dio causerà redenzione e dannazione, e sarò capace di pensare con una mente chiara un mondo reso unitario dall’interno. Quello è ciò che Martin Lutero ha suggerito che sarebbe accaduto nel suo trattato Sul servo arbitrio. Ma qui ed ora, invischiato come sono in un mondo in cui la sofferenza si assomma ad altra sofferenza nel corso di una storia senza fine, trovo tale argomentazione improbabile, zoppicante e persino un po’ irritante. La bontà della interezza sembra terribilmente astratta e senza alcuna plausibilità o consolazione per un essere umano colpito dalla sofferenza. “Quando la morte coronerà le malattie dell’uomo sofferente, che grande consolazione sarà essere mangiato dai vermi!” scriveva Voltaire con il suo caratteristico sarcasmo.

Non ho fatto l’errore di giustificare Dio, in due minuti o meno. Ma ho cercato di fare qualcosa di ugualmente complesso, sebbene più plausibile. Ho suggerito alla mia commensale che una reale protesta contro Dio di fronte al male presuppone l’esistenza di Dio. In quanto siamo disturbati dalla forza cieca e bruta degli tsunami che spengono le vite delle persone, incluse quelle dei bambini che erano stati attirati, come se ci fosse qualche sinistro architetto, sulle spiagge dai pesci lasciati esposti sulle secche perché le acque si erano ritirate poco prima che arrivasse il maremoto. Se il mondo è solo questo, ed il mondo con le placche tettoniche in movimento è il mondo in cui è capitato di vivere, cosa c’è da lamentarsi? Dobbiamo fare cordoglio, abbiamo perso qualcosa di terribilmente caro. Ma non ci possiamo realmente lamentare e non possiamo certamente protestare in maniera legittima.

L’aspettativa che il mondo debba essere un posto ospitale, senza devastanti contrattempi, è collegata alla credenza che il mondo debba essere fatto in una certa maniera. E quella credenza –distinta da quella per cui il mondo è così come è – è in sé stessa collegata alla nozione di creatore. E ciò ci porta a Dio. È Dio che rende possibile la nostra protesta nei confronti del male che è nel mondo. Ed è Dio contro cui protestiamo. Dio è sia il fondamento che l’obiettivo del nostro protestare. In maniera quasi paradossale, noi protestiamo con Dio contro Dio. Come posso credere in Dio quando lo tsunami colpisce? Protesto, perciò credo.

Era un errore, comunque, cercare di portare avanti questo ragionamento durante quella cena. Non è che sono giunto a pensare che il ragionamento non sia valido. E’ un buon ragionamento, anche se ti lascia con una fede che sembra in contrasto con sé stessa, con un Dio che è difficile da abbandonare ma anche difficile da abbracciare. Non era neanche il fatto che la mia interlocutrice non fosse capace di seguire il ragionamento, anche in una forma così condensata e pronunciato tra un’insalata ed il primo. Era abbastanza intelligente per tutto ciò. Tuttavia non lo avrei dovuto offrire, non allora e lì, e non come prima cosa da dire sullo Tsunami.

“Come si può credere in un buon Dio di fronte ad una tale sofferenza?” La risposta a questo problema dipende in parte dall’altra questione che il mio interlocutore mi aveva chiesto quella sera. “Dove era Dio?”. Il mio errore consisteva nel fatto che avevo cercato di rispondere alla prima domanda senza rispondere alla seconda. Proprio come Dio era presente in maniera misteriosa nel Crocifisso, così Dio era presente nel mezzo della carneficina dello tsunami, ascoltando ogni sospiro, raccogliendo ogni lacrima, risonante con ogni cuore tremante colpito dalla paura. E proprio come Dio è presente nel Risorto, così Dio era in ogni mano che aiutava, in ogni decisione di sacrificare la propria perché un altro potesse vivere. Dio soffriva e Dio aiutava. So anche che, simultaneamente, Dio era anche assiso sul Suo trono celeste. Perché l’onnipotente e misericordioso Uno non fa qualcosa prima che lo tsunami colpisca? Non lo so. Se lo sapessi, potrei giustificare Dio. Ma non posso. Questo è il motivo per cui sono ancora turbato dal Dio verso cui sono immensamente attratto e che non mi lascia andare.

Mirislav Volf, Teologo protestante croato che da molti anni vive negli Stati Uniti, è Henry B. Wright professore di teologia e Direttore del Yale Center for Faith and Culture presso l’Università di Yale.

Foto di Gabriele Magnano

Con mansuetudine e rispetto

di Francesco Schiano

Ravi Zacharias (1946-2020)
“…con mansuetudine e rispetto”

Da ieri, 19 maggio 2020, Ravi Zacharias è alla presenza del suo Signore e Salvatore.

È deceduto nella sua abitazione, ad Atlanta, a causa di un sarcoma diagnosticato ad inizio anno.

Era nato in India nel 1946, e all’età di 17 anni, dopo essere sopravvissuto ad un tentativo di suicidio, aveva conosciuto l’amore di Cristo.

Trasferitosi in Canada con la famiglia pochi anni dopo, aveva completato i suoi studi teologici prima presso l’Ontario Bible College e poi al Trinity Evangelical Divinity School in Illinois.

Dopo essersi dedicato alla proclamazione del Vangelo e all’apologetica, negli anni ottanta fondò la Ravi Zacharias International Ministries (RZIM) e nel 2004 ebbe un ruolo centrale nella fondazione dell’Oxford Centre for Christian Apologetics (OCCA), istituto che ha raccolto tra i suoi associati Os Guinness, Alister MacGrath e John Lennox, tra gli altri.

È stato senza ombra di dubbio uno dei campioni dell’apologetica cristiana degli ultimi 40 anni.

La RZIM oggi ha sedi negli Stati Uniti, in Canada, America Latina, Africa, Turchia, India, Singapore, Hong Kong, Regno Unito e alcuni altri paesi europei, e annovera circa 100 oratori che girano il mondo per proclamare il Vangelo e formare la Chiesa.

