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Capire la Bibbia cambia tutto

Nuova Traduzione Vivente: capire la Bibbia cambia tutto

di Filippo Falcone

 

Il giorno 20 maggio 2023 è stato presentato presso il Salone del Libro di Torino – sala Madrid – il Nuovo Testamento versione Nuova Traduzione Vivente in lingua italiana (NTVi), edito per i tipi della Società Biblica di Ginevra e frutto di un lavoro che per sette anni ha visto coinvolta un’équipe di 6 teologi, biblisti, letterati e linguisti italiani.

La NTVi è una traduzione della Bibbia moderna e affidabile, che abbina la più aggiornata ricerca biblica a uno stile di scrittura chiaro e dinamico. Questa versione della Bibbia trasmette l’annuncio evangelico in modo espressivo e preciso, e comunica con accuratezza il significato, il contenuto e il portato linguistico-culturale delle forme del testo biblico originale, servendosi di un linguaggio contemporaneo e di facile comprensione.

Muovendo dall’impianto della New Living Translation (Tyndale House), terza traduzione della Bibbia in lingua inglese, alla quale hanno lavorato oltre 90 biblisti del mondo anglofono, la NTVi adotta un approccio traduttologico funzionale o a equivalenze dinamiche. Tale approccio predilige la chiarezza dei significati e l’immediatezza dell’effetto all’aderenza lessicale e morfosintattica al testo di origine. Pertanto, là dove una traduzione parola per parola non fosse in grado di restituire un testo piano al lettore italiano contemporaneo, il comitato di traduzione NTVi ha optato per una traduzione concetto per concetto.

Sorge qui subito un’obiezione in relazione al valore del segno e della singola parola. Dopo tutto, Gesù stesso afferma: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. La NTVi non intende sminuire o relativizzare il valore del singolo segno o della singola parola all’interno del testo. Al contrario, si fa carico di valorizzarla nel contesto dei suoi rapporti con le altre parole e con un intero contesto. La parola in questo senso prende vita e assume valore in ordine ai rapporti di significato di cui è parte e che genera.

Con la NTVi la Società Biblica di Ginevra colma un vuoto lasciato dalle principali traduzioni protestanti e cattoliche – fatta eccezione per l’Interconfessionale, che ha tuttavia la tendenza a cedere alla tentazione della parafrasi – le quali antepongono sistematicamente l’aderenza formale al testo d’origine all’immediatezza dei significati e all’espressività del testo di partenza. Il mito di una traduzione più fedele e accurata quanto più aderente alla lettera dell’originale condiziona ancora i giudizi. Nell’approntare una traduzione, occorre considerare come qualcosa del testo di origine vada inevitabilmente perso. Il traduttore dovrà allora stabilire che cosa intende guadagnare e cosa è disposto a perdere. Tutto ciò che le altre traduzioni perdono, la NTVi lo recupera. In questo senso, la NTVi diventa un complemento fondamentale alle traduzioni già esistenti, sia in funzione di una lettura devozionale sia dello studio.

Una traduzione formale pura – nessuna traduzione “formale” può dirsi pura; l’adesione assoluta alle forme originali comporterebbe infatti, tra le altre cose, il completo snaturamento dei significati nella lingua d’arrivo – presupporrebbe idealmente l’esistenza di un deposito linguistico statico e indipendente da un contesto storico-culturale, sociale, letterario e personale proprio dell’autore e del lettore originario. Un testo simile non esiste e certamente i testi che compongono il NT, scritti o redatti, nel caso di una trasmissione orale precedente la stesura, non sono quel testo. Sono piuttosto ciò che in linguistica definiremmo “atti” o “fenomeni linguistici” afferenti a un contesto dinamico.

Questi atti rivendicano a un tempo natura di rivelazione. Non si tratta, tuttavia, di una rivelazione altra dalla storia dell’uomo bensì, direbbe Corsani, di una rivelazione calata proprio in quella storia. La parola, per così dire, si incarna, si carica delle forme umane, elegge le cose che non sono, autori e lettori, e le riscatta. Viene riflesso così il movimento del Dio che si rivela in questa parola. Il Dio del vangelo non pretende che l’uomo lo raggiunga dove è lui (“Chi è mail salito in cielo?”), ma raggiunge l’uomo là dove si trova con la sua grazia. Potremmo dire allora che l’annuncio corrisponde alla forma in cui l’annuncio è trasmesso. Gli atti linguistici del NT hanno in un senso molto reale una qualità performativa. Essi fanno ciò che dicono.

La lingua del NT non a caso non è un greco elevato o letterario, ma il greco della Koinè, il greco del mercato, la lingua del popolo. Questa lingua ha la capacità di raggiungere i lettori là dove si trovano, ponendo gli autori in relazione immediata con loro e con il loro contesto. È una lingua costitutivamente democratica ed essa stessa conforme all’annuncio del Dio che è nel contempo l’assolutamente Altro e l’Emmanuele.

La NTVi intende riprodurre questo movimento, cercando di fare per la nostra generazione ciò che le traduzioni di Wycliffe e Lutero hanno fatto per le loro. In un certo senso, la NTVi decostruisce la lingua d’origine, intesa nella sua staticità, e con essa il contesto storico-culturale e sociale che l’informa per restituirne il portato al lettore italiano di oggi. Non solo, la NTVi decostruisce altresì le sovrastrutture delle molteplici traduzioni con cui entra in conversazione – Nuova Riveduta, CEI, (Nuova) Diodati, BIR ecc. – per riscoprire un testo che parli al lettore di oggi in Italia come parlava al lettore originario.

In definitiva, la NTVi pone in relazione il testo greco con il lettore italiano oggi, rappresentando una sorta di intertesto compiuto e dinamico, il terreno di un incontro tra il lettore e l’annuncio evangelico e, da ultimo, come vorrebbe Barth, lo spazio dell’incontro fra il lettore e Cristo.

Crediamo che la verità viva in questa parola; ma crediamo anche che questa verità non sia statica, fatta di enunciati che l’uomo possa controllare e custodire come un feticcio. La verità non può essere proprietà di una forma esterna, neppure di una forma che annunci quella verità. La sua natura è dinamica e relazionale e la persona che la informa non la si può cercare tra i morti.

La NTVi nasce come testo adatto a una lettura ad alta voce, un testo pensato per i giovani, per chi è digiuno delle Scritture, ma anche per coloro che hanno grande familiarità con le Scritture. La NTVi ha la capacità di decostruire i presupposti con cui ci avviciniamo al testo, rimuovere, per così dire, le lenti, i costrutti, attraverso cui lo leggiamo, consentendoci di riscoprirlo.

Lo sforzo editoriale compiuto dalla Società Biblica di Ginevra è altresì un invito nuovo rivolto alle donne e agli uomini italiani di questa generazione affinché possano scoprire che questa parola è per loro e affinché, scoprendola, conoscano la verità che vive in lei.

Veramente, capire la Bibbia cambia tutto!

Tre domande a Luca Ciotta su Dio e il Karma

Qualche settimana fa una donna visibilmente innammorata e commossa per il gesto del suo uomo, un famoso calciatore, gli dedicava un pensiero in cui gli riconosceva il dono del karma, aggiungendo “Dio lo sa, Dio te lo ha dato”.
Quest’affermazione ci ha fatto venire in mento di porre a Luca Ciotta, del CESNUR di Torino, le nostre tre canoniche domande relative al karma (Redazione).

1. Quale potrebbe essere una definizione del karma?

Il karma, in religioni quali l’induismo e il buddhismo dove di fatto nasce e si sviluppa, è la convinzione che le nostre azioni in questa vita condizionino le nostre vite future. Naturalmente, il karma nasce dalla dottrina della reincarnazione, il credere in un susseguirsi di esistenze che nel mondo Occidentale equivale ad un’opportunità, mentre nell’induismo e nel buddhismo viene considerata una realtà dalla quale liberarsi.

Il karma è equiparabile ad una legge: un principio di giustizia retributiva che determina lo stato di una vita e la condizione delle future reincarnazioni come effetto di azioni eseguite in passato.

 

2. Quale l’influenza del karma sulle vite degli uomini?

Lo stato del karma determina dunque il destino delle vite future, procedendo verso reincarnazioni migliori o peggiori.

Non è sempre chiaro il tipo di azioni da compiere per migliorare il proprio karma e quindi il livello della successiva reincarnazione: dipende dalla scuola induista e buddhista di appartenenza e dalla dottrina del maestro a cui ci si sottomesse.

Nel moderno Occidente, il karma di solito si identifica con il destino: una sorta di “fato” non sempre legato ad azioni determinate oppure alla dottrina della reincarnazione.

 

3. Che relazione tra il karma e la Bibbia?

L’idea di una legge meccanicistica di causa – effetto alla quale tutti sono soggetti (anche i cosiddetti “Dèi” nell’induismo) non è presente nella rivelazione giudaico-cristiana, dove è un Dio personale, vivente e relazionale ad incontrarsi con l’uomo ha creato, a guidare i suoi passi e in ultima istanza a valutarlo. Peraltro la reincarnazione, legata indissolubilmente al karma, non è presente nelle Scritture, dove viene affermato chiaramente che è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio (Ebrei 9:27). L’uomo certamente è responsabile delle sue azioni (Galati 6:7), ma davanti a un Dio che lo ama e non di fronte ad una legge irreversibile e impersonale.

Nel Nuovo Testamento l’avvento del Signore Gesù evidenzia la realtà della grazia – peraltro già presente nell’Antico Testamento – ottenuta mediante la fede in Lui che porta al perdono di azioni errate e alla vita eterna in Sua presenza.

Troviamo dunque promesse migliori nella rivelazione giudaico cristiana, particolarmente riferendoci alle conseguenze della venuta e dell’opera del Signore Gesù Cristo.

Nel karma rendo conto a qualcosa, nella Bibbia mi rapporto con qualcuno, le cui meravigliose caratteristiche sono oltremodo convincenti.

 

Luca Ciotta, bibliotecario e ricercatore al Cesnur di Torino (Centro Studi Nuove Religioni)

Violenza monoteista?

La violenza è percepita oggi, almeno in Occidente, come uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo. L’opinione comune, che ne è angosciata e ossessivamente preoccupata, scopre con sorpresa mista a stupore che questa è in parte correlata alla religione. La religione, che nel secolo scorso era ritenuta piuttosto inoffensiva e particolarmente inefficace, è riemersa nel XXI secolo sotto le caratteristiche minacciose del jihadista. La famosa frase di Andre Malraux1 sul religioso XXI secolo, spesso citata con ironia, non fa più sorridere, ma rabbrividire. Nel tentativo di esorcizzare l’ansia cerchiamo di convincerci che la religione non c’entra niente con la violenza, che lo scatenarsi della violenza debba essere attribuito a estremisti canaglie che non hanno compreso nulla della religione che sostengono di servire. Ci affrettiamo a sostenere e ribadire in coro che la religione in questione è una religione di pace, come se l’incantesimo avesse il potere di realizzare quello che ci si augura … senza però che ci crediamo troppo.

In questo clima non sorprende che vengano mosse critiche alla religione stessa. Non è forse vero che essa si ritroverebbe alla radice delle violenze che hanno segnato la storia e che pre­occupano così tanto il tempo presente? Il bersaglio principale di queste critiche contemporanee è il monoteismo. Sorge un dubbio: è per cercare di non stigmatizzare l’Islam che le tre re­ligioni del Dio unico sono unite sotto la stessa riprovazione? Si noterà comunque che le critiche sono rivolte in gran parte, spesso esclusivamente, contro l’Antico Testamento e contro il Cristianesimo. Gli autori del recente rapporto della Commis­sione teologica cattolica internazionale2 sono stupiti, e giu­stamente, in quanto si rendono conto che l’obiettivo prin­cipale della critica contemporanea è la religione monoteista che ai nostri giorni sta compiendo i maggiori sforzi in vista di un dialogo di pace tra le principali religioni, e i cui fede­li, «in molte parti del mondo, sono colpiti da intimidazioni e violenze per la semplice ragione di appartenere [appunto] alla comunità cristiana». Il rapporto presenta alcune interessanti ipotesi sia relative al silenzio verso l’Ebraismo e l’Islam sia sul sorprendente accanimento contro il Cristianesimo.

Il motivo dichiarato della critica è di tipo logico: si pensa di aver trovato nella credenza in un Dio unico la causa del­la violenza. L’argomento è di una semplicità disarmante: se credi che il tuo Dio è l’unico vero, non considererai i segua­ci di altre religioni, o gli atei, come estranei, empi, persino come nemici da abbattere? Come potrebbe, chi non accetta altro Dio che il proprio, tollerare convinzioni e pratiche di­verse dalla propria?

Accuse antiche
Va detto che una simile accusa non è recente. Due brevi accenni permetteranno di apprezzare sia la conti­nuità dei rimproveri sia la peculiarità della critica attuale.

Nel secondo secolo della nostra era il filosofo Celso denun­ciava l’Ebraismo e il Cristianesimo come religioni che pro­muovevano la ribellione, che turbavano il vivere comunitario3 della società antica. Egli non attribuisce esplicitamente que­sto vizio al credere in un solo Dio, ma non riesce a spiegarsi perché i cristiani si rifiutino di immaginare che si possa ado­rare la stessa divinità chiamandola con nomi diversi: «Penso che sia indifferente, afferma, chiamare l’Altissimo Zeus, Zen, Adonai, Sabaoth, Amon come gli Egiziani, Papaeos come gli Sciti» (Origene, Contra Celsum, V, 41; SC 136, v. III, 1969, p. 123).

All’epoca dei Lumi, Voltaire, denunciava con la sua tipica ver­ve i massacri commessi in nome della religione. Nell’articolo “Religion” nel suo Dictionnaire Philosophique (1769), non ha tuttavia in mente il monoteismo come causa della violenza re­ligiosa, sebbene metta sul banco dei colpevoli Ebrei e Cristiani: «i maomettani, scrive, si sono sporcati degli stessi atti inumani ma raramente»

Le altre religioni sono totalmente sdoga­nate: «Per quanto riguarda le altre nazioni, non ne esiste nessu­na dall’inizio del mondo che abbia mai combattuto una guer­ra meramente di religione»5. Poche pagine dopo, menzionan­do esplicitamente il paganesimo, ripete: «La religione pagana ha sparso pochissimo sangue; mentre la nostra ne ha coperto la terra» (in it. p. 2639). Se non incrimina il monoteismo nel suo atto d’accusa è perché non considera la fede in un solo Dio come una specificità dell’Ebraismo e del Cristianesimo: «Fu a quell’epoca, quando il culto di un Dio supremo si era uni­versalmente affermato tra tutti i saggi in Asia, in Europa e in Africa che la religione cristiana ebbe origine» (in it. p. 2655). La stessa convinzione viene espressa a proposito dei Romani, nell’articolo “Dieu, dieux”:

«Questa adorazione di un Dio supremo è attestata da Romolo fino alla distruzione definitiva dell’impero, e della sua religio­ne. Malgrado tutte le follie del popolo che venerava dèi secon­dari e ridicoli, e malgrado gli epicurei che, in fondo, non ne riconoscevano nessuno, è assodato che i magistrati e i savi ado­rarono in ogni epoca un Dio sovrano»6.

La violenza che Voltaire non imputa al monoteismo in sé l’at­tribuisce a ciò che egli chiama teologia. Nell’articolo Religion si oppone a due forme di culto. Nella prima, che considera in­nocua e definisce «religione dello Stato»7, i ministri di culto, gli iman [sic], i preti e i pastori mantengono lo status civile e inse­gnano la morale della gente sotto il controllo delle autorità ci­vili (in it. p. 2661). La seconda, la «religione teologica» è, dice, «l’origine di tutte le idiozie e di tutti i disordini immaginabili; è la madre del fanatismo e della discordia civile; è la nemica del genere umano» (idem).

Il monoteismo è chiamato in causa
La discussione sul monoteismo in quanto tale appare esse­re uno dei tratti specifici che caratterizzano maggiormen­te8 il dibattito contemporaneo.