Autore di oltre 30 libri, alcuni dei quali tradotti in decine di lingue, ha annunciato il Vangelo nelle più prestigiose università e davanti ad alcuni degli uomini più potenti del mondo.

Ci si aspetterebbe, per un uomo del genere, che in questi giorni si celebrassero successi e acutezza del pensiero, capacità organizzative e abilità da leader, spirito d’iniziativa e coraggio. Eppure le parole che prevalgono tra quanti hanno scelto di onorare la sua memoria sono umiltà e amore. Parole che ricordano il suo carattere e il suo modo di interagire con il prossimo. Parole che dimostrano l’opera di Dio in Lui e attraverso di Lui, forse anche più dei milioni di persone che sono state benedette dal suo servizio.

Ho conosciuto Ravi prima attraverso i suoi libri tradotti in italiano, testi che rispondevano alle domande che da giovane credente mi ponevo, e poi di persona, quando ho avuto il privilegio di studiare all’OCCA, tra il 2012 e il 2013.

Era un evangelista e un oratore straordinario, capace di comunicare con passione e sensibilità rare la credibilità e la bellezza del Vangelo.

Pur avendolo incontrato solo un paio di volte, non ho difficoltà a credere alla testimonianza di chi lo ha conosciuto meglio.

Ricordo un aneddoto raccontatoci da un suo collaboratore:

Ravi era stato invitato come oratore principale ad una conferenza cristiana con centinaia di partecipanti. Tra di loro c’era, per qualche motivo, un solo non credente “dichiarato”. Sembra che durante le pause del programma Ravi fosse molto difficile da rintracciare per tutti quelli che volevano conoscerlo e sottoporgli le loro domande. Mentre tutti lo cercavano, lui era sempre appartato in compagnia di quell’unico non credente, ascoltando le sue obiezioni e rispondendo alle sue domande, finché non vide quell’uomo convertirsi a Cristo.

Questo è il cuore di un evangelista. Questa è una dimostrazione di amore ed umiltà.

Pur essendo in grado di difendere la fede cristiana come pochi e di rispondere alle domande più complesse in maniera sempre convincente, Ravi Zacharias non ha mai considerato l’apologetica come fine a se stessa. Ogni domanda, ogni obiezione, anche quella del più ostile degli interlocutori, non era un’occasione per dimostrare la forza delle proprie argomentazioni, ma era un’opportunità per raggiungere un cuore con la speranza del Vangelo. La sua attenzione era posta prima su chi poneva la domanda e poi sulla domanda.

Ecco una cosa che possiamo affermare considerando la vita di questo uomo di Dio: è stato un esempio radioso di cosa voglia dire glorificare Cristo nei nostri cuori e rendere conto della speranza che è in noi con mansuetudine e rispetto (I Pietro 3:15-16)

Francesco Schiano è Staff GBU a Napoli

Complottismo e coronavirus

di Ed Stetzer

Pubblichiamo qui in versione integrale il testo di Ed Stetzer (già pubblicato da un altro network evangelico in versione ridotta) sulle teorie complottiste e le fake news che si diffondono sempre di più nel mondo evangelico. A proposito di questo problema il Dirs aveva già pubblicato a inizio pandemia il contributo di Nicola Berretta che parlava del problema (https://dirs.gbu.it/wordpress/tre-domande-a-nicola-berretta-su-virus-pandemie-e-contagio/ ).

Anche Berretta aveva notato che tra i cristiani evangelici sembrava esserci una maggiore predisposizione a proposito delle fake news: questo è vero soprattutto negli USA, ma il fenomeno si è diffuso anche in Italia. Stetzer ricorda che l’ingenuità non è una virtù cristiana e che, talvolta, i credenti lo fanno con un certa ingenuità, cercando fonti alternative rispetto ai media mainstream, visti spesso come contenitori con valori alternativi alla propria fede. La diffusione dei social media, di cui stiamo anche vedendo gli effetti positivi in questo periodo di isolamento, ha portato anche alla vere e proprie fabbriche di notizie false che servono ad influenzare l’opinione pubblica ed anche la nostra. L’A. dell’articolo ci richiama alla priorità del Vangelo e del suo annuncio, ma anche dell’Amore per la Verità che dovrebbe portarci sempre a controllare quello che trasmettiamo ed a comprendere che la nostra agenda va al di là di quella di stigmatizzare il male nel mondo, senza cercare di redimerlo. La nostra speranza è che la lettura di questo articolo, come degli altri materiali che stiamo proponendo in questo periodo siano un valido ausilio e risorsa per chi voglia un’informazione corretta e documentata. In un mondo di post-verità come è quello odierno, conviene appellarsi alla Verità del Vangelo ed ad essa conformarsi anche quando diffondiamo notizie che non provengano dalla Bibbia.  (Valerio Bernardi)

 

L’attuale pandemia globale ha creato una eccezionale fioritura di teorie complottiste. Purtroppo, i Cristiani sembrano essere ingannati da queste teorie in maniera sproporzionata. Ho anche scritto precedentemente che, quando i Cristiani mentono, bisogna che si pentano di queste bugie. Condividere fake news ci fa sembrare ingenui e danneggia la nostra testimonianza. Abbiamo visto che nell’ultima elezione le fabbriche di troll si sono concentrate sui cristiani evangelici conservatori. E ora di nuovo ci troviamo nella stessa situazione.

Che fare adesso?

In primo luogo, bisogna parlare, in particolare a coloro che sono stati di nuovo ingannati e dirgli con amore: “Bisogna andare a fonti attendibili”. I feed di notizie dei social media non sono una fonte affidabile. Questo è il motivo per cui abbiamo creato www.coronavirusandthechurch.com, per fornire informazioni credibili ai pastori. Ma vi è un’abbondanza di fonti di notizie attendibili che in genere provengono da organi che non hanno precedenti nello smerciare teorie complottiste. In secondo luogo Dio non ci ha chiamato ad essere facilmente ingannati. La creduloneria non è una virtù cristiana. Credere e condividere teorie complottiste non onora il Signore. Potrebbe farci sentire meglio come fossimo esperti, ma può finire che si faccia del male agli altri e può danneggiare la nostra testimonianza. Tuttavia noi abbiamo a che fare con una nuova ondata di teorie complottiste. Si guardi alla lista su Wikipedia, o le si cerchino usando alcune parole chiave. Sono tanto diverse quanto strane. Ed i cristiani le stanno condividendo. Di nuovo.