Questo processo al monotei­smo, ampiamente avviato già negli anni ’90 del ‘900, è sta­to aperto dalle pubblicazioni di autori le cui competenze di base sono esterne al campo della teologia, come ad esem­pio l’egittologo Jan Assmann, in Germania, il sociologo del­la religione Rodney Stark o la specialista di letteratura inglese del diciassettesimo secolo, Regina Schwartz, negli Stati Uni­ti. Una volta avviata, la controversia ha raggiunto logicamen­te il campo della teologia, lo studio dell’Antico Testamento ovviamente, ma anche il Nuovo Testamento e la sistemati­ca, senza dimenticare la storia, grandemente sollecitata. Dal momento che il dibattito investe la società nel suo comples­so, non si riescono a contare gli autori, provenienti da tutti gli ambienti, che hanno voluto a tutti i costi dare il loro con­tributo. …

 

Il dibattito biblico

In teologia non si è persa l’opportunità di cogliere il problema per affrontare nuovamente la questione del monoteismo. Nel­lo studio dell’Antico Testamento il monoteismo è stato, fin dall’avvento della moderna critica biblica, uno dei temi cru­ciali nell’analisi della religione d’Israele. A partire dallo sche­ma evolutivo, che ha visto nel monoteismo il culmine di un progresso religioso, si è cercato di individuare nei testi bibli­ci le tracce di questa evoluzione. Quando apparve il monotei­smo nella storia di Israele? Al tempo di Mosè? Con la riforma di Giosia? Durante l’esilio? Dopo l’esilio? Quali furono le tap­pe che precedettero tale evoluzione? Quali sono stati i fattori interni o esterni che hanno causato o facilitato l’emergere del fenomeno nella storia religiosa dell’umanità? La presunta data di edizione dei testi biblici e loro successive edizioni ha pesato fortemente nell’elaborazione degli schemi proposti, rischian­do di finire sempre in un circolo vizioso a causa del metodo: se il monoteismo appare in un testo ritenuto tardo, si conclu­derà che la dottrina è tarda e, al contrario, se un testo afferma un’idea di tipo monoteista, si dedurrà che tale testo non può essere altro che tardo. …

Il dibattito così avviato può suggerire le seguenti conclusioni.

1) Sembra innegabile che il discorso dell’unico Dio comporti un rischio, almeno latente, di violenza. Non stiamo cercando di determinare se le religioni monoteiste debbano essere rite­nute responsabili di maggiore violenza delle altre. La violen­za colpisce tutte le opere umane, inclusa la religione, per una serie molto ampia di motivi. Ci si limita qui a riconoscere l’e­sistenza di uno specifico fattore di violenza legato alla fede in un unico Dio.

2) Tentare di svincolare il monoteismo dalla violenza di cui è accusato, promuovendo una particolare definizione di mono­teismo, un monoteismo cosiddetto aperto, inclusivo, ponde­rato, compiuto, etc., è un’operazione che non corrisponde né alla testimonianza biblica, di cui saremmo costretti a rifiuta­re una parte notevole né alle credenze rappresentative più co­stanti e caratteristiche delle tre religioni monoteiste. Certa­mente Dio si pone sempre al di là delle nostre rappresentazio­ni umane, ma la rivelazione che la Scrittura pretende di por­tare è ben presentata come l’unica via di verità su Dio …

3) Nella violenza di cui può essere giustamente accusato il Cristianesimo, il legame col potere politico ha avuto un ruolo decisivo …

Ripensare i cinque Sola

Riflessioni sulla Riforma. Ripensare i cinque Sola

K. Vanhoozer, Biblical Authority after Babel. Retrieving the Solas in the Spirit of Mere Protestant Christianity, Brazos Press, 2016.

Tra i testi che abbiamo esaminato sulla Riforma, abbiamo dato conto soprattutto di quello che è stato pubblicato in italiano. Se vogliamo però esaminare un testo, di stampo evangelico, che abbia una disamina teologica di quanto ci rimane dei principi del protestantesimo, dobbiamo, per forza di cose, guardare al mondo anglosassone. Tra i numerosi testi pubblicati la nostra attenzione è caduta su quello di Kevin Vanhoozer intitolato L’autorità biblica dopo Babele. Recuperare i Sola nello spirito del semplice cristianesimo protestante.

Il teologo statunitense nel suo saggio, mette insieme riferimenti al testo biblico, alla teologia riformata (soprattutto quella magisteriale) e l’analisi della situazione teologica contemporanea. Ogni capitolo (dopo l’introduzione, ce ne sono cinque, ognuno dedicato ad uno dei sola con una conclusione), mantiene una struttura analoga. Dopo una breve introduzione, ci si chiede cosa significasse il particolare Sola per i Riformatori del XVI secolo, lo si analizza da un punto di vista biblico-teologico e si conclude con delle tesi che vanno a contribuire alla conclusione globale del testo.

L’A., sin dalla prefazione, afferma di voler mantenere sia la cattolicità del protestantesimo, inteso come universalità del concetto di Chiesa e del messaggio di salvezza e le basi del suo credo che sono essenzialmente trinitarie. Al centro della discussione sul Sola Gratia,  non vi è soltanto la spiegazione del significato del dono della Grazia all’interno del Protestantesimo, ma anche (non bisogna dimenticare che Vanhoozer è diventato famoso per i suoi studi sull’ermeneutica e sull’autorità della Bibbia) del rapporto che esiste tra la dottrina della Grazia e l’interpretazione biblica. Essere all’interno della Grazia di Dio significa accettare il testo biblico come ci è pervenuto e non cercare di forzarne il significato, ma farci assistere per interpretarlo dalla Grazia di Dio.

Il secondo capitolo è dedicato al sola fide. Al centro del discorso del teologo vi è proprio il concetto di autorità divina, di cui bisogna fidarsi. Anche nell’ermeneutica biblica e nelle varie applicazioni che di essa facciamo dobbiamo tenere conto dell’orizzonte trinitario in cui ci muoviamo, di come questa tradizione sia stata rispettata dai vari tipi di esegesi proposte nel corso dei secoli. La conclusione è quella di trovare un giusto equilibrio tra la certezza assoluta (che l’interprete non può mai avere e che dovrebbe validare in una comunità di fede) e lo scetticismo relativistico che rischia di non rendere più affidabile il messaggio biblico: per l’A., quindi, un approccio critico è indispensabile senza che però divenga prevalente nella lettura del testo.

Il centro del saggio, proprio per la particolare enfasi data alla questione dell’interpretazione del testo biblico, è il capitolo dedicato al sola Scriptura. Vanhoozer riprende il modello interpretativo di McGrath che ritiene che il libero esame della Scrittura sia uno dei punti cardine che accomuna tutto il protestantesimo, ma ammette anche le difficoltà che ci sono state nell’applicazione del principio, non essendo concordi sui metodi esegetici ed ermeneutici che si devono costruire. Nel capitolo, tenendo conto che per ogni evangelico la Scrittura rimane il principale criterio di autorità, si esamina il rapporto con la cattolicità, quello con la tradizione e quello con le autorità ecclesiastiche. La conclusione dell’A. è che, tenendo conto di questi fattori, bisogna avere nei confronti del testo biblico un approccio critico e, allo stesso tempo, che tenga conto anche dell’universalità dell’interpretazione.

Cristo al centro è stato uno dei leitmotiv di buona parte del pensiero teologico protestante, soprattutto quello contemporaneo. Nel capitolo dedicato al Solus Christus è collegato soprattutto all’autorità biblica che passa attraverso quella della chiesa. Riprendendo alcune suggestioni del pensiero di Hauerwas (che, in parte reinterpreta alcuni passi di Yoder e della revisione delle ecclesiologia anabattista), si ritiene che Cristo è colui che convalida la testimonianza comunitaria della Chiesa che supporta l’interpretazione biblica che, in questa maniera, può avere una sua oggettività e non sfociare nell’irrazionalismo e nella scelta meramente individuale. Si propone un sano denominazionalismo che sia consapevole delle proprie radici e che, proprio per questo motivo, può diventare promotore di interpretazioni che possono essere diverse. Allo stesso tempo, il solus Christus, permette alla Chiesa di poter cercare forme di unità e collaborazione pur nella pluralità. Questo aspetto della comunione diretta con Cristo della comunità locale che è propria del protestantesimo più radicale, permette anche il tentativo di avere forma di collaborazione e di interpretazione comune del dato biblico.