La diffidenza verso i media ed il governo

Comprendo la diffidenza di molti cristiani nei confronti dei media e del Governo. Il Pew Research ha segnalato che molti di coloro che preferiscono credere che il virus sia stato creato nel laboratorio sono Repubblicani, coloro che tendono ad essere più religiosi e più diffidenti nei confronti del governo.

Comunque, questa diffidenza porta spesso i credenti a diventare più creduloni, piuttosto che più perspicaci.

La Parola di Dio ci chiama ad essere “saggi, non stolti” (Ef. 5, 16).

Bisogna che diveniamo perspicaci e riflessivi nelle nostre credenze ed in ciò che condividiamo con gli altri.

Se qualcuno vuole credere che qualche laboratorio segreto abbia creato il Covid-19 come arma biologica, e che ora tutti lo stanno coprendo, non lo posso fermare. Se qualcuno vuole credere ad una delle decine di teorie complottiste che stanno già circolando, questa è sua responsabilità. Ma se si crede in ciò, cosa si farà quando le persone inizieranno a credere che il vaccino è anche parte di questa cospirazione?

Allo stesso modo vediamo alcuni leader cristiani eccitati all’idea di essere perseguitati se si ignorano le attuali linee guida e si cerca di riunire un migliaio di persone per il culto durante la pandemia. Abbiamo visto qualche pastore fare uno spettacolo di sé a Pasqua quando dovrebbe rendere spettacolo molto più Gesù.

Ci sono dei problemi? Certo, alcuno sindaci ed un governatore o due hanno fatto e detto delle sciocchezze. Queste azioni sono già state portate davanti al giudice. In una crisi globale, alcuni esagerano ed altri gli rispondono e poi ci sono ancora ci sono le reazioni. Questa non è una cospirazione voluto dallo stato in segreto.

E’ vero che la Cina non è stata né di aiuto né trasparente e occorre che siano chiesti ulteriori dettagli. Domande legittime possono e devono essere chieste (e sono state chieste!) ma ci sono sbalorditive e bizzarre teorie complottiste sulla guerra biologica, su un piano di vaccinazioni malvagio, complotti per abolire la libertà religiose, torri per la trasmissione del 5G che diffondono il virus e così via.

Riempiono i social media nei feed di molto che si identificano come Cristiani. Di nuovo.

Uno dei motivi per cui ho scritto Christians in the Age of Outrage: How to Bring Our Best When the World Is at Its Worst (I cristiani nell’età dell’indignazione: come tirar fuori il nostro meglio quando il mondo è al suo punto peggiore) è perché i cristiani stanno cominciando ad essere indignati per cose che non sono vere.

Il risultato finale è essere facilmente ingannati ed aderire ad idee che possono divenire reali minacce, specialmente quando si sta cercando di sviluppare un vaccino che può portare un sostanziale aiuto alle nostre comunità. Noi che riconosciamo Gesù come nostro Signore dovremo far meglio. Molto meglio.

Dare falsa testimonianza                                                                                                                  

Nel 2017, ho scritto un articolo intitolato I cristiani si pentano (si pentano) spargere teorie complottiste e fake news: è dare falsa testimonianza”. In quell’occasione parlavo della cattiva abitudine di diffondere complotti non provati, la questione che affrontavo allora deve essere affrontata di nuovo ora.

Troppi cristiani credono che “tutto va bene” in alcune guerre e, in quell’articolo, mettevo in guardia dal non violare l’ottavo comandamento di Es. 20:16 sul dare falsa testimonianza. Non siamo condotti dalla paura o dall’ira, ma dal desiderio di “pronunciare la verità nell’amore” come Paolo ha detto in Ef. 4:15.

Diffondere speculazioni non provate è dare falsa testimonianza ed ancora credo che dobbiamo pentirci se siamo stato portatori di tali testimonianze. Bisogna che passiamo più tempo ad esaminare la parola di Dio e meno tempo nell’essere influenzati dai troll e dai clickbait nei social media.

Non è un errore che alcune delle stesse persone che hanno diffuso il complotto del Pizzagate e quello dell’omicidio di Seth Rich che sono stati discreditati, sono tornati a spargere complotti sul coronavirus. Cerchiamo di far sì che i cristiani non siano tra gli ingannati non diffondendo tra di noi quegli inganni.

La nostra testimonianza è colpita

Pensateci.
A meno che non si pensi che il Presidente Trump, i Repubblicani ed i Democratici nel Congresso, i media e la comunità scientifica sono tutti in combutta tra di loro (un vero salto della fede), ci si dovrebbe sentire in imbarazzo quando si diffondono complotti sul Coronavirus. Questi vasti complotti ci dovrebbero fare ammettere che anche il Presidente Trump sapeva che era un’arma batteriologica, che è parte del piano porre fine alla libertà religiosa, pianificando di usare un potenziale vaccino come marchio della bestia e in qualche modo il 5g ha a che fare con tutto ciò. (Certo è tutto qui, lo si può trovare sul web ed in troppi feed di social media dei cristiani).

Non ha alcun senso, se non per coloro che si fanno facilmente ingannare. Se  insistete ancora nel diffondere tali informazioni false, potreste pensare a togliere dalla vostra bio l’etichetta di Cristiani in maniera tale che il resto di noi non deve condividerne l’imbarazzo?

Arrecare danno

Per farla breve, arrecate danno a voi stessi ed alla vostra comunità. Pensate di distinguervi dagli altri ma in realtà non lo fate.

Ancora più importante è il fatto che danneggiate la nostra testimonianza e quella della vostra chiesa quando porgete attenzione a teorie e speculazioni non accertate, piuttosto che alle buone notizie che il nostro Signore ci ha comandato di proclamare.

Come ha twittato Austin Jones, “La settimana scorsa il mio feed di Facebook era pieno di gente che postava assurde teorie complottiste sul Covid, seguito da post sull’evidenza della resurrezione. Non penso che comprendessero il messaggio che stavano in realtà inviando”.