L’ultimo capitolo è dedicato al soli Deo gloria. Per Vanhoozer è proprio il mettersi al servizio di Dio che permette alla Chiesa la possibilità di potersi riconciliare e trovare soluzioni all’interno di un pluralismo che è tipico del protestantesimo. La conclusione è che il protestantesimo, soprattutto nella sua ala evangelica, deve ricordare quanto deve alla tradizione e come deve attenersi alla economia del Vangelo, facendo affermare una lettura chiara della Bibbia. Dopo l’apparente Babele dovuta al libero esame, bisogna passare ad una Pentecoste, guidata dallo Spirito, che possa dare certezza delle proprie interpretazioni bibliche all’interno della comunità confessante.

Il saggio ha un’impostazione originale e merita di essere letto per una proposta mediana all’interno del protestantesimo evangelico che cerca di mantenere insieme diverse delle opzioni che sono maturate e riconosce che l’interpretazione del testo biblico è al centro della vita degli evangelici.

(Valerio Bernardi – DIRS GBU)

Poeti e poesie della Bibbia

Lunedì Letterario del 4 giugno 2018

(Filippo Falcone)

 

Poeti e poesie della BibbiaPoeti e poesie della Bibbia, libro edito per i tipi di Claudiana (2018), è il frutto di una ricerca rigorosa e fruttuosa condotta da Sara Ferrari, docente di Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano. Ferrari propone l’analisi della cantica del mare e del canto di Debora (cap. 1), del canto di Anna e dell’elegia di Davide in morte di Saul e Gionata (cap. 2), del componimento di Osea 2:4-25 e del cap. 7 del Cantico dei Cantici (cap. 3) e, infine, dei Salmi 126 e 137 (cap. 4).

Una ricerca, quella dell’autrice, rigorosa e fruttuosa, dicevo. Rigorosa, perché si confronta con la critica storica in modo ampio e imparziale, pesando i vari contributi da un punto di vista storico-culturale, filologico, linguistico ed esegetico. Fruttuosa, perché introduce una consistente analisi poetica che fa affiorare significati e rapporti intra e inter-testuali del tutto significativi.

Il confronto con la critica storica, in effetti, mette in luce, ancora una volta, tutti i suoi limiti. Se l’autrice riporta con accuratezza i risultati della ricerca in termini di collocazione dei testi, datazione, paternità e ricostruzione filologica, tali risultati si presentano come antitetici, contradditori e largamente congetturali. La forza dell’opera risiede allora, tutta, nell’analisi testuale. Essa non prescinde dalla contestualizzazione storico-culturale e filologica, ma legge le categorie storiche e teologiche in funzione di quelle poetiche. In questo senso, è la forma a gettare luce sui contenuti e a mostrarne di nuovi. In alcuni casi, il close-reading poetico è persino capace, da solo, di ribaltare convinzioni premiate dal tempo circa l’unità e quindi la paternità di un testo o le relazioni di dipendenza fra testi.

L’approccio di Ferrari si inscrive nel solco di Robert Alter. Nei suoi lavori (e.g. L’arte della narrativa biblica, L’arte della poesia biblica), il noto ebraista della Berkeley fornisce un paradigma analitico, un vero e proprio modello procedurale, che Ferrari adotta e riproduce affrontando testi lambiti da Alter soltanto per contiguità. Così facendo, colma un vuoto che lo studioso americano ha iniziato a riempire.

La cantica del mare, in cui la voce di Mosè si intreccia a quella di Miriam, celebra una liberazione archetipica paradigma di ogni liberazione futura, una liberazione attraverso cui il popolo conosce il suo Dio, la sua giustizia come il suo amore, e riceve un’identità nuova definita dal rapporto con il suo Salvatore. In questa realtà risiede la promessa di libertà e vita in una terra che Dio ha preparato per il suo popolo. È qui che s’innesta il canto di Debora, giudice, profetessa e poeta, la cui voce risponde alla visione prospettica della cantica del mare e infrange il modello ripetitivo di peccato, assoggettamento, angoscia e salvezza del libro dei Giudici, là dove l’intervento del Signore e la parola si fondono per rivelare Dio come identità e compimento del popolo. Debora, dal canto suo, diventa madre della nazione. Rimandi continui nel canto a Mosè e all’attraversamento del mare sottolineano come con Debora si realizzi idealmente la promessa in vista della quale Dio ha liberato il suo popolo. Come il canto di Miriam e Mosè, il suo è canto celebrativo, canto di vittoria, ma è anche canto profetico, perché addita il paradigma all’interno del quale il popolo avrà la vita.

Il discorso di genere porta l’autrice a identificare con precisione un filone che da Miriam giunge ad Anna, passando per Debora. Alla donna profetessa/poeta è affidato il ruolo di cantare l’intervento di Dio e annunciare il compimento futuro del suo disegno. Al di là delle contingenze orizzontali, la donna assume in Dio significato e valore trascendenti. Così Miriam, Debora e Anna, ma così anche Iael, Raab, Rut ed Ester che, in virtù di una femminilità posta al servizio della fede, realizzano la dimensione di Dio nella propria storia e nella storia del popolo.

Come la cantica del mare e il canto di Debora possono essere considerati due ferma libro di una medesima narrazione, così il canto di Anna e il lamento di Davide. In Anna la vicenda personale si fonde intimamente con le sorti della nazione e l’avvento della dinastia regale. L’intervento di Dio nella sua vita anticipa la dimensione ristorativa che appartiene a Davide e alla sua genia. Il tratto principale che accomuna le due figure e che i rapporti poetici con forza mettono in risalto è la loro fragilità e impotenza. Dio sceglie le cose che non sono, manifesta la sua forza nella debolezza, rialza l’oppresso e fa grazia al peccatore. Così facendo, egli rende il fragile individuo partecipe di un disegno che lo contiene e lo supera ad un tempo. Nel lamento di Davide, elementi privati e pubblici si sovrappongono. Da un lato, l’amore reciproco per Gionata, dall’altro, la chiamata a regnare osteggiata da Saul. L’attento studio dei termini, il cui significato viene negoziato attraverso il confronto con le fonti esegetiche rabbiniche, pare indicare come l’uno e l’altra, con i rapporti umani corrispondenti, siano definiti dall’amore e dalla sottomissione al Dio d’Israele.

Nel terzo capitolo, Ferrari affronta l’annosa questione della natura poetica del testo profetico. La risposta è che il testo profetico è poetico là dove sono presenti i tratti distintivi della poesia biblica, vale a dire parallelismo, ripetizione e l’elaborazione semantica, “capace di variare dal linguaggio figurativo al gioco di parole” (140). Così è per Osea, dove questi elementi sono funzionali alla metafora in forza della quale l’unione di coppia esemplifica il rapporto di Dio con Israele. Vocazione profetica e vita privata si legano intimamente e producono una voce il cui coinvolgimento è di per sé poetico. La metafora realizza, per rifrasare T. S. Eliot (The Metaphysical Poets), una associazione di sensibilità, e lo fa, come nel caso dei poeti metafisici e di Eliot stesso, attraverso, nelle parole di Samuel Johnson, “elementi eterogenei aggiogati insieme con violenza” (The Lives of the Poets). Promiscuità e adulterio sono giustapposti a fedeltà e amore e, da ultimo, i primi sono vinti dall’amore eterno e incondizionato di Dio. L’assoluta contrapposizione fra il rapporto coniugale in Osea e l’amore travolgente ed edenico del Cantico dei Cantici ha l’effetto di far affiorare un legame profondo nel segno del rovesciamento. Il legame è evidenziato, anzi tutto, da rimandi testuali e allusioni essenziali che sottendono una dipendenza di Osea dalla tradizione poetica che convergerà nel Cantico. Se il testo poetico in Osea emerge sullo sfondo del Cantico, lo fa, appunto, in termini di rovesciamento e parodia. L’abbruttimento del corpo di Gomer, terreno dall’adulterio spirituale e del perdono di Dio, è nel Cantico corpo femminile puro, terreno di poesia, che si fa strumento per parlare del mistero di Dio riflesso nell’intreccio chiastico della coppia (Io sono del mio diletto / e il mio diletto è mio – 6:3), proprio perché, come questa unione, anche la poesia sfugge a confini meramente razionali e del discorso referenziale.