Veramente. 

Gesù nelle sua ultime parole sulla terra in Atti 1:8 ci ha promesso che riceveremo il potere dello Spirito ed renderemo testimonianza di Gesù. Non vi occorre il potere dello Spirito Santo per essere scriteriati, e non state testimoniando dell’opera salvifica del nostro Signore diffondendo complotti.

Sono grato che moltissimi pastori e leader di chiesa e le loro chiese hanno usato questo periodo fuori dall’usuale non per diffondere teorie complottiste, ma per proclamare Cristo, non per nutrire le proprie paure, ma per servire la propria comunità.

Continuiamo a esortarci reciprocamente alle buone opere, stando fermi nella verità e rifiutando ciò che è falso.

Nota alla pubblicazione:

Dalla pubblicazione di questo articolo, abbiamo ricevuto centinaia di migliaia di like ed abbiamo ricevuto molte risposte che ci appoggiavano e qualche dissenso. L’interazione è ben accetta.

Subito dopo la pubblicazione del blog, John Roberts di Fox News, una redazione di notizie tra le principali e affidabili, ha chiesto al Presidente Trump del collegamento della diffusione del virus con un laboratorio in Cina. Quella domanda, e le storie che sono seguite, non hanno realmente cambiato la mia idea: il complotto sosteneva che fosse stato creato in un laboratorio come arma biologica. Quindi, se si tratta di un virus naturale che è stato esaminato in un laboratorio e ed è sfuggito in maniera accidentale, la tesi rimane la stessa.

Come Fox News ha riportato “Le fonti credono che la trasmissione iniziale del virus, un ceppo naturale che era in quel momento studiato là, era da pipistrello ad umano e che il “paziente zero” lavorava al laboratorio, poi è arrivato alla popolazione a Wuhan”. (corsivo aggiunto)

A completa informazione, non mi aspettavo che il laboratorio fosse il punto della contesa e così non  è stato una sorpresa per me. Secondo il mio articolo, non si può mantenere un complotto tra tutte queste parti. Qualcuno si è posto la domanda e quindi si è  investigato. Allo stesso modo, possiamo essere d’accordo che le torri del 5G, i vaccini, le armi batteriologiche e le altre cose non sono un complotto? Probabilmente non tutti lo comprenderanno, ma molti si. E la mia idea ancora rimane. Ed ho scritto l’articolo per rendere chiaro tutto ciò.

Così, al contrario del complotto, il virus non è stato creato in un laboratorio come un’arma. La storia di FoxNews dice chiaramente che non è questo il caso, dicendo (loro parole), “non come un’arma batteriologica”. Le teorie complottiste si basano sulla creazione in laboratorio, le armi batteriologiche, il 5G, i vaccini e molto di più. E quando i cristiani condividono queste idee complottiste, feriscono la nostra testimonianza.

Infine, il blog continuerà regolarmente ad aggiornarsi ed io riorganizzerò i miei post, come ho fatto adesso e lo farò seguendo l’evoluzione delle nuove informazioni. Grazie per la lettura e la condivisione.

Leggere La Peste di Camus, ai tempi del Coronavirus

di Stefano Molino

La seule chose qui nous reste, c’est la comptabilité
(L’unica cosa che ci resta è la contabilità).

Così si esprime uno dei protagonisti del celebre romanzo di Albert Camus, La peste del 1947, più volte ricordato in questo giorni per l’affinità con la condizione pandemica attuale. Chi parla è un amico del protagonista, un dottore che lotta contro un’epidemia di peste scoppiata nella città di Oran. Il personaggio rassegnato constata che non resta molto altro da fare se non occuparsi del computo quotidiano dei morti. Questa frase, letta nei tempi in cui le giornate si concludono con la conferenza del capo della protezione civile Borrelli sulle statistiche di vittime, guariti, contagiati, da covid 19, mi è saltata agli occhi.

La rilettura de La peste in questi tempi propone numerosi spunti di riflessione, ma tra i tanti quello della facilità con cui ci entusiasmiamo alla notizia dei 100 morti in meno, o viceversa ci inquietiamo se ne annunciano 100 in più, mi colpisce. La riflessione di Camus, del resto, mira proprio a puntare i riflettori sul problema della morte, spingendo a considerare come, anche nelle emergenze arriva un momento in cui ci si assuefà allo scandalo della morte, quindi della vita e della sua fine, riducendola ad un semplice problema di conteggio. Da cui l’incoraggiamento a considerare che tutta la vita è un’emergenza in quanto delimitata inevitabilmente dalla morte e che la preoccupazione per la vita non dovrebbe emergere solo in contesti di emergenza. Camus non ragiona in un orizzonte trascendente. Le soleil (il sole) nei suoi romanzi sostituisce Dio e non dà risposte. In risposta all’assurdo, o non senso della vita propone un impegno per la vita che altri personaggi del romanzo incarnano. È una risposta possibile ma la proposta di un impegno autentico, che al massimo riesce a limitare i numeri delle statistiche mortuarie non mi pare contribuire molto alla questione del senso della vita e della sua eventuale assurdità…

Mi piace affiancare la frase di Tarrou, il personaggio citato all’inizio, alle riflessioni di tre secoli prima del grande Pascal, con una frase lungimirante, molto fertile in tempi di quarantena: “… tout le malheur des hommes vient d’une seule chose, qui est de ne savoir pas demeurer en repos dans une chambre” (Pensées, XI Divertissement, 168 –  Tutto il male degli uomini viene da una sola cosa, che il non saper restarsene en pace in una stanza”). Detta in questi termini suona quasi ironica, e forse irriverente per chi in questi giorni è chiuso in spazi inospitali o scomodi.

Ma il pensiero di Pascal si inserisce in una meditazione sul “divertimento”, da intendersi in senso etimologico: il di-vertire, il distogliere lo sguardo da un altra parte quando si è posti davanti allo stesso problema: “Les hommes n’ayant pu guérir la mort, la misère, l’ignorance, ils se sont avisés, pour se rendre heureux, de n’y point penser”. (Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per rendersi felici, di non pensarci affatto” (Pensées, IX Divertissement, 166). Davanti all’accecamento (l’aveuglement) e alla miseria dell’uomo, incapace di capire cosa ci stia a fare in questo mondo, e cosa gli accadrà dopo la morte, osserva uomini che si accontentano di “divertirsi”, e preferisce cercare se Dio non abbia per caso lasciato qualche segno di sé (Pensées, XVI, Transition, 229). Lo scandalo per la morte e la sua assurdità che Pascal ben avvertiva non lo porta ad un’accettazione dell’assurdo, ma alla conferma che il senso è oltre l’apparenza.

Forse dopo le statistiche quotidiane che possono portare tanto scandalo quanto  rassegnazione potremmo ricavare dalla lezione di Camus un spinta a non rassegnarci ad un mero conteggio di morti, che non è comunque che sineddoche di un’esistenza volta alla fine, indicando con Pascal, che i segni di Dio non mancano, e che davanti ad una vita volta a concludersi in modo più o meno rapido le parole di Paolo esprimono quella folgorazione di senso che chi ha incontrato Dio avverte e diffonde: “perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 6:23).

Stefano Molino, Dottore di Ricerca in Letteratura francese, è professore di Scuola Superiore a Lucca, città in cui guida anche una Chiesa evangelica locale. E’ membro del Comitato Editoriale di Edizioni GBU.

Il Ponte su cui transita ciò che ci fa bene

di Andrea Papini

Vi ricordate quello che stavate facendo l’11 Settembre del 2001, quando sono cadute le Torri Gemelle ?
Io ero in ufficio, si è sparsa la voce e la prima cosa che ho fatto, ricordo, è stato chiamare un amico missionario svizzero che lavorava in Tunisia. Volevo avvisarlo di quello che stava succedendo, in caso fosse stato l’inizio di una sollevazione mondiale contro i cristiani. Oggi, ripensandoci, mi vengono in mente diversi se e ma; all’epoca, però, chiamare Bernard mi era sembrata la cosa più logica da fare.

Se foste genovesi vi ricordereste anche e forse ancora di più, quello che stavate facendo il 14 Agosto 2018, alle 11.36.  

Era Martedì ma, a causa delle ferie estive, sembrava Sabato. Nostra figlia mi aveva chiesto di portarla in biblioteca, in centro città, per studiare con amici. Uscendo di casa avevo pensato che, già che ero in giro, sarei potuto andare a comprare delle luci da Ikea ma pioveva troppo forte, così ho lasciato Elena in biblioteca e me ne sono tornato a casa, con l’idea di godermi la mattinata in relax.

Ikea si trova a pochissimi metri dal ponte Morandi. Inoltre, se ci fossi davvero andato, quasi sicuramente lo avrei percorso per rientrare.

Ricordo che, ad un certo punto, ho iniziato a ricevere messaggi da parte di amici e fratelli da diverse parti d’Italia e del mondo. Chiedevano: ”Come state ?”, “Tutto bene ?”. All’inizio pensavo che si trattasse di persone cordiali che si informavano sulla salute della nostra famiglia ma ben presto ho capito che era successo qualcosa di grave, emozionante ed irreparabile.

Ho pensato distintamente “la nostra vita non sarà più la stessa”, ho chiamato mia moglie, abbiamo acceso la televisione, cercato tra i canali, trovato la diretta e siamo rimasti a guardare, increduli, quello sfacelo.

Piangevo e intanto pensavo che forse sarebbe venuto fuori che era meno grave di quello che sembrava, che forse era stato solo un cedimento, che alla fine sarebbe andato tutto bene.

Dio ha avuto pietà ed il ponte è crollato in uno dei giorni in assoluto meno trafficati dell’anno ma, comunque, non è andato tutto bene. Non per le 43 vittime, nemmeno per le loro famiglie ed amici.

Non è andato tutto bene per la città, per il traffico che era abituato a circolare intorno ed attraverso il Ponte, per il commercio nei quartieri coinvolti dal disastro, per le persone corse via da casa, lasciando luci accese, porte aperte e senza poter poi rientrare a prendere ciò di cui avevano bisogno.

Henry era originario dell’Ecuador, viveva e studiava a Genova, era amico di nostra figlia. Veniva spesso da noi, era un ottimo cuoco e ancora ricordo uno squisito risotto alle fragole che aveva cucinato, invitandoci a pranzo a casa nostra. Il 14 Agosto stava tornando a casa, dove viveva con la madre e il fratello e il ponte si è sbriciolato sotto le ruote della sua auto. L’hanno trovato qualche giorno dopo, scavando tra le macerie sulla riva del Polcevera. Con il passare dei giorni sono venute fuori altre storie, di sconosciuti, di conoscenti, di conoscenti di conoscenti. Si dice che l’amore non diminuisca con l’aumentare del numero delle persone che amiamo. Lo stesso avviene per il dolore. E’ stato un periodo di lacrime, rabbia, incredulità, incertezza.

Poi è iniziata la ricostruzione.

Un Ponte nuovo, costruito con una tecnologia di derivazione navale, in acciaio, disegnato dall’architetto genovese Renzo Piano, con una sezione cava per favorire la manutenzione ed un parco pubblico sottostante.

I lavori sono proseguiti alacremente, le promesse sono state sostanzialmente mantenute. Oggi, 28 Aprile 2020, a mezzogiorno campane e sirene hanno festeggiato il posizionamento dell’ultima sezione del viadotto. Molto resta da fare prima di potervi di nuovo circolare, ovviamente, ma la ferita si sta rimarginando.

Nel frattempo Genova ha guadagnato, per esempio, una nuova tangenziale a mare, costruita a tempo di record per permettere lo scorrimento del traffico che non poteva più usufruire dello svincolo autostradale mutilato. Ma ha anche perso posti di lavoro, abitazioni, vite, tempo.

Nella Bibbia non si parla di ponti stradali. E’ normale, che cosa se ne facevano di un ponte in mezzo alla pianura ?