Il cerchio del libro si chiude idealmente con due Salmi, il 126 e il 137, che insieme recuperano la prospettiva paradigmatica e complementare della cantica del mare e del canto di Debora. Il nucleo tematico dei due Salmi è costituito da Gerusalemme/Sion e dall’esilio. Il Salmo 137 presenta l’esilio in tutta la sua realtà terrena di alienazione e angoscia, dettate dallo sradicamento e dalla distanza da Sion e da tutto ciò che Sion rappresenta per il popolo. Speranza e visione sono qui interamente occultate allo sguardo del salmista. Non così nel Salmo 126, dove lo sguardo del popolo in esilio è proteso in avanti ed esulta alla luce della speranza del ritorno a Gerusalemme e della redenzione propiziata dall’avvento del Messia. L’autrice mostra come la tensione fra queste due realtà sia vissuta nella quotidianità ebraica e definisca nella storia l’identità del popolo di Israele, che alla città di Gerusalemme e al suo Dio lega il proprio esistere.

Poeti e poesie della Bibbia è un libro importante. Se la scrittura di Ferrari non possiede l’efficacia e la capacità di sintesi di Alter, metodo e conclusioni risultano solide e pregnanti. L’autrice mostra, in ultima analisi, che la poesia biblica fa cose che nessun testo argomentativo è in grado di fare. Essa è in grado di creare, per usare le parole di Rilke, “relazioni” fra testi, poeti, personaggi, eventi e temi distanti nel tempo e nello spazio ed è in grado di dare loro universalità e rilevanza, parlando all’esperienza umana e rivelando il Dio di Israele nel contesto di quell’esperienza.

(Filippo Falcone – DiRS GBU)

Tre domande su Karl Marx

  1. Il 2018 è, tra i tanti anniversari, il bicentenario della nascita di Karl Marx,  uno dei pensatori che più hanno influenzato il mondo contemporaneo. Cosa possiamo dire a proposito del suo pensiero?

 

Karl Marx è stato uno dei pochi filosofi che ha oltrepassato il semplice dibattito filosofico di tipo teorico. Può essere considerato insieme a Nietzsche e Freud uno dei plasmatori del pensiero occidentale del XX secolo. Ha iniziato come uno studioso di filosofia “classico” (la sua tesi era sulla filosofia antica), ma già nella sua giovinezza ha cercato di applicare il suo pensiero a problemi di tipo pratico, pur rimanendo essenzialmente un teorico. Dopo i primi anni in cui si è formato il suo materialismo ed il suo pensiero politico radicale, l’inizio della sua permanenza parigina lo fece incontrare con il pensiero dei primi socialisti. Da rigoroso studioso qual era ritenne che il socialismo che, all’epoca, giustamente cercava di affrontare il problema della ingiustizia sociale derivante dalla prima  industrializzazione, non aveva avuto un approccio scientifico. Per questo motivo si mise a studiare i primi economisti e svilupperà un pensiero che dava una chiara chiave di lettura della sua epoca e proponeva anche un ipotesi di miglioramento. Già nel confronto con la filosofia tedesca a lui contemporanea aveva affermato di voler “cambiare il mondo, piuttosto che semplicemente intepretarlo” e, in effetti, a partire dal 1848, l’anno della pubblicazione del Manifesto, si applicò a cercare delle soluzioni allo sfruttamento che derivava, in tutto il mondo, dal lavoro di fabbrica della prima età industriale. Per lui la storia è sempre stata una storia di lotta di classe. Ecco perché propose che la lotta, nel XIX secolo, avvenisse tra le due classi sociali emergenti: la borghesia che era riuscita in Europa a conquistare il potere economico e politico ed il proletariato che, invece, era sfruttato nelle fabbriche. La sua analisi dello sfruttamento capitalistico è sicuramente efficace ed è assolutamente ben documentata. La sua cripticità, soprattutto nella fase finale della sua opera (non porterà mai a termine il Capitale) e nei suoi manoscritti pubblicati postumi, ha fatto sì che siano state proposte diverse interpretazioni del suo pensiero, che derivano più dal background culturale degli interpreti che da una lettura autentica e spassionata dei suoi scritti. Ecco perché rimane uno dei filosofi ancora oggi più letti e criticati o ammirati ed alcuni dei maggiori pensatori odierni (Zizek e Antonio Negri in primis) affermano di rifarsi al suo pensiero.

 

  1. In che misura Marx ha influenzato la nostra cultura? Parafrasando Benedetto Croce, cosa è morto e cosa è vivo di Marx?

 

Benedetto Croce già agli inizi del XX secolo riteneva che la filosofia di Marx fosse inattuale, perché alcune delle condizioni che l’avevano fatta nascere erano profondamente mutate e perché era troppo collegata ad una concezione materialista della vita dell’uomo. In realtà proprio mentre Croce scriveva queste pagine, il marxismo conobbe il suo più grande esperimento di applicazione che fu la Rivoluzione Russa. Sicuramente Marx ha fortemente influenzato la cultura europea anche per il semplice fatto che per più sessant’anni una parte dell’Europa, a partire dalla Russia, pensava di attuare il suo programma per una nuova umanità. Sappiamo come il tentativo sia stato disastroso e come in realtà si sia fermato alla formulazione di uno stato totalitario e oppressivo piuttosto che ad uno società senza classi e senza Stato come ipotizzato nel Manifesto. Il pensiero di Marx ha influenzato grandemente anche l’Occidente europeo, sia da un punto di vista pratico che teorico. Il Ventesimo secolo ha visto nell’Europa Occidentale il fiorire di partiti di stampo socialista che in parte si rifacevano a Marx e che, almeno sino agli anni Ottanta del secolo scorso, hanno dato un apporto fondamentale al benessere della società ed ad una distribuzione più equa delle ricchezze. Dal punto di vista teorico, soprattutto in Italia, buona parte della cultura dopo la Resistenza e nella prima Repubblica si è rifatta a Marx ed ha cercato di influenzare la società ed anche la lettura dell’arte, della storia, delle manifestazioni culturali in genere in chiave marxista. Pertanto non possiamo dire che Marx sia “morto”. Ancora oggi la sua critica alla società capitalista può essere ampiamente usata come mezzo di analisi dello sfruttamento sociale, soprattutto quando andiamo al di là del concetto di Nazione e guardiamo al mondo globalizzato dove le ineguaglianze sociali sono ancora molto forti.

 

 

  1. Cosa si può dire da un punto di vista evangelico della filosofia marxiana? Il suo ateismo compromette la possibilità di aderire ad alcune delle sue idee? O ci sono possibili punti di incontro?

Insieme a Nietzsche e Freud, come sosteneva Ricoeur, la filosofia di Marx ha portato alla cosiddetta “filosofia del sospetto”, l’idea che, al di là della semplice analisi di superficie, i rapporti umani vanno letti con maggiore profondità. In questo il pensiero marxiano va apprezzato e Marx va letto con attenzione, soprattutto in quelle pagine dove descrive come avviene lo sfruttamento sociale, come una minoranza della popolazione viva a scapito della grande maggioranza. La Bibbia ci insegna che la giustizia è un valore che va difeso e che i deboli e coloro che sono sfruttati vanno protetti. In questo la filosofia marxiana può essere un ausilio per vedere dove si possono riscontrare le ingiustizie. Il pensiero di Marx rimane però distante su altri versanti: l’ateismo pronunciato, il messianismo intramondano e l’idea di una lotta non pacifica. Per Marx Dio non esiste e la religione, pur essendo di sollievo al popolo, può diventare la sua droga quando assopisce l’idea di migliorare la società e impedisce alle classi subordinate di lottare anche in maniera violenta. Pertanto essere religiosi è apparentemente in contrasto con il suo pensiero. Marx spera in un mondo migliore avendo fiducia nelle risorse umane, sperando che questo diventi una specie di Paradiso per tutti. Per questo (e probabilmente qua il suo ebraismo di origine ha avuto qualche influenza) possiamo parlare di una sorta di messianismo in cui il proletariato diventa il Messia che attua il sogno di un mondo migliore. L’altro aspetto contraddittorio è sicuramente quello della lotta anche violenta. La volontà di pace e di armonia all’interno dell’umanità è in contrasto con una lotta di classe che sfoci in atti violenti come talvolta è successo. Allo stesso tempo, riteniamo che il pensiero di Marx rimanga una critica dell’economia dominante ed un’analisi della società e delle sue ingiustizie che va ascoltata con grande attenzione anche dai credenti che sperano nel ritorno di Cristo, ma che vogliono anche una società equa qui sulla terra.