Non si parla nemmeno di ponti navali, tranne un caso nel libro del profeta Ezechiele. E’ normale, il popolo d’Israele non è mai stato famoso per le sue capacità di navigazione ed ha sempre mostrato un certo disagio nei confronti di mari, laghi e simili.

Ma il concetto di ponte nella Parola c’è eccome. Poter passare da un posto all’altro, scavalcando il precipizio che li separa. Una Struttura la cui assenza complica la vita alle persone, impedisce loro di arrivare alla giusta destinazione. Una Struttura la cui mancanza, se ad un certo punto cessasse di essere percorribile, può avere effetti eternamente letali.

Ancora qualche mese e i genovesi potranno di nuovo passare da una riva del Polcevera all’altra senza dover scendere e risalire. Turismo e commercio potranno ricominciare ad utilizzare il nodo autostradale di Genova Ovest come facevano in passato. 

Nel frattempo però, abbiamo dovuto, insieme al mondo intero, imparare a convivere con un altro ponte, ancora più intimo; la vicinanza, il contatto che permette ad una cosa piccolissima, forse nemmeno davvero viva, di transitare da un essere umano all’altro, causando infezione, disagi, malattia, a volte morte. Abbiamo capito che facilitare il contatto tra due punti non è sempre qualcosa di auspicabile e che ci sono casi in cui è meglio stare lontani, separarsi dalla sorgente dell’infezione. Che può anche arrivare da persone e luoghi amati, facenti parte delle nostre vite.

Lezioni massicce, ricevute le quali non si può rimanere, o ritornare a, come si era prima. Di quali Ponti dovremmo approfittare ? A quali faremmo meglio a rinunciare ?

Qual è la Via per cui transita solo ciò che ci fa bene, che permette di arrivare alla Destinazione migliore possibile ?

Esiste ed è stata progettata dal numero uno degli architetti, Uno a cui non è sfuggito nulla, che ha tenuto conto di tutto.

Esiste e non aspetta altro che essere percorsa.                

A Genova ed altrove.

Andrea Papini, abita a Genova con sua moglie Aida, il gatto Peloponneso e, se non sono da qualche altra parte, tre figli. Lavora per una società di ingegneria navale e cerca di servire il Signore come può, sia partecipando come interprete a diverse conferenze in Italia e all’estero, che condividendo la responsabilità della chiesa evangelica La Promessa.

Lutero risponde alla CEI

di V. Bernardi e GC Di Gaetano

Vero tesoro della Chiesa di Cristo è il sacrosanto Vangelo, gloria e grazia di Dio.
(M. Lutero, Tesi 62 sulle indulgenze)

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, domenica 26 aprile, annunciando la cosiddetta “fase 2” dell’isolamento necessario per combattere la pandemia, ha ribadito, sicuramente a malincuore e non con qualche imbarazzo, che ancora per qualche settimana non sarà possibile aprire le chiese al pubblico per le funzioni religiose. Unica eccezione fatta è stata quella dei funerali che potranno essere presieduti da una quindicina di persone.

Poche ore dopo questa dichiarazione la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha risposto con le sue rimostranze al Governo, accampando due motivazioni fondamentali: la prima di tipo costituzionale (non sono stati interpellati come prevederebbe il dettato costituzionale), la seconda di tipo teologico. Riportiamo quello che dice il comunicato della CEI a proposito dell’importanza di celebrare Messa, in ordine alla seconda motivazione:

I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.

Come si può leggere il dovere di celebrare e partecipare alla Messa è essenzialmente dovuto al bisogno di attingere alla sorgente sacramentale necessaria al credente cattolico. In questo testo viene dunque ribadita la concezione sacramentale della funzione ecclesiale, tipica del Cattolicesimo romano, e magistralmente analizzata qualche decennio fa dal teologo evangelico Vittorio Subilia. Si tratta, in sostanza, di una delle principali caratteristiche di distinzione tra il cattolicesimo e il protestantesimo. Un buon credente cattolico per poter garantirsi la salvezza (secondo la terminologia biblica), deve durante la sua vita assolvere a tutti i sacramenti. Questa forma di disciplina ecclesiale è da noi evangelici ritenuta sbagliata in quanto cozza con quello che ci pare essere l’insegmaneto biblico centrale sulla salvezza che fa leva sulla sola fede in Gesù Cristo. Questo è il vangelo, questa è la buona notizia. Il Riformatore Martin Lutero sintetizzò mirabilmente questo punto nella sua Tesi 62 riportata sopra.

Nel 1527, quando Lutero scrive a Rudolf Hess nel periodo di diffusione della peste, ha ben chiaro questo concetto. Ma la sua voce è oggi utile anche per i consigli relativi alla questione fondamentale del discorso epidemiologico: il contagio possibile o probabile.

In primo luogo, Lutero ha la preoccupazione per le cominità locali e ritiene che sia fondamentale in una città colpita dall’epidemia che rimangano dei ministri di culto per adempiere essenzialmente a due compiti del loro ministero: il conforto delle anime e il seppellimento dei morti.

 

In secondo luogo, anch’egli ritiene doveroso mantenere i luoghi di culto aperti, anche se essenzialmente per due cose: il conforto che deriva del Vangelo e la preparazione alla morte che, in caso di epidemie, è sempre in agguato. Vi è anche un accenno al sacramento che, come è noto, per il teologo tedesco aveva una funzione diversa: ricordare la Grazia ricevuta tramite la Croce di Cristo.

 

Ma sono soprattutto le sue raccomandazioni relative al contagio quelle che vogliamo sottolineare in quanto sono quelle preminenti su tutto. Raccomandiamo queste parole a tutti coloro che in questo momento percepiscono il peso delle restrizioni fino a parlare addirittura di pericolo per la libertà di culto.

 

«È ancora più disonorevole per una persona non prestare attenzione al suo proprio corpo e non riuscire a proteggerlo dalla pestilenza al meglio delle sue capacità, e poi infettare e avvelenare gli altri che sarebbero potuti restare vivi se quella persona si fosse presa cura del suo corpo come avrebbe dovuto. Egli è quindi responsabile davanti a Dio per la morte del suo prossimo ed è omicida molte volte. Infatti, una tale persona si comporta come se una casa stesse bruciando nella città e nessuno stesse cercando di spegnere il fuoco. Invece dà libertà alle fiamme in maniera tale che l’intera città bruci, dicendo che se Dio lo volesse, potrebbe salvare la città senza acqua per spegnere il fuoco.

No, miei cari amici, questo non va bene. Usate le medicine; prendete le pozioni che vi possono aiutare; disinfettate la casa, il cortile, la strada; evitate le persone e i luoghi dove il vostro vicino non ha bisogno della vostra presenza o è guarito, e agite come un uomo che vuole aiutare a estinguere le fiamme della città.

Cos’altro è l’epidemia se non un incendio che invece di distruggere legno e paglia divora vite e corpi? Dovresti pensare in questa maniera: “Molto bene, per decisione di Dio il nemico ci ha mandato frattaglie velenose e mortali. Perciò io chiederò a Dio misericordioso di proteggerci. Poi disinfetterò, aiuterò a purificare l’aria, darò e prenderò le medicine. Eviterò luoghi e persone dove la mia presenza non è necessaria per non contaminarmi e quindi forse infettare e contaminare gli altri, e così causare la loro morte come risultato della mia negligenza. Se Dio vorrà prendermi, sicuramente mi troverà e io avrò fatto ciò che egli si aspetta da me, e così non sarò responsabile per la mia propria morte o per la morte degli altri. Se il mio vicino ha bisogno di me, comunque, non eviterò i luoghi o le persone ma ci andrò volontariamente, come ho già affermato”.

Vedi, questa è una fede realmente basata sul timore di Dio perché non è insolente né avventata né tenta Dio». (M. Lutero)

Se abbiamo lo scopo primario di preservare l’umanità e far sì che tutti possano godere di buona salute, allora ci sentiamo di dire che il restare a casa per evitare gli assembramenti che possono mettere a rischio la vita del prossimo è un bene supremo. Lo Stato ha l’onere di assumere delle decisioni per il bene comune mentre il nostro compito è quello di ubbidire, pur potendo, all’interno del dibattito democratico, dissentire su decisioni che possono essere soppesate con il pro e il contro.

Si potrebbe pensare però che quando è in gioco l’ubbidienza a Dio, l’ubbidienza allo Stato non deve essere vincolante (At 5:29). E allora chiediamoci: come ci rapportiamo noi cristiani evangelici a questa situazione? Per grazia di Dio, e in ragione di una visione della chiesa che ci viene direttamente dal Maestro, dalla testimonianza apostolica e dai vangeli, possiamo continuare a sentirci e a essere chiesa anche in queste condizioni difficili. I moderni mezzi informatici permettono di ricostituire la comunità locale anche a distanza, pur tra mille difficoltà, consentendoci di avvertire la presenza spirituale del Signore anche se mancano gli abbracci: è il radunamento “nel suo nome” quello che assicura la presenza del Signore (Mt 18:20); inoltre riceviamo l’assicurazione che il culto a Dio deve essere reso in spirito e verità, esigenza questa che non viene scalfita per nulla da un radunamento non in presenza (Gv 4:21–23)!

Ascoltiamo dunque un consiglio che, al di là della teologia, risuona di buon senso.

“Chiederò a Dio misericordioso di proteggerci. Poi disinfetterò, aiuterò a purificare l’aria, darò e prenderò le medicine. Eviterò luoghi e persone dove la mia presenza non è necessaria per non contaminarmi e quindi forse infettare e contaminare gli altri, e così causare la loro morte come risultato della mia negligenza” (M. Lutero)

Anche io, evangelico, ho celebrato la Liberazione, ma…

Redazione: Il prof. Giancarlo Rinaldi, amico e contributore della nostra avventura sprituale e intellettuale, ha voluto offrire il suo prezioso contributo al dibattito, quasi scontato, relativo alle celebrazioni del 25 Aprile. Accogliamo con piacere la sua nota di precauzione che ha ancor più valore qualora l’adesione ai simboli della festa andasse al di là della sua naturale connotazione istituzionale e di memoria fondativa della condizione democratica contemporanea. Concordiamo in toto con il suo appello affinché il ricordo della liberazione dall’occupazione nazista dell’Italia e la fine della guerra civile non si trasformi in strumento di contrapposizione politica che non ci appartiene.
Il vangelo è la buona novella per la salvezza di chiunque crede e non possiamo farci scrupoli in ordine a chi rivolgerci per annunciarlo e condividerlo.

di Giancarlo Rinaldi

Continuo a credere (e sarà difficile smentirmi) che il Dipartimento Ricerca e Studi dei Gruppi Biblici Universitari costituisca una delle migliori palestre di pensiero del malridotto evangelismo italiano. Anche per questo mi “armo di penna” e, per quel che possa valere, mi permetto di dire la mia.

Sono stimolato dall’intervento del fraterno amico e collega Valerio Bernardi il quale ha con dovizia di documentazione e riflessione esposto perché un evangelico debba celebrare il 25 aprile, festa della Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dalla dittatura fascista. Bernardi è un docente e quando ci si trova oggi di fronte a un insegnante che conserva l’entusiasmo per la sua professione e coltiva l’aggiornamento necessario non dico che ci si inchina (sarebbe troppo!) ma ci si leva sicuramente il cappello.

Proprio perché il Bernardi “ci crede” mi sento stimolato a far si che il suo non sia un monologo e, pertanto, esterno la mia con spirito di cooperazione a un dibattito che, mi sembra di capire, lo stesso DIRST auspica e sollecita.