(Valerio Bernardi)

 

 

 

 

 

 

 

Tre domande a Giancarlo Rinaldi su Bibbia e archeologia

  1. Lo studio dell’archeologia può aiutarci a comprendere la Bibbia?

Risposta: Bisogna prioritariamente definire cosa intendiamo per “archeologia”. Il termine è di derivazione greca e sta a significare “studio delle antichità”. Dunque la disciplina che noi comunemente chiamiamo Archeologia Biblica consiste nello studio del contesto nel quale vanno collocate le narrazioni dei libri biblici e la loro composizione. Questo studio si avvale sia di fonti letterarie (opere storiche dell’antichità), sia di fonti documentarie (scavi archeologici, iscrizioni, papiri, monete, etc.). Bisogna fare un’altra premessa: se crediamo che la Bibbia sia parola di Dio dobbiamo però necessariamente ammettere che questa è calata perfettamente nella dimensione umana, e l’uomo vive nella sua storia. La fede d’Israele e, poi, quella cristiana sono incarnate nella storia e possono essere comprese, prima ancòra che professate, soltanto prestando attenzione all’aspetto umano, storico, direi ‘materiale’ nel quale hanno preso e prendono corpo. Poste queste premesse possiamo affermare che l’archeologia è indispensabile per comprendere appieno il mondo e il messaggio della Bibbia. La Bibbia non è un astratto libro di preghiere, è la rappresentazione di una vicenda che ha come protagonisti Dio e un popolo in ascolto, tale rappresentazione la cogliamo nel contesto della storia del vicino oriente antico o della prima età imperiale romana.

 

  1. Le conferme che l’archeologia può dare alla storicità del racconto biblico possono essere utilizzate come prova della sua ispirazione? Decide l’archeologia cosa credere o non credere della Bibbia?

Risposta: Nel mondo evangelico è molto diffusa la convinzione che l’archeologia debba fornire prove alla storicità dei racconti biblici e che queste debbano essere fatte valere per convincerci che la Bibbia è ispirata da Dio e, ancòra di conseguenza, noi dobbiamo riconoscerla come parola di Dio. Questa serie di argomentazioni ci consegnano un ragionamento molto fragile. Iniziamo dall’ultimo punto: che la Bibbia ci trasmetta la voce di Dio non dovrà e non potrà essere provato dalla pala dell’archeologo, si tratta di una persuasione interiore di ordine spirituale ben più profonda delle schede d’archivio di rinvenimento dei reperti. La ricostruzione storico archeologica del contesto della Bibbia ci aiuta a comprenderla ma non è da sola efficace a persuaderci della sua natura ispirata. D’altro canto se dovessimo riconoscere il carattere ispirato di ogni narrazione antica che si sia dimostrata attendibile al vaglio della ricerca storico archeologica potremmo definire ispirate da io molte pagine di storici come Tucidide, Tacito, Svetonio, ma così non è. Dunque non è l’archeologia a modellare il nostro credo, pur se da essa apprendiamo una meravigliosa lezione di metodo da spendere anche ai fini spirituali. Mi spiego. Quando noi leggiamo la Bibbia siamo spontaneamente portati a interpretarla alla luce di nostre precomprensioni che sono il frutto di una secolare sedimentazione archeologica. In altre parole siamo portati a proiettare in quelle antiche Scritture le nostre tradizioni confessionali. Ma così non deve essere: per comprendere un testo, un qualsiasi testo, è il prima che spiega il poi e non viceversa. Molte difficoltà di comprensione della Bibbia stanno nella nostra lontananza dall’epoca e dalla cultura in cui essa venne scritta. Lo studio delle antichità ci aiuta a recuperare il punto di osservazione degli originari destinatari di quegli scritti. In fine non dobbiamo mai dimenticare che la Bibbia fu composta per uno scopo specifico: comunicare salvezza ai peccatori e santificazione ai credenti; è in questo straordinario messaggio che noi ascoltiamo la voce di Dio, anche se essa è avvolta (talvolta fusa e confusa) da una scorza di parole, orditi grammaticali e sintattici, usi e costumi degli uomini dell’antichtà. Questo concetto è espresso molto chiaramente in 2 Timoteo 3,16 laddove, parlando dell’ispirazione scritturistica la si mette in relazione all’insegnamento che conduce alla fede e alla giustificazione al cospetto di Dio. “La Bibbia non è scritta per descriverci come sono fatti i cieli, ma per condurci al cielo”, come il buon Galileo Galilei, a quanto si riferisce, soleva ripetere.

 

  1. Quali sono i periodi della storia biblica per i quali i reperti archeologici sono più abbondanti e significativi? Quali, invece, i periodi per i quali si ha difficoltà a rinvenire reperti che rimandino ai racconti biblici?

Risposta: Diciamo sùbito che per l’età del Nuovo Testamento disponiamo di una maggior dovizia di documenti e d’informazioni. I ventisette libri che compongono il suo racconto coprono il periodo della dinastia imperiale Giulio Claudia, da Augusto a Nerone. Libri come gli Atti degli Apostoli, ad esempio, sono una descrizione vivissima della vita nel Mediterraneo di allora, una vera miniera di notizie per l’archeologo! Ma anche in un testo tutto simboli, allegorie e velami come l’Apocalisse di Giovanni possiamo ravvisare riferimenti all’età degli imperatori Flavi e posso dire che il veggente di Patmos nel descrivere eventi del futuro ha adoperato colori e modelli dell’età sua che, come sembra, è quella di Domiziano. Certo ameremmo sapere qualcosa in più per quanto riguarda altri periodi, come il soggiorno in Egitto e l’età della dominazione persiana, ma non possiamo dire che luci dalla ricerca archeologica non ve ne siano. Persino la cosiddetta “preistoria biblica”, cioè la narrazione dei primi capitoli del Genesi, acquisisce più profondo significato se la si confronta con le tradizioni del Vicino Oriente Antico; da questo confronto, infatti, emergono elementi di affinità ma anche di originalità della narrazione biblica che ci aiutano a meglio intendere quei generi letterari attraverso i quali Dio trasmise il Suo messaggio.

 

Vedi il calendario dei seminari presso la Sala di Lettura GBU: Comprendere la Bibbia … grazie all’archeologia

Giancarlo Rinaldi ha insegnato Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si è interessato in particolare al rapporto tra cristianesimo e paganesimo con particolare attenzione alla percezione del secondo nei confronti della diffusione della fede cristiana.

Blog personale

 

Tre domande a Valerio Bernardi su razze, etnie e culture

  1. Qualche giorno fa tutte le associazioni di antropologi italiani (sia fisici che culturali) hanno pubblicato un breve documento intitolato Razza e dintorni (consultabile a http://pikaia.eu/razza-e-dintorni-la-voce-unita-degli-antropologi-italiani/), in cui ribadiscono, in maniera sintetica qual è lo stato dell’arte sulla questione della razza e delle differenze etniche e culturali in antropologia. Cosa puoi dirci di questo documento da esperto del settore?

 

Al contrario di quello che pensa la opinio communis il concetto di razza è stato, almeno a partire dagli anni 1960 del secolo scorso, superato dalle scoperte della genetica. Oggi sappiamo che, a livello di DNA, le differenze sono molto minori tra quelle che una volta erano considerate le razze, rispetto a quelle che ci possono essere tra singoli individui. Un “bianco” potrebbe avere più caratteristiche genetiche in comune con un “nero” rispetto al suo vicino bianco. Questa “scoperta” di tipo scientifico non ha risolto la questione delle differenze culturali. Il documento infatti spiega che gli antropologi si occupano proprio di queste differenze culturali e ammettono che queste esistono, pur partendo da livelli iniziali dell’individuo che sono uguali. L’antropologia culturale riconosce che gli “strumenti” che l’uomo ha a disposizione per formare il proprio bagaglio culturale è identico (lo ribadiva alla fine degli anni 1950 Claude Lévi-Strauss nel Pensiero selvaggio), ma la società in cui si vive porta a differenze che vanno riconosciute. Nelle società si formano, anche per rassicurare il proprio essere umani, sensi di appartenenza che possono diventare veicolo anche di discriminazione da ciò che ritengo sia i l mio patrimonio rispetto a quello che ritengo sia quello degli altri, che vengono vissuti come “estranei”. La “discriminazione”, pertanto, non è un fatto razziale, bensì culturale, formatasi per ragioni storiche e sociali. Qualsiasi tentativo di difesa della razza, come quelli avvenuti nel secolo scorso, non ha fondamento scientifico. Esiste però, soprattutto in persone nate e cresciute in ambienti diversi, una forte differenziazione culturale e sociale che è quella che poi porta a vedere lo straniero che vive nelle nostre città come un estraneo, un diverso,  una persona da cui ci sentiamo minacciati. Gli antropologi portano all’attenzione del lettore un’altra questione: il fatto che le culture, benché possano essere diverse, non possono essere considerate “pure”; in quanto anche da un punto di vista culturale noi siamo frutto di  una perenne contaminazione che deriva dal fatto che scambi e migrazioni sono costanti nella storia dell’homo sapiens, a iniziare dall’era delle glaciazioni.

 

  1. Il 2018 è un anno di celebrazioni che hanno a che fare con il razzismo e con i problemi che tale atteggiamento ha causato alla società occidentale, in quanto ricordiamo sia gli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia che i cinquant’anni dall’assassinio di Martin Luther King jr. Ritieni che il razzismo sia un problema superato per la nostra società oggi?

 

Ritengo che nel mondo occidentale, anche a causa dei processi innescati dalla globalizzazione (un maggiore movimento di persone provenienti dai paesi poveri e da culture differenti), dopo un momento di “pausa” iniziato negli anni Settanta del secolo scorso, si sia tornati, soprattutto a partire dagli inizi del XXI secolo, ad avere atteggiamenti discriminatori che sfociano in comportamenti razzisti e nella “rivalutazione” della identità (nazionale, culturale e razziale). L’etnocentrismo (ritenere la propria etnia o cultura al centro e migliore di quelle degli altri) è un atteggiamento comune a qualsiasi cultura o nazione, che ha bisogno di potersi identificare in alcune certezze per creare una comunità coerente. Molto spesso le identità sono totalmente inventate (non a caso alcuni studiosi parlano di “imbroglio etnico”, si pensi all’idea che in Italia si è diffusa di una “cultura padana” o di un meridione come eldorado durante il periodo borbonico, idee assolutamente non fondate né da un punto di vista storico né sociale). La verità è che noi siamo il frutto di  un perenne “meticciato” che ha permesso la formazione della nostra cultura, anche in alcune maniere di vestire e persino in alcuni cibi, che non esisterebbero se non ci fosse stato il cosiddetto “scambio ecologico”. Si pensi alla pizza che è oggi considerata un cibo identitario per un italiano e che non esisterebbe senza i pomodori che provengono dall’America. In un anno come questo, fatto di commemorazioni che hanno a che fare con il razzismo (sia  italiano che estero) bisogna tornare ad avere un allarme alto nei confronti di qualsiasi forma discriminatoria che derivi o dalla paura dei migranti o da un rigurgito di antisemitismo di cui l’Europa non sembra essere esente. La ricerca di una propria identità e il voler escludere gli altri è un problema che difficilmente viene superato e su cui bisogna vigilare. L’antropologia ha un grande compito nel suo ruolo pubblico: convincere le persone che la differenza razziale sorge da pregiudizi e può portare a derive pericolose, come sono state quelle dell’Italia del 1938, quando furono promulgate leggi in cui si discriminava sulla base della presunta esistenza di una razza ariana e si dava di tutto questo motivazioni scientifiche (come quelle che apparvero nella rivista la Difesa della Razza) o dell’Apartheid in Sud Africa.

 

  1. Da un punto di vista teologico-biblico cosa possiamo dire a proposito di atteggiamenti razzisti o etnocentrici?

Il testo biblico, nonostante le discussioni che vi sono state nel XIX secolo negli USA e nel XX in Sud Africa soprattutto (ma non solo) da parte di alcune chiese riformate, è abbastanza chiaro: per Dio non vi sono distinzioni dal punto vista razziale e le uniche differenze possono essere causate dalla caduta dell’uomo nel peccato. Il racconto biblico della Creazione è chiaro: Dio ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza e la differenziazione culturale che porta anche all’idolatria, è causa del peccato e dell’orgoglio umano, come è chiaro nel racconto di Babele, dove le diverse lingue (e culture) nascono a causa del peccato: prima di Babele avevamo una sola umanità, senza alcuna distinzione di razza, lingua o cultura. Dopo l’esclusivismo ebraico che, come etnia (anche qui si può parlare di stirpe e non di razza) ha avuto come suo scopo la venuta del Salvatore del mondo, il cristianesimo è pronto ad aprirsi al mondo ed ha una vocazione ecumenica in cui le culture, pur se rimangono tali, non contano nel piano di salvezza. Il messaggio del Vangelo pertanto è chiaramente antirazzista e antinazionalista, perché il mondo di quaggiù è un qualcosa di provvisorio e nella restaurazione del Creato non vi è posto per differenziazioni all’interno della specie umana. L’apostolo Paolo lo dice chiaramente ai Galati che la differenza etnica in Cristo non ha più ragion d’essere. Ecco perché il credente dovrebbe essere schierato (per dirla con l’antropologo Remotti) contro l’identità etnica e particolaristica e a favore di un’identità universale che coincida con il Vangelo.

 

Valerio Bernardi è docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Quinto Orazio Flacco di Bari e presso l’UNiversità degli Studi della Basilicata. E’ membro del Comitato Editoriale di Edizioni GBU e del DiRS-GBU

Tre domande a Roberto Garaventa su Bibbia e violenza

Inizia con questo articolo il percorso di avvicinamento al XIII Convegno nazionale GBU (7–9 dicembre 2018) che avrà come tema proprio il tema della violenza: “Il Dio della Bibbia è un Dio violento?“.
Abbiamo posto queste domande al prof. Garaventa quale esponente informato e appassionato di una visione filosofica che si interroga continuamente su temi del genere (leggi qui il suo curriculum). La sua analisi, esterna alle convizioni che come GBU abbiamo sulla Bibbia e su Dio (Basi di fede) ci è utile, quale sfida lanciataci con gentilezza e rispetto, per comprendere la posta in gioco del dibattito sulla violenza ma anche per stimolarci affinché ci studiamo di comprendere in che modo la nostra fede nella Bibbia quale Parola ispirata di Dio debba prendere seriamente in carico le domande che ci vengono dai nostri contemporanei.

Ringraziamo dunque il prof. Garaventa per averci offerto questo straordinario spaccato e auspichiamo un dibattito aperto tra i lettori di questo post (anche tramite i commenti) e degli altri che verranno, in attesa di porci poi tutti quanti all’ascolto della Bibbia nel Convegno di dicembre.

Giacomo Carlo Di Gaetano (giacomocarlodigaetano@gbu.it)

 

 

  1.  Prof. Garaventa, la Bibbia contiene pagine in cui sono descritte e presentate diverse forme di violenza. Che cosa pensa di quelle pagine?