Non ripeto i molteplici motivi esposti da Valerio per perorare la causa secondo la quale un italiano cristiano evangelico debba celebrare la ricorrenza, anzi: non possa non celebrarla. Non li ripeto perché in pieno li condivido, ma… credo anche che se si chiama in causa lo specifico del cristiano evangelico sia il caso di dirla tutta su questo specifico. Due piccole chiose, intanto:

  1. Si dice che il 25 aprile recò a noi evangelici immediata libertà. Falso e per sapere la verità basterebbe interrogare, se fosse possibile, i predicatori della Chiesa di Cristo (a cui Valerio appartiene) vessati anche nel post ’45. Lo stesso per i pentecostali, come ho esposto nel libro sulla loro storia (edito dai GBU) che Valerio ha avuto l’amabilità di rammentare ai lettori. E la verità è che sovente la condizione degli evangelici addirittura peggiorò per almeno due semplici motivi: 1. quando si ritirarono le truppe americane i protestanti rimasero nelle ‘fauci’ di partiti politici che, chi per un motivo chi per un altro, si girarono dall’altra parte per non vedere (tranne rarissime eccezioni di membri di partiti ‘laici’); 2. Il motivo essenziale delle persecuzioni antiprotestanti non erano determinate in primis dal regime fascista (il quale in materia nutriva un’ignoranza crassa e sedimentata e si svegliò per mordere in coincidenza della guerra) bensì dalla nunziatura apostolica della Santa Sede presso il governo italiano che fu attivissima in tal senso sin dagli anni Venti. Fino a quando rimasero in sella Francesco Buffarini Guidi (cardinale) e Mario Scelba (ministro degli interni), cioè fino al 1954/1955 i protestanti zelanti nella loro missione potevano rassegnarsi a essere avanzi di galera o qualcosa di simile.
  2. Si dice che a sèguito della Liberazione il cattolicesimo romano non fu più religione di Stato. Falso. Imperversando dopo il ’45 il pestifero dittico Togliatti / Dossetti, Vaticano e Italia fecero tutt’uno… nella disperata ricerca del voto dei cattolici da parte di ciascuno dei citati. Il voto nel 1946 per inserire i Patti Lateranensi in Costituzione docet. Abbiamo dovuto aspettare il 1984 (leggasi: c. 40 anni!) per vedere l’Italia senza una “religione di Stato”.
  3. V’è un continuum tra Liberazione (25 aprile) e liberazione biblica. Errore, e anche dannoso. La prima ebbe a svolgersi su un livello esclusivamente politico e coinvolse le masse, la seconda è esperienza che si realizza nel foro interiore del singolo individuo. Guai a confondere i due àmbiti, avremmo due mali insieme: una politica religiosamente fondamentalista e un cristianesimo politicizzato. E Dio ci liberi dalle due piaghe!

Noi siamo felici che nel ‘45 le cose siano andate così e, al netto di errori e orrori commessi a guerra finita da partigiani (credo spesso sedicenti) contro gli sconfitti, celebriamo gioiosamente l’evento. E chi, sano di mente e onesto nei suoi intenti, non si unirebbe ala festa per il tramonto di una dittatura? Dunque celebri il cristiano evangelico italiano la festa della Liberazione ma, se proprio intende agire nel suo specifico di evangelico, tenga presente che non potrà limitarsi a considerare risolta la faccenda una volta ottenuta la prevalenza di una parte sull’altra. La cittadinanza del cristiano (lo insegnò Paolo in Fil. 3,20) non è né quella della Repubblica di Salò ma neanche quella della Repubblica partigiana della Val d’Ossola: è sempre e solo quella celeste.

Il movimento dell’apocalittica al quale il cristianesimo appartenne toto corde era ben consapevole che i potentati terreni hanno tutti la medesima natura beluina, che apparve nelle visioni di Daniele e in quelle di Giovanni, così come noi oggi siamo ben consapevoli che una cosa è la prevalenza di una parte della popolazione, altra è l’avvento del Regno di Dio. Scendiamo nei particolari: tra coloro che si attivarono per la santa causa della sconfitta del nazifascismo ve n’erano, e non pochi, di coloro che al posto di questa “bestia danielica” sognavano l’avvento di un’altra non meno crudele; era quella rossa del sangue dei martiri cristiani mandati non già a Ponza o a Ventotene bensì nei ghiacci della Siberia o, peggio, nei campi di rieducazione, stroncati dalla falce della dittatura a partito unico e schiacciati dal martello del materialismo ateistico.

In quanto italiani si canti Bella ciao, in quanto evangelici si canti Innalzate il vessil della croce, libertà deh bandite agli schiavi poiché quest’ultima è specifica sulle labbra dei credenti: il canto della liberazione del peccatore dalla sua triste vita e della santificazione del cristiano contro la sua carnalità. E se vogliamo cantar l’una e l’altra: bene, ma si tenga presente il significato specifico di ciascun termine.

Il cristiano evangelico è cittadino del mondo, non è sovranista, non crede in confini e dogane, accoglie e abbraccia gente dall’universo pianeta… non è vero? Dunque questa festa la si celebri non come fine di una guerra civile o come una faccenda interna alla nostra nazional vicenda. La si elevi a festa della Liberazione da ogni tirannide, da ogni egemonia sia nera, sia rossa o di qualsiasi altro colore. A tanti anni di distanza da quel 25 aprile si conservi eternamente la memoria dell’evento (e anche della sua specificità) ma la si consacri su un altare eretto a celebrare la libertà da ogni tirannide, dal flagello della svastica così come dalla lebbra della falce e martello, dall’idolo del liberismo economico così come dal culto dell’economia, dall’islam intollerante così come dall’intolleranza che è pur sempre in noi stessi.

Attenti fratelli evangelici: sbagliammo quando pensammo di tenere la politica fuori dalle nostre vite, ma possiamo ancor più sbagliare se pensiamo di introdurla nelle nostre chiese. Abbiamo in Italia fin troppi esempi di identità diluite, cappelle desertificate, messaggi secolarizzati. Non è il caso.

Se vogliamo far politica facciamo bene a farla, ma se chiamiamo in causa il vangelo allora si voli alto ben più alto di sezioni e cellule, di campanili e steccati, fino a quando non saremo capaci di scorgere l’umanità tutta bisognosa dell’unico rimedio per l’unico male che tutti ci accomuna: ai peccatori la buna notizia della salvezza, ai credenti quella dell’intera santificazione.

L’articolo è stato pubblicato sul blog personale di Giancarlo Rinaldi e qui viene ripreso con autorizzazione del suo autore.