Il fatto che la Bibbia non solo descriva e presenti forme di violenza, ma sopratutto sia piena di morti ammazzati nel nome di Jahvé (come è noto, spesso è lo stesso Jahvé a condurre in battaglia il suo popolo e a ordinare lo sterminio dei nemici di Israele, mentre molte importanti figure della storia ebraica non hanno avuto scrupoli a spargere sangue umano in nome del “signore degli eserciti”), mostrando così un’arcaica tendenza alla violenza e alla crudeltà sia contro popoli stranieri seguaci di altre fedi, sia contro i membri del popolo d’Israele sostenitori di concezioni di fede e di norme di comportamento divergenti da quelle dominanti, dimostra a) che la Bibbia nel suo complesso non può essere addotta a sostegno del principio della sacralità e quindi della inviolabilità della vita, visto che in tali passi Dio non sembra affatto curarsi di ciò; b) che la guerra santa non è stata sempre e solo appannaggio della tradizione islamica; c) che è impossibile considerare la Bibbia (che per altro contiene molteplici e diverse immagini di Dio) quale unica istanza interpretativa di ciò che è bene o male, giusto o ingiusto, come invece sostengono, dal versante cattolico, la costituzione dogmatica Dei verbum sulla divina rivelazione del 1965 (per cui tutto quanto è contenuto ed è presente nelle Sacre Scritture è stato scritto “sotto l’ispirazione dello Spirito Santo” e ha “Dio come autore”; i testi biblici contengono “tutto ciò e solo ciò” che Dio voleva fosse scritto e insegnano “sicuramente, fedelmente e senza errore” la verità e quindi devono valere come sacri e canonici “nella loro totalità e con tutte le loro parti”) e, dal versante luterano-evangelico, la Formula di Concordia del 1580, per cui la Sacra Scrittura è l’unico criterio (“unico giudice, regola e istanza”) in base a cui giudicare la bontà o meno di tutte le dottrine (Allein die heilige Schrift bleibt der einige Richter, Regel und Richtschnur, nach welcher als dem einigen Probierstein sollen und müssen alle Lehren erkannt und geurteilt werden, ob sie gut oder bös, recht oder unrecht sein). C’è invece sempre bisogno di ermeneutica.

 

  1. Crede che la violenza sia insita nella natura di Dio così come è presentata nella Bibbia?

Ogni religione storico-positiva, nella misura in cui ritiene di fondarsi su una «rivelazione» divina indiscutibile e quindi rivendica per sé il possesso (esclusivo o inclusivo) della verità, si trova a dover fare i conti con altre religioni storiche che sollevano la stessa pretesa. Nasce così il problema di come una fede religiosa «assolutisticamente» intesa debba rapportarsi alle altre fedi religiose «assolutisticamente» intese: missione o dialogo? Ora, che la fede in un unico Dio (tratto che accomuna ebrei, cristiani e musulmani) abbia prodotto storicamente forme di «suprematismo zelotico e fanatico» (P. Sloterdijk), ovvero sia stata storicamente fonte d’intolleranza e di violenza inter-religiosa e intra-religiosa, è un dato storico difficilmente contestabile. È vero che la violenza è stata ed è presente anche nelle religioni non-monoteistiche (basti pensare alla centralità del sacrificio cruento in tutte le grandi tradizioni religiose dell’umanità). Tuttavia si può legittimamente sostenere, come ha fatto Jan Assmann, che la «distinzione» (operata per la prima volta da Mosè all’interno di un mondo fondamentalmente politeista, ma fatta propria anche da cristianesimo e islamismo) «tra vero e falso in religione», ovvero «tra il vero Dio e i falsi dèi, tra ortodossia ed eresia, tra scienza e ignoranza, tra fede e miscredenza», contenga in sé i germi di una «strutturale intolleranza» e sia quindi foriera di violenza religiosa. Infatti, ciò che adesso viene bollato come «falsità», «idolatria», non viene più considerato il frutto di mera ignoranza (errore involontario, semplice abbaglio), bensì, alla luce della rivelazione «assolutisticamente» intesa, viene visto come la conseguenza di un atto di voluta disubbidienza (miscredenza, caduta, peccato), se non addirittura di un rigetto da parte di Dio. Il che porta la comunità religiosa interessata ad assumere un atteggiamento intransigente e intollerante nei confronti di chi la pensa in modo diverso e, quindi, a respingere, escludere, cacciare, ostracizzare, se non addirittura a uccidere l’infedele, il miscredente, l’eretico. L’episodio del vitello d’oro (Gn 32) e le orge di violenza di Elia (1Re, 17-19) mostrano paradigmaticamente in che modo l’ebraismo, per difendere la retta dottrina e il retto comportamento e distinguersi rispetto al mondo religioso esterno, abbia proceduto alla discriminazione, all’espulsione e all’eliminazione dei dissidenti interni. E in effetti la violenza è stata spesso utilizzata con l’esplicita e consapevole intenzione di difendere le proprie verità di fede e di proteggere il proprio sistema di valori da qualsiasi avversario o nemico che vi si opponga o non vi si attenga o, semplicemente, professi altre verità e altri valori. Per conservare puro e intatto il proprio bagaglio religioso-culturale da ogni forma di contaminazione, le religioni rivelate hanno utilizzano anzitutto il disprezzo, la scomunica, la prescrizione e il bando, ma spesso (anzi fin troppo spesso) esse hanno fatto ricorso alla violenza armata (guerre missionarie, guerre sante, crociate), senza farsi alcuno scrupolo di utilizzare tutte le possibili varianti della crudeltà umana pur di eliminare e distruggere fisicamente il nemico (mago, strega, seduttore, eretico, miscredente). E alla violenza annientatrice hanno ripetutamente fatto ricorso non solo per difendere, ma anche per diffondere e imporre la propria fede quale unica verità e unica via di salvezza. Oggi la violenza contro i miscredenti, in nome e per la gloria di Dio, viene usata soprattutto dal fondamentalismo islamico, ma, se confrontiamo le motivazioni teologiche un tempo addotte per legittimare le crociate, possiamo notare molte affinità con quelle addotte oggigiorno in favore del jihad.

 

  1. Crede che il cristianesimo sia una religione violenta o che contenga in sé i germi della violenza, al punto tale da essere una religione pericolosa per la convivenza tra i popoli, ma anche per lo sviluppo dell’individuo?

Tutte le religioni (compresa quella cristiana) sono realtà ambigue e pericolose, nella misura in cui pretendono di disporre dell’unica, vera manifestazione di Dio. Inoltre, per quanto concerne il cristianesimo, ciò che è realmente decisivo e rilevante per la fede cristiana sembra essere non tanto il Gesù storico, quanto il Cristo testimoniato e annunciato dalla chiesa, che ha raccolto e selezionato le testimonianze su Gesù e ha fissato il canone dei testi sacri. La chiesa però è un’istanza terrena che pretende di avere l’autorità di imporre la giusta interpretazione e a cui i credenti devono ossequio ed obbedienza. Quindi ciò con cui abbiamo a che fare è in realtà soltanto un’istanza umana (spesso maschile), che pretende di parlare a nome di Dio. La parola della chiesa non è però la parola di Dio come tale, bensì soltanto la parola di un’istanza mondana che rivendica per sé il potere di parlare in nome di Dio. Se però già il kérygma è un’interpretazione umana, non è facile fissare un confine netto tra ciò che bisogna accettare per obbedienza e ciò che si può discutere criticamente. D’altra parte, ogni tentativo di comprendere il kérygma depositato nelle Sacre Scritture, non ha fatto che produrre nuove e diverse interpretazioni del messaggio originario (Hans Küng conta almeno cinque o sei macro-paradigmi nella storia del cristianesimo), producendo una serie infinita di discussioni, conflitti e guerre tra le differenti confessioni cristiane, nonché favorendo la nascita delle più diverse forme di fondamentalismo. I fanatici che pretendono di sapere con certezza ciò che Dio dice e vuole (in quanto non avvertono l’ambiguità presente in tutte le esperienze della voce di Dio) non riescono più a parlare tra loro e con noi da uomini. Se sono impotenti, sono gentili con noi. Se sono potenti, ci uccidono. Solo un ritorno al Gesù storico ci può salvare.

 

Prof. Roberto Garaventa
Ordinario di Storia della filosofia contemporanea
Dipartimento di Scienze Filosofiche, Pedagogiche ed Economico-Quantitative
Università di Chieti

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